Un male oscuro della Chiesa: gli abbandoni sacerdotali
di Caudia Quattrocchi
E’ uno dei tanti termini ancora «proibiti» all’interno della Chiesa cattolica: defezione. Fino al 1968, come si sottolinea nella rivista «Sulla strada», trimestrale del movimento «Vocatio» , col termine defezione si è indicata la «presentazione della domanda di dispensa, mentre per il periodo successivo si è inteso anche l’abbandono di fatto del ministero sacerdotale». Secondo una stima del periodico «Fraternità» (7/9/2000) si conterebbero circa cinquantamila sacerdoti, diocesani e religiosi «laicizzati» e attualmente viventi nel mondo. Cifre e termini che delineano una figura di religioso in crisi, posto nella condizione di dover mediare le istanze più diverse: quelle di colui che avendo preso i voti deve obbedire in silenzio alle decisioni della gerarchia, quelle connesse al difficile rapporto con i fedeli e il mondo contemporaneo, quelle insopprimibili legate all’essere anch’egli un uomo che vive di sentimenti e passioni. E’ nel numero di gennaio 2001 che il mensile «Vita Pastorale» (Edizioni Paoline), pubblica un dossier di dodici pagine dedicato all’argomento e intitolato: «Affanno e abbandono. Perché si lascia il sacerdozio?». L’inchiesta attinge sostanzialmente ad una ricerca dell’Istituto Eurisko di Milano coordinata dal sociologo cattolico Franco Garelli condotta su un campione di 800 preti, di età compresa tra i 24 e i 74 anni. Cosa spinge, dunque, un prete ad «abbandonare»? Innanzitutto con ragione si può affermare che neanche la «monolitica» Chiesa cattolica, al suo interno, sia priva, oggi come ieri, di «conflitti generazionali»come sottolinea un certo don M. in un articolo di «Vita pastorale» intitolato «Giovani tuttofare e anziani immobili». Vi si rimprovera ai «giovani»di svolgere: "più una funzione da professionisti più che da profeti"; e li si definisce «impegnati più in una pastorale presenzialista che di formazione di coscienze e di spiritualità interiore». E si continua: "Non hanno tempo per la preghiera personale e “solitaria”; troppo sicuri di sé, riservano ai sacerdoti anziani un’aria di compatimento". Di quest’ultimi, d’altro canto, i giovani biasimano il fatto che "si ritirano nella loro solitudine; al principio accettano il prete giovane, ma poi cominciano a diffidare e si induriscono i rapporti…..culturalmente sono fermi, diffidano delle nuove teologie, non amano stravaganze e liturgie innovative". Uno spaccato rappresentativo della perenne dialettica in seno alla Chiesa tra il tendenziale «progressismo» delle nuove generazioni sacerdotali e il conservatorismo di una certa parte della «vecchia» gerarchia. Ma altri tipi di fattori agiscono più in profondità tanto da far maturare l’idea, comunque quasi sempre difficile e sofferta, dell’abbandono. Nel percorso che spinge a diventare prete vi è un primo momento di forte spinta ideale: il desiderio di essere d’aiuto, anche concretamente, al prossimo, la possibilità di seguire una «via di santità». Ma dalle relative inchieste sociologiche risulta che una rilevante difficoltà si presenta per gli aspiranti sacerdoti proprio al momento dell’impatto con una vita di studi teologici scandita troppo rigidamente da orari, norme, vincoli, capaci di soffocare ogni aspirazione a spazi di libertà personale. In tante testimonianze ricorre la denuncia di come questa «ordinata preghiera» viene alla fine ad essere vissuta con sterilità e praticata per puro dovere. Conclusi gli studi si inizia ad esercitare il ministero. Al prete viene affidata una o anche più parrocchie. Ed è evidente come il salto da uno stile di vita contemplativo e dedito allo studio ad un altro, fatto di responsabilità concrete e spesso pressanti, determini un forte senso di disorientamento iniziale del prete che, con il passare del tempo, può causare stanchezza e demotivazione. Il prete di oggi -continua l’inchiesta - non è più per i fedeli soltanto un confessore, una guida spirituale, ma sempre più spesso un analista che troppo di frequente si carica dei problemi altrui dimenticando i propri. Due sono i pericoli (naturalmente nell’ottica della chiesa gerarchica) che, a questo punto delinea l’inchiesta di Garelli: da una parte che il religioso si dedichi interamente al «fare» per poi essere emarginato se colto da malattia o quando sopraggiunge un’età più avanzata, dall’altra che si chiuda in un atteggiamento intellettualistico cercando in quella che “Vita pastorale” definisce «un’adolescenza prolungata» un’ulteriore via di fuga. Ma forse il dato che più di tutti determina la crisi di tanti religiosi è quello della solitudine esistenziale e della necessità di avere relazioni affettive «umane», di poter avere una propria famiglia. Non è certo un caso che il tema del celibato ecclesiastico sia attualmente molto dibattuto anche all’interno della chiesa, nonostante una rigida chiusura delle gerarchie su questo tema. I dati statistici dell’indagine dell’ Eurisko pubblicati anche dall’ agenzia di informazione «Libera e laica su: la Chiesa, le Chiese, la politica, le religioni, le teologie, i movimenti, le sette, le comunità ecclesiali, il consenso ed il dissenso, la diplomazia e la profezia, le voci dei senzavoce... » ADISTA N. 13 (17 febbraio 2001) (clicca) documentano in conclusione che tra i sacerdoti in attività il 56% si dichiara molto o abbastanza soddisfatto della propria identità sacerdotale, ma il 19% non lo è e il restante 25% non si sbilancia. Tuttavia, se molti sacerdoti continuano il loro ministero tra sentimenti di delusione, di recriminazione, di rassegnazione alla routine (il 44 %,comunque, non si dichiara soddisfatto!), altri si decidono al passo radicale di «liberazione»: l’abbandono. Il tema dell’abbandono del ministero sacerdotale corrisponde ad una realtà scomoda per la Chiesa. Ogni abbandono è da questa sentito come un proprio fallimento. Ma come si pone la Chiesa nei confronti di chi ha abbandonato? Come si vive da «spretati»? Quali sono di norma i rapporti, ammesso che ci siano, tra «chi rimane dentro e chi esce»? Per rispondere a queste domande più delicate, vista la non casuale carenza di studi statistici ufficiali, è necessario fare riferimento più che altro a testimonianze personali, spesso conoscibili attraverso lettere inviate a riviste, cattoliche e non. La casistica è fra le più varie e coinvolge naturalmente anche molte suore. Un’ ex- religiosa, ad esempio, vissuta per ventisei anni in un istituto religioso femminile, dopo essere stata vari anni all’estero, insegna per oltre dieci anni nel liceo dell’istituto. Entra in crisi e decide di vivere da laica consacrata. Viene dimessa senza aiuti economici dopo freddi colloqui con i superiori, «viene facilmente abbandonata e non più contattata neppure telefonicamente, nemmeno per domandare come sta e se ha i mezzi per vivere. Talvolta si trova accompagnata da sorrisini ironici o di compatimento che possono molto ferire, specie in certe situazioni». Le viene fatto presente che la vita religiosa non è un rapporto di lavoro e che, entrando in noviziato, aveva firmato il seguente impegno: «non richiederò nulla per il lavoro svolto in istituto». Non le erano stati mai versati i contributi previdenziali ai fini della pensione. (da ‘Testimoni’, quindicinale di informazione, spiritualità e vita consacrata. 15 Ottobre 1996). Un religioso, poi, che si firma con le iniziali E. L. racconta di essere stato lasciato "a tu per tu con se stesso". "Dopo aver parlato col vescovo della decisione di abbandono del sacerdozio, nel giro di una settimana ero senza casa, senza lavoro, senza un mestiere e anche senza un soldo. Qualche prete mi avvicinava, ma solo per verificare se c’erano spazi di ravvedimento: una volta costatata la loro assenza si dileguavano."(30769 ALBA - ADISTA) E poi casi ancora più gravi. Un ex- religioso di 36 anni dopo otto anni di vita in comunità ne è espulso senza che nulla gli venga restituito di quanto aveva donato alla congregazione all’atto dell’ingresso (dal sito web «pretionline.it»); ancora: un frate presta servizio di cuoco in un convento per un’intera vita ma non ha diritto ad una pensione perché il Tribunale di Trento dichiara che ha svolto, sì la sua attività lavorativa «ma non in maniera abituale e prevalente»( v. ‘Il Giornale’, 20-2-2001). Come si esprime la Chiesa su questo tema? In un documento della Congregazione dei religiosi del 25 gennaio 1974 si legge: «Ogni famiglia religiosa ha l’obbligo di provvedere al bene spirituale, morale, sociale e temporale dei propri membri» così deve fare, «benché per altro titolo ed entro certi limiti, anche verso coloro che lasciano l’istituto, soprattutto dopo parecchi anni di vita religiosa». Ancora la Santa Sede sul piano di un intervento concreto: "Anzitutto è necessario aiutare efficacemente colui che esce, per il suo inserimento nella vita sociale, nella forma più rispondente alle sue capacità". D’altra parte, a queste apprezzabili quanto vaghe affermazioni si accompagnano altre osservazioni, come il chiarimento che chi lascia la vita religiosa «nulla può pretendere per qualunque lavoro in essa svolto» poiché "sarebbe snaturare l’indole degli istituti religiosi considerarli alla stregua di un’azienda". Tale complesso problema viene facilmente risolto, come evidenzia la rivista «Testimoni» (da cui sono tratti questi documenti), con facili giustificazioni : «la scelta della vita religiosa può comportare un certo rischio per il futuro e deve esserne consapevole chi entra. E’ una componente essenziale di quel «lasciare tutto», anche le garanzie umane, che è parte costitutiva del seguire Gesù»(!). Questa ambiguità di atteggiamento è stata però risolta e «chiarita» in modo definitivo sul piano della concretezza quando dalle pagine dell’«Avvenire» del 10 gennaio1995 si è decantata una «storica vittoria». A seguito di ricorsi giudiziari promossi da singoli ex-religiosi, tendenti a farsi riconoscere l’esistenza di un rapporto di lavoro con le rispettive congregazioni, l’ Inps ha ceduto infatti alle richieste degli enti religiosi e con la circolare n. 51 del 18 febbraio 1995 si è pronunciata considerando le attività dei religiosi negli istituti (scuole, case di riposo, convitti) come svolte per motivi unicamente religiosi e non di carattere lavorativo. Vittorio Spinelli sottolineando, appunto, l’importanza «storica» della «vittoria» ha affermato su quel giornale che da allora: "la tranquillità dei chiostri e dei conventi non è stata più turbata dagli ispettori della previdenza".( 28480. ROMA - ADISTA) Turbata, e spesso per sempre compromessa, è invece la vita di chi ha deciso di riacquistare la propria libertà. Se la chiesa, nella propria ottica e secondo il proprio interesse, ritiene di poter risolvere casi umani anche drammatici, nella migliore delle ipotesi, con la pratica della carità’(!) non dovrebbe subentrare lo Stato con una legislazione ad hoc che tuteli giuridicamente ed economicamente coloro che, decidendo di «lasciare l’abito», si sono trovati totalmente privi di ogni beneficio previdenziale? Perché non destinare poi una quota dell’8 per mille che lo Stato raccoglie per il Vaticano ad un fondo di assistenza per gli ex-religiosi e ex-religiose in difficoltà? Ma quale forza politica avrà mai il coraggio di affrontare una tematica di tal genere? Nell’Italia clericale ed opportunistica è forse un sogno irrealizzabile quello di un riconoscimento vero di pari dignità e pari diritti per tutti i cittadini. Un sogno troppo…giacobino. Tratto da |