La donna e Dio

di Umberto Galimberti (Dweb - La Repubblica delle donne))

Prescrive il Levitico (21,8) alla sposa del sacerdote: "Tu lo tratterai dunque quale persona sacra, perché egli offre il pane del tuo Dio; sia per te una persona santa, perché santo sono Io che vi santifico"


Il celibe Papa ha messo ufficialmente i piedi nel piatto scientifico degli embrioni, auspicando al più presto uno statuto dei diritti dell’embrione, saltando a pié pari quello dei diritti della madre e distogliendo inoltre l’attenzione dalla carta europea ed internazionale dei diritti dei bambini dove si sancisce che "ogni minore ha il diritto di conoscere i suoi genitori o di essere educato da loro in persona". Per avere quindi il diritto di pronunciarsi sulla prenatalità, bisognerebbe avere prima le carte in regola con i diritti dei minori già nati. Solo nella luterana Germania seimila sono i figli clandestini del clero cattolico celibe che o non conoscono il padre o non possono chiamarlo papà. In Italia sono molto più numerosi ma i mass media hanno il bavaglio vaticano. I figli del celibato ecclesiastico hanno un triste destino. O sono abbandonati alle esclusive cure della madre o sono rinchiusi in grigi orfanotrofi religiosi. La maggior parte di loro non vedono nemmeno la luce del sole perché le donne abbandonate non si sentono il più delle volte di assumersi da sole il gravoso compito di farli nascere e di crescerli all’onore del mondo. Alle inadempienze dei padri rimediano con l’aborto. C’è di più! La santa madre chiesa premia con sicure carriere il "pentitismo" del suo clero che non rinuncia alla "virtù" della castità e del celibato "solo" per avere reso incinta una donna. Mi sembra attuale il rimprovero di Gesù ai dottori del tempio di duemila anni fa: "Pretendono di giudicare la pagliuzza nell’occhio altrui e non si accorgono della trave che è nel loro". Il Cardinal Ratzinger, nell’intervista concessa a Peter Sewald ("Il sale della terra"), afferma, tra l’altro, che il celibato ecclesiastico è una consuetudine e non un dogma, dimenticando di aggiungere che si tratta di "consuetudine" imposta dall’alto e non certo di libera scelta della base. Afferma poi: "in pratica, con l’abolizione del celibato assisteremmo solo alla nascita di un nuovo tipo di problematica, quella dei preti divorziati". Se il rischio esiste è dovuto al fatto che uomini usciti da "quei" seminari e da "quei" conventi possono avere grandi difficoltà a rapportarsi serenamente e civilmente con una donna. Ma allora smettiamola di inseminare tra gli adolescenti e tra i giovani maschi il rifiuto sistematico delle donne! Smettiamo di immaginare la donna come essere impuro! Ritengo perciò che rimuovere il celibato obbligatorio favorisca una revisione dell’intero impianto ecclesiale: se accettiamo l’idea che un prete, un frate o una suora possano sposarsi, dovrà cambiare anche la loro preparazione, che dovrà essere più rispettosa dei diritti inalienabili della persona (sessualità, affettività e spirito critico). Antonio de Angelis, prete sposato dell’associazione "Vocatio", Genova Tra la religione e la donna c’è un problema. E qui non parlo solo della religione cristiana, ma anche di quella musulmana, di quella ebraica e in generale di tutte le religioni monoteiste che conoscono l’Uno (il Dio unico) e non il "Due" che, da che mondo è mondo, è maschio e femmina. Basta infatti congedarsi dalle religioni monoteiste e accostarsi a quelle politeiste per incontrare il tripudio del femminile. Lei mi obietterà: e i protestanti allora? E gli ortodossi? I pastori protestanti e i popi ortodossi sono sacerdoti con moglie che, forse proprio per compensare questa liceità che si sono concessi, hanno inventato delle morali così rigorose da fare impallidire la tolleranza della morale cattolica. Siccome però la consuetudine celibataria del mondo cattolico si è affermata nel mondo occidentale e ha fatto storia, voglio capire le ragioni di questa sua affermazione storica o per lo meno le macchine antropologiche e psicologiche che la sostengono. E qui ne individuo due, contestabilissime, ma non credo tanto. La donna ha familiarità con il concreto e capisce l’astratto parlando con un "tu" in carne e ossa che ha davanti a lei. Il maschio ha più familiarità con l’idea astratta e raggiunge il concreto passando attraverso quell’idea, o rubricando la cosa concreta tra i casi di quell’idea. In una metafora religiosa l’uomo conosce la donna parlando con Dio, la donna conosce Dio parlando con un uomo. Il sacerdote è la sublimazione del principio maschile: ama gli uomini perché ama Dio, non li incontra come un "tu" nel mondo, ma come figli di Dio. La seconda osservazione è più modesta perché psicologica, anche se poi le macchine psicologiche sono implacabili. Siccome le religioni sono nate anche come un sistema di regole le quali, come è noto, hanno il loro fondamento nel controllo del ventre che è metafora della concupiscenza, mi pare ovvio che solo interdicendo le pratiche della concupiscenza si possono ottenere dei buoni guardiani delle regole che, a loro volta, possono sublimare la concupiscenza nell’esercizio del potere, il quale, investito dalla libido sessuale interdetta alla meta, diventa esercizio rigoroso. Penso a questo punto di essermi inimicato donne e preti e quindi di aver contribuito a disgiungere quello che lei, caro don Antonio, vuole congiungere.



Martedì, 20 giugno 2006