LA DONNA E L’UOMO NELLO “SPAZIO” CHIESA.

di Nadir Giuseppe Perin[1]

1- Nell’Antico Testamento si trovano  delle frasi che mettono la donna in posizione subalterna rispetto all’uomo e che possono creare imbarazzo nel lettore. Nel Siracide (190 a.C.), per esempio, si legge “ meglio la cattiveria di un uomo della bontà di una donna” (42,14). Qohelet, il celebre sapiente pessimista, rincara la dose. Nella sua ricerca della sapienza afferma che “un uomo su mille l’ho trovato, ma una donna su tutte non l’ho trovata” (7,20). Nella tradizione ebraica, poi, la donna non aveva alcun ruolo ufficiale sia nella liturgia sinagogale che nella vita politica.

Nel Nuovo Testamento, invece, diverse donne hanno avuto un certo ruolo nel ministero di Gesù (Lc 8,2-3), il quale, con grande meraviglia dei suoi discepoli, non aveva esitato a dialogare con una donna samaritana (Gv. 4,27).Inoltre, con riferimento agli Atti  degli Apostoli, alcune donne hanno avuto un ruolo importante in certe comunità cristiane, specialmente in quelle degli ellenisti e nelle altre comunità di estrazione pagana. Basta ricordare le quattro figlie dell’evangelista Filippo che profetizzavano a Cesarea (At 21, 9), Lidia molto attiva a Filippi, Priscilla ed Aquila che, forse, avevano la direzione della comunità di Efeso, prima dell’arrivo di Paolo (cfr. At 18, 26-27).

Le lettere paoline ci forniscono delle notizie dirette sul ruolo della donna nella chiesa primitiva, che sembrano a prima vista contraddittorie. Nella prima lettera di S. Paolo ai Corinti, al c. 7, il rapporto di amore tra l’uomo e la donna rispecchia una mentalità ormai del tutto sorpassata.

“Riguardo a ciò che mi avete scritto, è cosa buona per l’uomo non toccare donna, ma a motivo dei casi di immoralità, ciascuno abbia la propria moglie ed ogni donna il proprio marito. Il marito dia alla moglie ciò che le è dovuto; ugualmente anche la moglie al marito. La moglie non è padrona del proprio corpo, ma lo è il marito; allo stesso modo anche il marito non è padrone del proprio corpo, ma lo è la moglie. Non rifiutatevi l’un l’altro, se non di comune accordo temporaneamente, per dedicarvi alla preghiera. Poi tornate insieme, perché satana non vi tenti nei momenti di passione. Questo ve lo dico per condiscendenza, non per comando. Vorrei che tutti fossero come me; ma ciascuno riceve da Dio il proprio dono, chi in un modo, chi in un altro”. Ai non sposati ed alle vedove dico: è cosa buona per loro rimanere come sono io: ma se non sanno dominarsi, si sposino; è meglio sposarsi che bruciare” (1Cor 7, 1-8)

Nel c. 11 s’inciampa con l’ormai famosa questione del velo: “sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo (cioè a Cristo). Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo[2], manca di riguardo al proprio capo ( cioè all’uomo), poiché è come se fosse rasata. Se dunque una donna non vuole mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si metta il velo” ( 1Cor. 11,1-6).

In  1Cor 14, 34-35 ci sono delle affermazioni in contrasto con la mentalità del nostro tempo: “ Come in tutte le comunità di fedeli, le donne nelle assemblee tacciano perché non è loro permesso parlare; stiano, invece, sottomesse, come dice anche la legge. Se vogliono imparare qualcosa, interroghino a casa i loro mariti, perché è sconveniente per una donna parlare in assemblea”. La critica letteraria riconosce in questo brano un riferimento a 1Tm 2,11-14 : “ La donna ascolti l’istruzione in silenzio, in piena sottomissione. Non permetto alla donna di insegnare né di dominare sull’uomo; rimanga piuttosto in atteggiamento tranquillo. Perché prima è stato formato Adamo e poi Eva,e non Adamo fu ingannato, ma chi si rese colpevole di trasgressione fu la donna che si lasciò sedurre. Ora essa sarà salvata partorendo figli, a condizione di perseverare nella fede, nella carità e nella santificazione, con saggezza”.

Sembra, invece, che Paolo ammetta, come cosa normale, il ministero delle donne. Con molta chiarezza riconosce esplicitamente che le donne possono“ pregare” e “profetizzare[3] ( 1Cor 11,5 : “…Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è come se fosse rasata…”. Le donne possono assumere il più importante ministero di una chiesa locale a quell’epoca, cioè quello dei “profeti”.

I profeti si riconoscevano dal loro parlare “in Spirito” (Didachè XI, 7,8; 1Cor 14, 29-32). Il loro annuncio come avveniva per i profeti dell’Antico Testamento, poteva prendere la forma di oracolo. Negli Atti degli Apostoli ci sono due esempi: il primo oracolo è stato proclamato nell’assemblea liturgica della comunità cristiana di Antiochia :”riservate per me Barnaba e Saulo per l’opera alla quale li ho chiamati” (At 13,2).

Il secondo fu proclamato a Cesarea da un profeta di nome Agabo, il quale ricorrendo ad un gesto simbolico, annunciò l’imprigionamento di Paolo: “Questo dice lo Spirito santo: l’uomo a cui appartiene questa cintura sarà legato così, dai giudei a Gerusalemme e verrà, quindi, consegnato nelle mani dei pagani” ( At 21, 11).

Normalmente i profeti svolgevano un ruolo di primaria importanza nelle assemblee di preghiera. Come incaricati dell’annuncio della parola di Dio, dopo la lettura delle scritture, pronunciavano ciò che noi oggi chiamiamo “predica”, “omelia” e proclamavano l’azione di grazie, corrispondente alla nostra preghiera eucaristica ( Didachè X,7; cfr. 1 Cor 14, 15-17)

Quindi, i dati della prima lettera ai Corinti e della Didachè riguardanti l’attività dei profeti  confermano l’importanza di questo ruolo nell’assemblea liturgica. Il “profeta” non solo svolgeva la predicazione o l’esortazione rivolta alla comunità, ma proclamava anche la preghiera eucaristica.

Queste affermazioni ricevono conferma da diversi riferimenti concreti, come in Rm 16, 1-2, dove Paolo raccomanda con insistenza Febe in quanto “diaconessa”[4] della chiesa di Cencre…”. Inoltre, i saluti personali di Rm 16 : “ Vi raccomando Febe, nostra sorella, che è diaconessa della chiesa di Cencre: accoglietela nel Signore, come si addice ai credenti ed assistetela in qualunque cosa possa avere bisogno di voi; anche’essa, infatti, ha protetto molti ed anche me stesso” ; diCol 4,15 “ Salutate i fratelli di Laodicea, Ninfa e la comunità che si raduna nella sua casa…” e Filem , 1, 2 : “ Paolo, prigioniero di Cristo e il fratello Timoteo al carissimo Filemone, nostro collaboratore, alla sorella Appia, ad Archippo nostro compagno nella lotta per la fede ed alla comunità che si raduna nella sua casa…” attestano il posto importante che le donne, spesso assieme ai loro mariti, occupavano nelle chiese paoline. D’altra parte l’ammissione delle donne al ministero “profetico” è del tutto conforme alla concezione ecclesiale dell’apostolo: “ Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo, né libero; non c’è più uomo né donna, poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28).

 

Tuttavia il ministero delle donne non fu accettato da tutte le chiese. Nelle lettere pastorali, l’autore fortemente segnato dalla tradizione ebraica, proibisce alle donne, senza esitazioni, l’insegnamento e, conseguentemente, l’esercizio del ministero presbiterale.“ La donna impari in silenzio, con tutta sottomissione. Non concedo a nessuna donna di insegnare” ( 1Tm 2, 11-12).

Sembra, però, che il ministero delle donne fosse limitato a quello diaconale ( 1Tm 3,11) dal momento che questo non comportava probabilmente un compito d’insegnamento ufficiale. Per questo, nella Chiesa primitiva, l’esercizio del ministero ecclesiale, da parte delle donne, non ha sollevato dei problemi dottrinali, dal momento che S. Paolo nella sua riflessione sulla chiesa, ammette chiaramente tale possibilità, quanto piuttosto dei problemi di adattamento pastorale al contesto culturale delle diverse comunità.

 

Nell’arco letterario della Bibbia, s’incontra anche un mosaico affascinante di testi che esaltano lo stupore dell’amore, la sorpresa di essere “carne della stessa carne, ossa delle stesse ossa” (Gen 2,23). Il Cantico dei Cantici, capolavoro primaverile dell’amore che illumina e dà senso all’esistere, ruota intorno ad una sigla musicale e teologica che parla di comunione perfetta: “ il mio amato  è mio ed io sono sua” (2,16). Il profeta Osea nella travagliata vicenda della sua esperienza matrimoniale vede in questa il paradigma più alto per parlare di Dio e della sua passione per le sue creature.

E, se Gesù si mostra spesso circondato da donne ( persino “da cattiva compagnia”) lo stesso Paolo nella lettera ai Galati dichiara che “ in Cristo non c’è più né uomo né donna poiché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” ( 3,28).

Bisogna, allora, leggere la Bibbia non come fosse un insieme di teoremi astratti sull’uomo e la donna, sulla coppia e sulla morale matrimoniale e sessuale, ma come una “Parola che si è fatta carne” adattandosi a coordinate culturali e sociali ben definite. Essa diventa “povera” – come diceva Pascal – per far comprendere ai poveri la ricchezza del suo mistero. Per questo il lettore che  vuole confrontarsi seriamente ed umilmente con la Bibbia, non deve fermarsi alla superficie del testo biblico, ma cercare di scoprirne la logica profonda che in esso si dipana. Ovviamente il dialogo-confronto suppone due termini: la Bibbia e noi.  Solo così, la parola di Dio è ricondotta all’oggi, alla nostra sensibilità, agli interrogativi che emergono dalla trama di una società tecnologica, a tensione paritaria, percorsa da drammi e da fermenti nuovi. Gli innumerevoli interrogativi e problemi che ci tormentano, come : i cicli della vita, i ruoli ed i rapporti tra i sessi, i nessi tra religione e sessualità, tracciati nell’Antico Testamento, vengono purificati dai loro condizionamenti storici concreti e tornano ad essere “lampada per i passi” dell’uomo e della donna  di oggi. In tal modo, i contenuti del messaggio neotestamentario, come : la donna e l’uomo creature di Dio; “creature nuove” in Cristo; collaboratori del Regno; una “sola carne”, attraverso l’esperienza del matrimonio cristiano, diventano temi di grande valore per la vita familiare e matrimoniale cristiana attuale.

Certamente in questa operazione di confronto non tutto può essere perfetto, ma come scriveva G. Bernanos nel suo Diario di un curato di campagna “Cristo ci ha chiamati ad essere non il miele, ma il sale della terra”[5].

 

2-Il papa Giovanni XXIII, nella sua Enciclica “Pacem in terris” ( 11 aprile 1963), sottolineava come tra i fenomeni che caratterizzano la nostra epoca, “ l’ingresso della donna nella vita pubblica avvenisse in maniera più accentuata, forse, nei popoli di civiltà cristiana; più lentamente, ma sempre su larga scala, tra le genti di altre tradizioni o civiltà[6].

Lo stesso Concilio Vaticano II, nella Costituzione Pastorale “Gaudium et Spes”, enumerando le  varie forme di discriminazione relative ai diritti fondamentali della persona e che dovevano essere superate ed eliminate come contrarie al disegno di Dio, indicava, in primo luogo, la discriminzione fondata sul sesso[7].

 Lo stesso Paolo VI precisò che l’eguaglianza tra uomo e donna, apportando le ricchezze ed i dinamismi loro propri, deve condurre alla costruzione di un mondo non livellato ed uniforme, ma armonioso ed unificato [8].

Nel nostro tempo poi le donne prendono parte sempre più attiva in tutta la vita sociale ed è di grande importanza una loro più larga partecipazione anche nei vari campi dell’apostolato della chiesa[9]. Alcune di queste donne sono chiamate a prender parte alle istanze di riflessione pastorale, sia a livello di diocesi che di parrocchie.

Alcuni teologi hanno posto pubblicamente questo problema ed hanno provocato ricerche non solo nell’ambito dell’esegesi, della patristica, della storia della Chiesa, ma anche nel campo della storia delle istituzioni e dei costumi, della sociologia, della psicologia e i diversi argomenti, capaci di portare un chiarimento in questo importante problema, sono stati sottoposti ad un esame critico.

 

3- Nella storia della Chiesa ci sono state diverse comunità cristiane, sorte dalla Riforma del XVI sec. o in epoca successiva, che hanno ammesso le donne all’ufficio di pastore, allo stesso titolo degli uomini. Questa loro iniziativa ha provocato, da parte dei membri di tali comunità o di gruppi simili, richieste e scritti tendenti a generalizzare questa ammissione, come, del resto, anche reazioni in senso contrario, costituendo un problema ecumenico, sul quale la chiesa cattolica ha sentito il dovere di far conoscere il proprio pensiero, tanto più che in diversi settori dell’opinione pubblica ci si è domandato se, a sua volta, essa non dovesse modificare la propria disciplina ed ammettere le donne all’ordinazione presbiterale, come ha fatto la chiesa anglicana.

 

Se l’ordinazione presbiterale della donna è uno dei problemi spinosi della teologia cattolica e la posizione della gerarchia della chiesa cattolica è nota, nella chiesa anglicana invece, già nel 1973 tre vescovi episcopaliani, a Filadelfia ordinarono al presbiterato ben 11 donne, in contrasto con i canoni vigenti. L’anno successivo, l’esecutivo episcopale, che doveva esaminare la cosa, diede responso positivo, demandando però alla “General Convention” la decisione sul piano  effettivo.

L’arcivescovo di Canterbury di quel tempo, dr. Donald Coggan, si mise in contatto epistolare con il Papa Paolo VI. E’ nato così un carteggio molto interessante pubblicato dall’OR ( 21 agosto del 1976) dopo che fu reso noto da parte anglicana.

Mentre da parte cattolica in sostanza veniva riaffermato che “non era ammissibile ordinare donne al presbiterato per ragioni veramente fondamentali”, da parte anglicana, davanti alla impossibilità di fermare una evoluzione ormai affermata, c’era invece la speranza che questo non fosse un ostacolo insormontabile per l’ecumenismo.

“ A volte, si legge nella seconda lettera, ciò che ad una delle tradizioni sembra la genuina espressione di una tale diversità nella unità, apparirà all’altra tradizione come qualcosa che si spinge al di là dei limiti della legittimità”.

La chiesa  anglicana d’Inghilterra iniziò ad ordinare le donne prete nel 1994 e circa 400 preti anglicani si convertirono al cattolicesimo per protesta. Oggi le donne-prete sono circa 400 e molti fedeli non obiettano a questo stato di cose, affermando che le donne devono avere pari diritti nella chiesa. Inoltre, in un documento riservato, pubblicato dal quotidiano Times e dibattuto dal Sinodo generale della chiesa anglicana, si parlava di far accedere le donne alla nomina di vescovo entro il 2012.

Tale progetto suscitò polemiche ed scatenò forti opposizioni rischiando di dividere ulteriormente una confessione già alquanto lacerata al suo interno. Non più soltanto donne prete, ma dal 2012 anche vescovi al femminile, una figura dal ruolo ben più centrale all’interno dell’istituzione anglicana.

Tuttavia il documento prevede che le singole parrocchie possano chiamarsi fuori dalla giurisdizione di una donna vescovo e mettersi sotto l’autorità di un vescovo regionale uomo. Tutto dipende da come intende regolarsi il singolo parroco.

Si tratta di un dibattito che in Inghilterra va avanti da parecchio tempo e molte persone all’interno della Chiesa hanno già preso delle posizioni nette: c’è chi è favorevole e chi è, invece, contro.

 

Si sa che la chiesa anglicana mondiale che negli USA si chiama “Episcopale” è stata dilaniata negli ultimi anni dallo scontro sui preti gay che l’ha portata quasi ad uno scisma. L’arcivescovo di Canterbury, Rowan Williams, invitò a non fomentare tensioni interne sui preti gay e sulla nomina delle donne-vescovo. “Non avvelenate i pozzi” – disse al Sinodo – chiedendo un dibattito meno ostile.

Nonostante i contrasti già 14 delle 18 chiese anglicane nel mondo hanno deciso di far accedere le donne alla nomina di vescovo.

 

4-Trattandosi di una discussione sulla quale la teologia classica non ha dedicato tanto tempo alla riflessione, la Congregazione per la Dottrina della Fede, il 15 ottobre 1976, tramite il card. Franjo Seper, affermò che la chiesa, per fedeltà all’esempio del suo Signore, non si considerava autorizzata ad ammettere le donne all’ordinazione presbiterale e riteneva opportuno spiegare  questa sua posizione.

Nel corso della sua storia, la chiesa cattolica non ha mai ritenuto che le donne potessero ricevere validamente l’ordinazione presbiterale o episcopale. Alcune sette eretiche dei primi secoli, soprattutto gnostiche, vollero affidare l’esercizio del ministero presbiterale a delle donne: tale decisione fu subito biasimata dai padri della chiesa che la giudicarono come inaccettabile [10]. Tuttavia, non bisogna trascurare il fatto che negli scritti  dei padri della chiesa si può rintracciare l’innegabile influsso dei pregiudizi sfavorevoli alla donna.

Al di là di queste considerazioni, suggerite dallo spirito dei tempi, si trova spesso nei documenti canonici della tradizione antiochena ed egiziana questo motivo essenziale che la chiesa, chiamando unicamente gli uomini all’ordine sacro e al ministero propriamente presbiterale, intende restare fedele al tipo di ministero ordinato, voluto dal Signore Gesù Cristo e scrupolosamente conservato dagli apostoli[11].

La medesima convinzione animò la teologia medioevale[12], anche se i maestri della Scolastica, nel tentativo di chiarire con la ragione i dati della fede, su questo punto addussero, spesso, delle argomentazioni che il pensiero moderno difficilmente potrebbe ammettere o che rifiuterebbe, a buon diritto. Da allora, fino alla nostra epoca si può dire che la questione del ministero prebisterale delle donne non fu più sollevata, dal momento che la prassi beneficiò di un possesso pacifico ed universale.

La tradizione della chiesa, in materia, fu talmente stabile nel corso dei secoli, che il magistero non avvertì il bisogno di intervenire per affermare un principio che non incontrava opposizione o per difendere una legge che non era contestata e, ogni volta che questa tradizione aveva occasione di manifestarsi, essa attestava la volontà della chiesa di conformarsi al modello che il Signore le aveva lasciato.

La stessa tradizione è stata fedelmente salvaguardata dalle chiese d’Oriente. La loro unanimità su questo punto appare tanto maggiormente degna di nota, se si tiene conto che in molte altre questioni, la loro disciplina ammise una grande diversità.

Anche ai nostri giorni queste stesse chiese rifiutano di associarsi alle richieste, miranti ad ottenere l’accesso delle donne all’ordinazione presbiterale.

Ma, quali sono le argomentazioni portate a sostegno di questa tesi ?

Gesù, quando scelse i 12 Apostoli, non chiamò nessuna donna a far parte del collegio apostolico. Il suo comportamento non fu dettato dall’esigenza di conformarsi alle usanze del suo tempo, poiché l’atteggiamento da lui assunto nei confronti delle donne, contrastava con quello del suo ambiente e segnava una rottura voluta e coraggiosa. Gesù conversò pubblicamente con la Samaritana ( cfr. Gv 4,27); non tenne in alcun conto lo stato d’impurità legale della emorroissa (cfr. Mt 9,20-22); lasciò che una peccatrice lo avvicinasse nella casa di Simone, il fariseo ( cfr. Lc 7,37) e perdonando la donna adultera, si preoccupò di mostrare che non si doveva essere più severi verso la colpa di una donna, che verso quella degli uomini (cfr. Gv 8,11). Egli non esitò a prendere le distanze rispetto alla legge di Mosè, per affermare l’uguaglianza dei diritti e dei doveri dell’uomo e della donna di fronte al vincolo del matrimonio ( cfr. Mc 10,2-11; Mt 19,3-9)…

Nel suo ministero itinerante Gesù non si fece accompagnare soltanto dai dodici, ma anche da un gruppo di donne: Maria di Magdala dalla quale erano usciti sette demoni; Giovanna moglie di Cusa, amministratore di Erode, Susanna e molte altre, che assistevano con i loro beni, sia Gesù che gli Apostoli (cfr. Lc. 8,2-3).

In contrasto con la mentalità giudicaica che non accordava grande valore alla testimonianza delle donne, come dimostra il diritto ebraico, il Vangelo, invece, mostra come siano state delle donne che hanno avuto, per prime, il privilegio di vedere il Cristo risorto; ed fu ancora ad esse che Gesù affidò l’incarico di recare il primo messaggio pasquale agli stessi undici (cfr. Mt 28,7-10; Lc 24, 9-10; Gv 20, 11-18) per prepararli a divenire testimoni ufficiali della risurrezione.

Per cogliere il senso della missione di Gesù, come quello della Scrittura, non basta l’esegesi puramente storica dei testi. Ci sono un’insieme di indizi convergenti i quali sottolineano il fatto importante che Gesù non ha affidato alle donne l’incarico dei Dodici[13] .

La stessa madre di Gesù, così strettamente associata al mistero del suo Figlio divino ed il cui incomparabile ruolo è sottolineato nel Vangeli di Luca e Giovanni, non è stata investita del ministero apostolico. Il che indurrà i padri a presentarla come esempio della volontà di Cristo in questo campo: “ Benchè la beata Vergine Maria superasse in dignità ed eccellenza tutti gli apostoli – ripeterà ancora agli inizi del sec. XIII il papa Innocenzo III – tuttavia non è a lei, ma a costoro che il Signore affidò le chiavi del regno dei cieli[14].

 

La comunità apostolica rimase fedele all’insegnamento di Gesù. Nella piccola cerchia di coloro che si riunirono nel Cenacolo dopo l’Ascensione del Signore, Maria occupò un posto privilegiato (cfr. At 1,14).

“ Entrati in città, salirono al piano superiore del luogo ove si riunivano. C’erano Pietro e Giovanni, Giacomo e Andrea, Filippo e Tommaso, Bartolomeo e Matteo, Giacomo figlio di Alfeo, Simone lo Zelota e Giuda figlio di Giacomo. Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, assieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù e con i fratelli di lui (cfr. At 1,13-14).

Eppure, al momento di eleggere chi doveva sostituire Giuda Iscariote, non fu lei ad essere designata per entrare nel collegio dei Dodici, ma Mattia.

“Bisogna, dunque, che tra coloro che sono stati con noi per tutto il tempo nel quale il Signore Gesù ha vissuto fra noi, cominciando dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui è stato di mezzo a noi assunto in cielo, uno divenga testimone, insieme a noi, della sua risurrezione. Ne proposero due: Giuseppe, detto Barnaba, soprannominato Giusto, e Mattia.  Poi pregarono dicendo : “Tu, Signore che conosci il cuore di tutti, mostra quale di questi due tu hai scelto per prendere il posto in questo ministero ed apostolato che Giuda ha abbandonato per andarsene al posto che gli spettava”. Tirarono a sorte fra loro e la sorte cadde su Mattia che fu associato agli undici Apostoli ( Cfr. At 1,21-26).

 

Nel giorno di Pentecoste, lo Spirito Santo discese su tutti coloro che “si trovavano tutti insieme nello stesso luogo”, uomini e donne (cfr. At 1, 13-14).

“Mentre stava per compiersi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un suono, come di vento che si abbatte gagliardo e riempì tutta la casa dove stavano. Apparvero loro lingue come di fuoco che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro e tutti furono ripieni di Spirito santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro il potere di esprimersi (cfr. At 2,1-3).

Tuttavia l’annuncio dell’adempimento delle profezie in Gesù fu proclamato da Pietro e dagli undici :                    “ Allora, Pietro, alzatosi in piedi con gli Undici, a voce alta parlò ad essi così…” ( cfr. At 2,14).

Quando costoro e Paolo uscirono dai confini del mondo giudaico, la predicazione del Vangelo e la vita cristiana nella civiltà greco-romana li indussero a rompere, talvolta dolorosamente, con le pratiche mosaiche. Quindi avrebbe potuto pensare di conferire l’ordinazione alle donne, se su questo punto non fossero stati persuasi dal loro dovere di fedeltà al Signore. Nel mondo ellenico, infatti, parecchi culti di divinità pagane erano affidati a sacerdotesse. I greci non condividevano  le concezioni dei giudei. Benché alcuni filosofi avessero professato l’inferiorità della donna, gli storici sottolineano, tuttavia, l’esistenza di un certo movimento per la promozione femminile durante il periodo imperiale.

Di fatto, dal libro degli Atti degli Apostoli e dalle Lettere di S. Paolo, si può constatare, che alcune donne collaborarono con l’apostolo per il vangelo ( Cfr. Rm 16,3-12; Fil 4,3). Egli ne enumera i nomi con compiacimento nelle formule finali di saluto delle sue lettere. Talune spesso esercitano un’influenza di non lieve importanza sulle conversioni: Priscilla, Lidia ed altre. Piscilla, soprattutto, la quale si assunse l’impegno di completare la formazione di Apollo ( Cfr. At 18,26); Fede che è a servizio della Chiesa di Cencre ( Cfr. Rm 16,1). Tutti questi fatti manifestano che nella chiesa apostolica c’è stata una notevole evoluzione nei confronti dei costumi del giudaismo. Ciononostante non si è mai posta la questione di conferire l’ordinazione a queste donne.

Nelle lettere paoline gli esegeti hanno notato una differenza tra due formule, usate dall’Apostolo. Egli scrive indistintamente “miei collaboratori” ( Rm 16,3; Fil 4,2-3) a proposito degli uomini e delle donne che, in un modo o nell’altro, l’aiutano nel suo apostolato; ma riserva il titolo di “cooperatori di Dio” ( 1Cor 3,9; cfr. 1Ts 3,2) ad Apollo, a Timoteo ed a se stesso, Paolo, perché sono direttamente consacrati al ministero apostolico, alla predicazione della parola di Dio. Anche al momento della risurrezione, nonostante il loro ruolo così importante, la collaborazione delle donne non giunge, per S. Paolo, fino all’esercizio dell’annuncio ufficiale e pubblico del messaggio che resta nella linea esclusiva della missione apostolica.

 

5- Da tale atteggiamento di Gesù e degli Apostoli, considerato come normativo da tutta la tradizione fino ai nostri giorni, potrebbe oggi la Chiesa allontanarsi ?

In favore di una risposta affermativa sono stati portati diversi argomenti.

a) La presa di posizione di Gesù e degli Apostoli si spiegherebbe mediante l’influsso del loro ambiente e del loro tempo. Se Gesù – dicono – non ha conferito neppure a sua Madre ed alle donne, un ministero che le assimilasse ai Dodici è stato perché le circostanze storiche non glielo permettevano.

Risposta: nessuno tuttavia è mai riuscito a provare che questo atteggiamento fosse legato solamente a motivi socio- culturali. L’esame dei Vangeli indica che Gesù ha rotto con i pregiudizi del suo tempo, contravvenendo largamente alle discriminazioni praticate nei confronti delle donne. Non si può, quindi, sostenere che Gesù non chiamando le donne ad entrare nel gruppo de Dodici si sia lasciato guidare da ragioni di opportunità. A maggior  ragione, questo condizionamento socio-culturale non avrebbe trattenuto gli apostoli nell’ambiente greco, dove queste discriminazioni non esistevano.

 

b) Altra obiezione  è legata al carattere caduco di alcune prescrizioni di S. Paolo riguardanti le donne e dalle difficoltà che, a questo proposito, sollevano, certi aspetti della sua dottrina.

Risposta: Queste disposizioni, ispirate agli usi del tempo, riguardavano pratiche disciplinari di scarsa importanza, come l’obbligo fatto alle donne di portare il velo sul capo (cfr. 1 Cor 11,2-16). Tali esigenze non hanno più valore normativo.

Nondimeno il divieto fatto da S. Paolo alle donne di “ parlare” nell’assemblea ( cfr. 1Cor 14,34-35; 1Tm 2,12) è di natura differente. Gli esegeti ne precisano il senso. L’Apostolo non si oppose al diritto che riconosceva alle donne di profetizzare nell’assemblea ( cfr. 1Cor 11,5). La proibizione riguardava unicamente la funzione ufficiale di insegnare nell’assemblea cristiana. Una tale prescrizione, per S. Paolo, era legata al piano divino della creazione ( cfr. 1 Cor 11,7; Gn 2,18-24); difficilmente vi si potrebbe vedere l’espressione di un dato culturale. D’altra parte noi dobbiamo a S. Paolo uno dei testi più vigorosi del Nuovo Testamento sull’uguaglianza fondamentale dell’uomo e della donna, come figli di Dio nel Cristo ( cfr. Gal 3,28).

 

c) Oltre a queste obbiezioni tratte dalla storia dei tempi apostolici, coloro che sostengono la legittimità di una evoluzione in materia, traggono argomento dalla pratica della chiesa nella disciplina dei sacramenti. Si è potuto rilevare, soprattutto nella nostra epoca come la chiesa abbia coscienza di possedere sui sacramenti, anche se istituiti da Cristo, un certo potere. Essa usò di questo potere per precisarne, lungo il corso dei secoli, il segno e le condizioni per amministrarli. Le decisioni dei Pontefici Pio XII e Paolo VI ne sono la prova [15].

Risposta: Questo potere resta limitato. Come ricordava Pio XII , “la chiesa non ha alcun potere sulla sostanza dei Sacramenti, vale a dire su tutto ciò che il Signore, secondo la testimonianza delle fonti della rivelazione, ha valuto che si mantenga nel segno sacramentale”.

Questo era stato anche l’insegnamento del Concilio di Trento che aveva dichiarato : “ Nella chiesa è sempre esistito questo potere, che cioè nella amministrazione dei sacramenti, mantenendo inalterata la loro sostanza, essa possa stabilire o modificare tutto ciò che riguarda in maniera più conveniente l’utilità di quelli che li ricevono o il rispetto verso gli stessi sacramenti, secondo il variare delle circostanze, dei tempi e dei luoghi[16].

D’altra parte i segni sacramentali non sono convenzionali, anche se è vero che sotto certi aspetti sono dei segni naturali perché rispondono al simbolismo profondo dei gesti e delle cose, essi sono più di questo. Sono destinati principalmente a coinvolgere l’uomo di ciascuna epoca con l’evento supremo della storia della salvezza, a fargli comprendere, mediante tutta la ricchezza della pedagogia e del simbolismo della Bibbia, quale grazia essi significhino e producano.  Così il sacramento dell’Eucaristia non è soltanto un convito fraterno, ma è ad un tempo, il memoriale che rende presente ed attualizza, mediante la Chiesa, il sacrificio di Cristo e la sua offerta.

Il  ministero presbiterale non è un semplice servizio di carattere pastorale, ma garantisce la continuità delle funzioni affidate dal Cristo ai Dodici e dei poteri relativi ad esse. L’adattamento alla civiltà ed alle epoche, dunque, non può abolire, nei punti essenziali, il riferimento sacramentale agli avvenimenti costitutivi del cristianesimo ed al Cristo medesimo.

In ultima analisi è la Chiesa che per la voce del suo magistero assicura il discernimento tra ciò che si può cambiare e ciò che deve restare immutabile. Quando essa ritiene di non poter accettare certi cambiamenti, è perché sa di essere legata al modo d’agire di Cristo; il suo atteggiamento nonostante le apparenze, non è quello dell’arcaismo, bensì quello della fedeltà. La chiesa si pronuncia in virtù della promessa del Signore e della presenza dello Spirito Santo, al fine di proclamare meglio il mistero di Cristo, di salvaguardarne e di manifestarne la ricchezza nella sua integrità.

Questa pratica della chiesa riveste un carattere normativo: nel fatto di non conferire l’ordinazione presbiterale se non ad uomini è implicita una tradizione continua nel tempo, universale in Oriente e in Occidente, ben attenta nel reprimere tempestivamente gli abusi. Una tale norma che si appoggia sull’esempio di Cristo, è seguita perché viene considerata conforme al disegno di Dio per la sua chiesa.

Inoltre, la riflessione teologica scopre, tra la natura propria del sacramento dell’ordine, nel suo riferimento specifico al mistero di Cristo, ed il fatto che soltanto gli uomini siano stati chiamati a ricevere l’ordinazione presbiterale, una profonda convenienza. Non si tratta di dimostrare, quanto di chiarire questa dottrina mediante l’analogia della fede.

L’insegnamento costante della chiesa, rinnovato e precisato dal Concilio vaticano II, richiamato ancora dal Sinodo dei vescovi del 1971 e dalla Congregazione per la Dottrina della Fede nella sua dichiarazione del 24 giugno 1973, proclama che il vescovo o il presbitero, nell’esercizio del rispettivo ministero, non agisce a suo proprio nome, in persona propria, ma “in persona Christi”, cioè egli rappresenta il Cristo, il quale agisce per mezzo di lui. “Il presbitero compie realmente le veci di Cristo” , come scriveva nel III sec. Cipriano[17]. E’ proprio questo valore di rappresentatività del Cristo che san Paolo considerava come caratteristico della sua funzione apostolica ( cfr. 2 Cor 5,20; Gal 4,14). Esso raggiunge la più alta espressione ed una forma del tutto particolare nella celebrazione dell’eucaristia, la quale è la sorgente ed il centro dell’unità della Chiesa, convito sacrificale in cui il popolo di Dio è  associato al sacrificio di Cristo. Il presbitero che solo ha il potere di compierlo agisce in questo caso non soltanto per la virtù che gli è conferita da Cristo, ma in persona Christi[18], cioè sostenendo la parte di Cristo, al punto di essere la stessa immagine, allorché pronuncia le parole della consacrazione [19].

Il presbiterato cristiano è di natura sacramentale: il presbitero è un segno, la cui efficacia soprannaturale proviene dall’ordinazione ricevuta, ma un segno che deve essere percettibile e che i fedeli devono poter riconoscere facilmente[20]. L’economia sacramentale è fondata su segni naturali, su simboli che sono inscritti nella psicologia umana. “ I segni sacramentali – come dice S. Tommaso – rappresentano ciò che significano per una naturale somiglianza[21]. Ora questo criterio di somiglianza vale sia per le cose come per le persone, allorché occorre esprimere sacramentalmente il ruolo del Cristo nell’Eucaristia, non si avrebbe questa “naturale somiglianza” che deve esistere tra il Cristo ed il suo ministro, se il ruolo del Cristo non fosse tenuto da un uomo. In caso contrario, si vedrebbe difficilmente in chi è ministro, l’immagine di Cristo che fu e resta un uomo. Certamente  il Cristo è il primogenito di tutta l’umanità, sia degli uomini che delle donne e l’unità che egli ha ristabilito dopo il peccato è tale che non c’è più né giudeo, né greco, né schiavo,né libero, non c’è più né uomo né donna, perché tutti sono, infatti, uno solo in Cristo Gesù ( cfr. Gal 3,28). Tuttavia, l’Incarnazione del Verbo è avvenuta secondo il sesso maschile. E’ sì una questione di fatto, ma tale fatto, lungi dall’implicare una presunta superiorità naturale dell’uomo sulla donna, è inseparabile dall’economia della salvezza. In realtà, esso è in armonia col disegno di Dio nel suo insieme, così come egli stesso l’ha rivelato ed il cui centro è il mistero dell’Alleanza. Infatti, la salvezza offerta da Dio agli uomini, l’unione alla quale sono chiamati con lui, cioè l’alleanza, riveste fin dall’Antico Testamento, presso i profeti, la forma privilegiata di un mistero nuziale: il popolo eletto diventa agli occhi di Dio una sposa ardentemente amata.

Di questa intimità d’amore, sia la tradizione giudaica che quella cristiana hanno scoperto la profondità leggendo e rileggendo il Cantico dei Cantici. Lo sposo divino resterà fedele anche quando la sposa tradirà il suo amore, quando Israele sarà infedele a Dio ( cfr. Osea 1-3; Ger. 2). Venuta la pienezza dei tempi (Gal 4,4), il Verbo, Figlio di Dio, assume la carne per inaugurare e sigillare la nuova ed eterna alleanza nel suo sangue, che sarà versato per la moltitudine in remissione dei peccati: la sua morte radunerà i figli di Dio che erano dispersi; dal suo fianco trafitto nascerà la chiesa, come Eva è nata dal fianco di Adamo. Allora si realizzerà pienamente e definitivamente il mistero nuziale annunziato e cantato nell’Antico Testamento. Il Cristo è lo sposo; la chiesa la sua sposa che egli ama perché se l’è acquistata col suo sangue e l’ha resa gloriosa , santa ed immacolata, e dalla quale è ormai inseparabile.

Questo tema nuziale, che si precisa a partire dalle lettere di S. Paolo ( cfr. 2Cor 11,2; Ef 5, 22-33) fino agli scritti giovannei ( soprattutto Gv 3,29; Ap 19,7 e 9) è presente pure nei vangeli sinottici: finchè lo sposo è con loro, i suoi amici non devono digiunare ( cfr. Mc 2, 19); il regno dei cieli è simile ad un re che fece le nozze per suo figlio ( cfr. Mt 22, 1-14). E’ attraverso questo linguaggio della sacra Scrittura, tutto intessuto di simboli e tale da esprimere e raggiungere l’uomo e la donna nella loro profonda identità che ci è rivelato il mistero di Dio e di Cristo, mistero che di per sé è insondabile.

Dal momento che questo simbolismo è importante per l’economia della rivelazione, bisogna ammettere che nelle azioni che esigono il carattere dell’Ordinazione ed in cui è rappresentato il Cristo stesso, autore dell’Alleanza, sposo e capo della chiesa, nell’esercizio del suo ministero di salvezza che si verifica nella forma più alta nell’Eucaristia) il suo ruolo deve essere sostenuto da un uomo, senza per questo che all’uomo derivi qualche superiorità personale nell’ordine dei valori, ma soltanto da una diversità di fatto sul piano delle funzioni e del servizio.

 

Tuttavia, si potrebbe dire che, al presente, essendo Cristo nella condizione celeste, sarebbe ormai indifferente che egli sia rappresentato da un uomo o da una donna, poiché “nella resurrezione non si prende né moglie né marito” ( cfr. Mt 22,30). Ma questo testo non significa che la distinzione dell’uomo e della donna, in quanto determina l’identità propria della persona, sia soppressa nella glorificazione. Ciò che vale per noi vale anche per Cristo. Negli esseri umani la differenza sessuale ha un influsso rilevante più profondo che non le differenze etniche. La differenza sessuale, infatti è direttamente ordinata sia alla comunione delle persone che alla generazione degli uomini. Nella rivelazione biblica essa è l’effetto di una volontà primordiale di Dio: “uomo e donna li creò” ( Gen 1,27).

 

d) Però, dal momento che il presbitero quando presiede, soprattutto, le azioni liturgiche e sacramentali, rappresenta la chiesa non si potrebbe pensare che tale rappresentanza possa essere assicurata anche da una donna, secondo il simbolismo esposto ? Infatti, il presbitero agisce nel nome della chiesa con “l’intenzione di fare ciò che essa fa”. In tal senso i teologi del Medioevo dicevano che il ministro agisce anche “in persona Ecclesiae”, cioè in nome di tutta la chiesa e per rappresentarla. Di fatto, l’azione liturgica, indipendentemente dalla partecipazione numerica dei fedeli, è a nome di tutta la Chiesa che tale azione è celebrata dal presbitero che prega a nome di tutti; nella messa offre il sacrificio di tutta la Chiesa. Nella nuova pasqua è la chiesa che immola il Cristo, sotto segni visibili, per il ministero dei presbiteri[22].

 

Risposta: E’ vero che il presbitero rappresenta la chiesa  che è il Corpo di Cristo, ma se lo fa, egli rappresenta prima di tutto il Cristo stesso che è il capo ed il pastore della chiesa. Questa formula è usata dal Concilio Vaticano II che precisa e completa l’espressione in persona Christi[23]. E’ con tale qualifica che il presbitero presiede l’assemblea cristiana e celebra il sacrificio eucaristico “ che la chiesa intera offre ed in cui essa si offre tutta intera”[24].

I problemi di ecclesiologia e di teologia sacramentaria, soprattutto quando riguardano il presbiterato – come in questo caso – non possono trovare la loro soluzione che alla luce della rivelazione. Le scienze umane per quanto prezioso sia il loro contributo, nell’ambito proprio, non possono bastare, poiché non possono raggiungere la realtà della fede. Il contenuto propriamente soprannaturale di queste sfugge alla loro competenza. La chiesa è una società diversa dalle altre società, originale nella sua natura e nelle sue strutture. La funzione pastorale nella chiesa è normalmente legata al sacramento dell’ordine. Non si tratta di un governo paragonabile ai modi di autorità che si verificano negli stati. Esso non è concesso per scelta spontanea degli uomini, anche quando comporta una designazione per via di elezione. E’ l’imposizione delle mani e la preghiera dei successori degli apostoli che garantiscono la scelta di Dio. E’ lo Spirito santo, donato mediante l’ordinazione che consente di partecipare al governo del supremo pastore, Cristo ( cfr. At 20,28). E’ funzione di servizio e di amore: “Se mi ami, pasci le mie pecore” ( cfr. Gv 21, 15-17).

 

e) Non si può proporre l’accesso delle donne al presbiterato in virtù dell’uguaglianza dei diritti della persona umana, uguaglianza che vale pure per i cristiani. Talvolta si utilizza a tale scopo la lettera ai Galati (3,28) nella quale si afferma che  nel Cristo non c’è più distinzione tra l’uomo e la donna.

Risposta: Un tale passo non riguarda minimamente i ministeri: esso afferma soltanto la vocazione universale alla filiazione divina che è uguale per tutti.

Il considerare il presbiterato ministeriale come fosse un diritto è un disconoscere la sua natura. Il battesimo non conferisce alcun titolo personale al ministero pubblico nella chiesa. Il presbiterato non è conferito per l’onore o il vantaggio di colui che lo riceve, ma come un servizio reso ai fratelli  nella Chiesa. Esso è oggetto di una vocazione specifica, totalmente gratuita: “ Non siete voi che avete eletto me; sono io che vi ho scelti e costituiti…” ( cfr. Gv 15,16; Cfr. Eb. 5,4).

La vocazione presbiterale non si può ridurre ad una inclinazione personale che può restare puramente soggettiva. Dal momento che il presbiterato è un ministero peculiare di cui la chiesa ha ricevuto l’incarico ed il controllo, l’autenticazione da parte della chiesa risulta, quindi indispensabile. E’ parte costitutiva della vocazione: il “Cristo ha scelto quelli che egli voleva” ( Mc 3,13). Al contrario, invece, esiste una vocazione universale di tutti i battezzati all’esercizio del sacerdozio regale mediante l’offerta della vita a Dio e la testimonianza come lode a Dio.

Le donne che  formulano la richiesta in ordine al presbiterato ministeriale sono certamente ispirate dal desiderio di servire Cristo e la chiesa. Tuttavia il presbiterato ministeriale non fa parte dei diritti della persona, ma dipende dall’economia del mistero di Cristo e della Chiesa. La funzione di presbitero non può essere ambita come termine di una promozione sociale. Nessun progresso puramente umano della società e della persona può di per se stesso darvi accesso: si tratta di un ordine diverso.

Allora, quando si parla di uguaglianza dei battezzati che cosa s’intende ? L’uguaglianza non è affatto identità, nel senso che la chiesa è un corpo differenziato, nel quale ciascuno ha la sua funzione; i compiti sono distinti e non devono essere confusi. Tuttavia la distinzione delle funzioni non deve dare adito alla superiorità degli uni sugli altri; né fornire alcun pretesto alla gelosia; il solo carisma superiore che può e deve essere desiderato, è la carità ( cfr. 1 Cor 12-13) [25].

 

6- Qual è, allora, il rapporto uomo-donna nello “spazio chiesa”?

E’ evidente che nello spazio “Chiesa” si ritrovano uomini e donne. Ma come si articolano i loro rapporti in questo spazio che, per principio, è comunitario ? Non si tratta di sapere quello che fanno gli uomini o che cosa fanno o possono fare le donne, ma che ne è del rapporto con l’altro sesso in quello che gli uni e le altre fanno, qualunque cosa facciano gli uni e le altre [26].

Albéric de Palmaert, nel suo libro “ Le sexe ignoré.La condition masculin dans l’Église (Desclée de Brouwer, 1994) scriveva : “Nella chiesa cattolica esistono non due, ma tre sessi : le donne, gli uomini ed i chierici. Se un uomo vuole impegnarsi nella chiesa, gli viene proposto di diventare chierico, mentre spesso vorrebbe restare semplicemente uomo”, e, dopo aver soppesato le diverse implicazioni, conclude che “ è vero che, nella chiesa, gli uomini hanno il potere, ma a prezzo della loro mascolinità”[27].

Essere donna o essere uomo nella chiesa, non è la stessa cosa. Sappiamo che l’umano è fatto di donna e uomo. Entrambi sono l’umano, ma pienamente differenti. Infatti, non si può parlare dell’una senza parlare dell’altro e viceversa. Spesso, invece, quando noi esaltiamo la donna come madre, per esempio, non ci accorgiamo che stiamo diminuendo la fiducia nella capacità maschile di assumere il ruolo paterno. Mentre dovrebbe essere un felice segno dei tempi il poter vedere per le strade e nella pubblicità, giovani padri che si occupano dei loro piccoli. Ma, non perché il padre si deve comportare con il bambino nello stesso modo della madre, ma perché entrambi, con la loro differenza, sono necessari all’educazione del bambino.

Dall’inizio della storia, l’interpretazione del mondo fornita dalla filosofia ed anche dalla teologia è stata opera, principalmente, di un soggetto maschile che nominando la realtà a partire dalla sua sessualità, si è eretto a soggetto neutro universale.

L’uomo, arrogandosi il diritto di parlare anche a nome delle donne, di fatto le ha escluse dal discorso, privando così l’esperienza femminile della possibilità di autosignificarsi[28].

Prendiamo, per esempio, in esame il termine “Chiesa” : dovrebbe significare l’insieme delle persone battezzate che, come individui e come comunità, confessano la loro fede in Gesù di Nazareth in quanto  Cristo-Figlio di Dio. Molte volte, invece, tale termine è sottoposto a restrizioni mentali che lo identificano con quello che Albéric de Palmaert chiamava il “terzo sesso”, cioè i chierici.

Nella lettera del papa sull’ordinazione presbiterale, compare una formula come questa: “ la gratitudine della Chiesa… verso il popolo di Dio”.  Sembra che tra i due termini (chiesa…popolo di Dio) ci sia una differenziazione che il Concilio Vaticano II cercò di superare.

Il Concilio Vaticano II ha messo in evidenza alcuni concetti fondamentali, creando quasi una rivoluzione copernichiana. Se prima sembrava che il significato di “Chiesa” fosse quasi l’equivalente di gerarchia e che tutta la realtà ecclesiale girasse intorno al clero, vescovi, papa, come il sole attorno alla terra, il Concilio ha messo in evidenza che anche i ministeri più importanti girano, invece, attorno al popolo di Dio. Inoltre, il concetto di santità non deve essere considerato un monopolio dei religiosi, ma un invito rivolto a tutti : “ Siate perfetti come è perfetto il Padre Vostro che è nei cieli”. Ciascuno deve poter percorre, liberamente, la sua strada verso la santità, secondo i carismi o doni ricevuti dallo Spirito Santo.

Da una ecclesiologia giuridica si è passati ad una ecclesiologia di “comunione”, anche se il termine  “comunione” è una categoria generica che si può applicare anche all’ecclesiologia giuridica. Infatti, si può parlare di comunione gerarchica ; ad esempio, la “collegialità” e “le istituzioni collegiali” esprimono valori di comunione a livello giuridico. Inoltre, anche i sacramenti ed i carismi sono fattori di comunione. Ne consegue che con il termine “Chiesa”, indicante la comunità di tutti i battezzati che in Cristo formano il Nuovo Popolo di Dio, possiamo indicare e significare anche le diverse sfaccettature di questa comunità, cioè le varie ecclesiologie  che si diversificano non tanto per lo spirito che le anima, quanto in forza dei valori o fattori concreti che sottolineano o da cui partono.

Emergono così  i quattro fattori decisivi che caratterizzano questa comunità di battezzati in Cristo:

- L’autorità che raccorda, in continuità storica, la chiesa agli apostoli e quindi al Gesù storico fondatore. Su questo fattore si base l’ecclesiologia giuridica.

-La Parola ed i Sacramenti ( prima di tutto l’Eucaristia) che edificano e nutrono in perenne attualità la Chiesa posta sotto l’azione del Cristo celeste. Abbiamo l’ecclesiologia della Parola o ecclesiologia sacramentale-Eucaristica.

- I carismi che lo Spirito suscita dappertutto e sempre, quasi rigenerando da capo la Chiesa: Ecclesiologia carismatica o penumatologica.

-I valori umani diffusi nella storia, anche se sono soltanto delle “potenziali” risorse disponibili, anzitutto per le chiese particolari da costruire missionariamente. Ecclesiologia ecumenico-missionaria.

 

Il Concilio Vaticano II ha rinnovato il concetto di Chiesa, facendola uscire dalle secche dell’imperante visione riduttiva “giuridica” che parlava solo di “Gesù istitutore” e di “costituzione gerarchica della Chiesa” e recuperando, nello stesso tempo, il ruolo dello Spirito Santo e quindi della Parola, della Liturgia ( con particolare attenzione all’Eucaristia) e dei carismi.

Nella Ordinatio sacerdotalis sembra che il termine “Chiesa” divida ancora gli uomini portatori del presbiterato, dagli uomini e donne che formano “il popolo di Dio” [29]. La gerarchia della chiesa, qualche anno fa, quando parlava della collaborazione dei laici, manifestava la stessa tendenza : ai laici veniva affidato il mondo, ai chierici, invece, la chiesa.

Per superare questa spartizione classista di Chiesa (chierici : tutti e soli uomini – laici : uomini e donne) ci vorrà ancora del tempo…ma sono convinto che lo Spirito Santo ci riuscirà.

Se consideriamo, infatti, che  l’incorporazione battesimale a Cristo, la costituzione in popolo di Dio, la partecipazione agli uffici di Cristo e la titolarità della missione della chiesa sono proprie di tutti i fedeli, sia laici che chierici[30], si può comprendere come l’indole secolare non costituisca una nota esclusiva e distintiva del laico, dal momento che il laico può svolgere tutte le funzioni della chiesa[31], ma nel modo che a lui compete.

Il criterio fondamentale di distinzione tra la condizione di laico e quella di chierico, introdotto con il Diritto canonico, non è stato tanto il sacramento dell’Ordine, ma il fatto che l’Ordine è stato sacralizzato in modo tale che l’ordinazione presbiterale divenne ordinazione “sacerdotale”. Il presbitero che nella Chiesa primitiva indicava colui che, vivendo in una determinata comunità, veniva scelto dagli apostoli per mettersi al servizio delle anime come “pastore” di quella comunità cristiana, è stato sostituito dal diritto canonico dal “sacerdote”, come nell’Antico testamento, cioè da colui che si deve occupare delle cose sacre (sacer = sacro), e che come tale doveva rimanere separato da ciò che, invece, era ritenuto “profano”. Si sono così  codificate  due situazioni di vita: quella riguardante le “cose sacre” (chierici) e quella riguardante “le cose profane”(laici), strutturando attorno a queste due condizioni di vita una serie di norme e di leggi che hanno fatto dei “chierici” una casta e dei laici, una moltitudine anonima che “non conta né accusa”.

 

Tuttavia, l’ordinazione presbiterale in sé dovrebbe radicare la differenza essenziale in una unità fondamentale che, annullando le separazioni, non solo non reca alcun pregiudizio alle differenze stesse, ma mette in rapporto tra loro le differenti realtà, evidenziandone, nello stesso tempo, la reciproca interdipendenza e complementarità. Perciò, non dovrebbe avere senso considerare i laici ed i chierici in opposizione, come se si trattasse di due classi contrapposte ! Ma, a causa di questa eccessiva sacralizzazione del ministero presbiterale esistono dei fattori che rendono la collaborazione tra clero e laici, spesso difficile e scoordinata, favorendo la reciproca incomprensione e degenerando, qualche volta, in un reciproco sospetto.

Tuttavia, questa mentalità può essere superata sia sul piano del pensiero, evidenziando la complementarità delle varie membra, cioè dei ministri ordinati e dei laici nell’unico corpo di Cristo che sul piano dell’azione, valorizzando la corresponsabilità di tutti nell’edificare lo stesso Corpo di Cristo che è la Chiesa.

La condizione di fedele cristiano, che si acquisisce con il battesimo è la categoria base che determina l’uguaglianza fondamentale di tutti i membri della Chiesa e dalla quale traggono origine le diversità funzionali. La condizione di cristiano, infatti, è comune sia ai ministri ordinati che ai laici ed è precedente ad ogni distinzione e differenza ministeriale. Si potrebbe dire che nella Chiesa tutto è di tutti in quanto non c’è nulla che sia così esclusivamente di qualcuno che gli altri non vi abbiano parte, sia pure con espressioni ed attuazioni differenti. Tutti sono sacerdoti, profeti, testimoni, ma in modo diverso, a secondo del dono (carisma) ricevuto dallo Spirito Santo. Ogni cristiano, infatti  è titolare della missione ecclesiale, ma relativamente a quella porzione alla quale è stato chiamato.

La precedente teologia del laicato propose un radicale rinnovamento della figura del laico, ma lo fece sulla base di un’ecclesiologia che conservava antichi fondamenti teorici, obiettivamente ispirati alla "teologia dei due ordini" che opponeva ragione/fede, storia/ cristianesimo, natura/sopra natura, ed assegnava all’interesse del laico gli ambiti caratterizzati dalla ragione, dalla storia e dalla natura, cioè l’ambito del "mondo", mentre riservava ai chierici e ai religiosi i compiti più concernenti la realtà ecclesiastica.

L’ecclesiologia di oggi, invece, ha una visione fondamentalmente unitaria tra fede/ragione, cristianesimo/storia, natura/sopra natura; tra l’uomo e le sue relazioni fondamentali che interessano sempre e inseparabilmente la sua attuazione nel mondo e il suo rapporto con la trascendenza.

Da questa prospettiva unitaria è possibile cogliere un’immagine nuova del laico; un’immagine pluridimensionale e non appiattita sul compito della "santificazione delle realtà temporali"; un’immagine pienamente ecclesiale in quanto è figura che trova la sua prima e più profonda caratterizzazione e dignità nella prospettiva della sequela e non nei valori presunti della laicità o della competenza mondana.

Ne consegue che il momento pratico o sociale dell’azione del laico non dovrebbe essere interpretato come successivo alla sua fede, ma come  un qualcosa che nasce con la stessa fede e quindi concorrente ad istituirne il senso e le modalità.

In questa prospettiva, il problema del laico diventa il problema del cristiano comune, interpretato nella sua dimensione fondamentale di credente. La laicità, infatti, non è un valore o una fedeltà che si raggiunge dall’esterno ed estrinseca alla fede e che richiede quindi un impegno e una fedeltà diversi da quelli della fede. Il  valore del rapporto con le realtà mondane è un valore ed una dimensione che sono intrinseci alla fede stessa, in quanto questo rapporto con la realtà storica  è necessario per la sua attuazione.

La secolarità del laico-cristiano è intesa come tutto ciò che l’uomo vive e opera in questo mondo sull’onda del tempo: il suo nascere e morire; l’intreccio dei suoi rapporti quotidiani con gli uomini e con le cose; l’insieme delle istituzioni in cui si esprime la sua esistenza; il lavoro, la cultura, la tecnica, la poesia; il mondo interiore dei suoi sentimenti e quello esteriore delle sue opere; la complessità dei suoi problemi e il miracolo del suo progresso. I cristiani laici trovano l’occasione per esprimere la propria identità cristiana, nell’avere a che fare con tutte queste cose, vivendo nel mondo e condividendo le sorti del proprio tempo. Infatti, la Gaudium et Spes,afferma esplicitamente che gli impegni e le attività secolari" spettano propriamente, anche se non esclusivamente, " ai laici.

La vocazione del laico nella Chiesa, dal momento che  mette  in gioco il progetto della propria vita, il proprio  destino, la propria esistenza, esige un itinerario di preparazione per trattare le cose temporali, ordinandole secondo Dio.

Dal momento che nelle comunità cristiane e nelle parrocchie che sono l’ambito comune della vita cristiana, le iniziative e le proposte per prepararsi a vivere la propria vocazione di laici sono molto scarse e nei laici scarseggia la coscienza di quest’impegno, sarebbero molto utili dei percorsi formativi ed educativi per poter eliminare la frattura che esiste tra la proposta di fede che viene fatta e le condizioni reali dell’esistenza in cui la fede s’incarna; per rinnovare la pedagogia della fede in modo da poter coltivare mature vocazioni laicali e rendere più consapevoli gli educatori della comunità cristiana che il campo proprio dell’attività evangelizzatrice dei laici è il mondo vasto e complesso della politica, della realtà sociale, dell’economia, della cultura, della vita internazionale, della famiglia, dell’educazione, delle professioni, del lavoro e della sofferenza e non solo quello ristretto della propria parrocchia.

Perciò non si dovrebbe proporre al laico un impegno alternativo:  o nella Chiesa (cioè nelle sue attività interne) o nel mondo (cioè in quelle attività che, in modo errato, sono considerate come se fossero marginali rispetto alla vita della Chiesa ). L’impegno di laici quando è coerente con le esigenze della fede è sempre un impegno ecclesiale, dovunque si svolga, in politica, nel sindacato, in fabbrica...ecc.  Il laico-cristiano, infatti, dovrebbe essere una persona capace di scrivere la storia del proprio tempo alla luce del Vangelo.

L’ecclesialitàdel laico-cristiano non è data dal "luogo" in cui si svolge l’impegno, né dal "tipo" di impegno che si svolge, ma dall’ispirazione cristiana di chi lo svolge e dalla sua interiore ed esteriore condivisione della Chiesa. Infatti, la vocazione dei laici è quella di rendere presente ed operosa la Chiesa, soprattutto, in quei luoghi e in quelle circostanze, in cui essa non può diventare sale della terra se non per mezzo loro[32].

Il cammino dell’umanità nella storia è un succedersi di situazioni e di fattori nuovi che reclamano un’interpretazione evangelica del loro significato e della loro strutturazione. La stessa teologia intesa come progressiva comprensione della rivelazione in concomitanza con il progressivo cammino della vita della Chiesa, ha bisogno dell’apporto dei laici. L’apporto dell’esperienza e l’apporto della riflessione sull’esperienza. Una teologia che fosse prevalentemente clericale, rifletterebbe la mentalità di una sola parte della Chiesa (il clero) e risulterebbe lontana all’altra parte (il laicato) e finirebbe col mancare di una dimensione necessaria alla sua completezza. Sarebbe una teologia impoverita.

Alla stessa maniera l’opera d’evangelizzazione del mondo resterebbe impoverita se non si avvalesse del linguaggio, della cultura, dei costumi dei popoli evangelizzati. Infatti, solo realizzando uno scambio vitale tra Chiesa e mondo, tra Chiesa e cultura di un popolo, c’è  anche la crescita del Corpo di Cristo. Per riuscire in questo la Chiesa ha  bisogno, particolarmente, dell’aiuto di coloro che, vivendo nel mondo, sono esperti nelle varie istituzioni e discipline e ne capiscono la mentalità, sia che si tratti di credenti o di non credenti. Lo scopo è quello di accrescere lo scambio tra il Vangelo e le culture, soprattutto oggi, che i cambiamenti sono così rapidi e i modi di pensare sono tanti e vari[33].

 

Il rapporto tra la Chiesa e la società, intesa in senso planetario, domanda di essere ripensato perché si presenta in condizioni diverse e nuove rispetto al passato, anche se, per molti aspetti, queste condizioni richiamano la situazione in cui si trovava la Chiesa dei primi secoli.

All’inizio, la Chiesa viveva in una società che aveva una cultura estranea e, per certi aspetti, anche ostile al messaggio che essa proponeva e cercava di incarnare, pur riconoscendo ed apprezzando i valori umani che essa sosteneva. Essa rappresentava una realtà diversa dal mondo in cui viveva; una realtà minoritaria, un piccolo germe che cresceva secondo una propria identità; una realtà che la Chiesa si preoccupava di conservare nitida e precisa. Era un lievito che gradatamente fermentava intorno alle varie mentalità, ai costumi e alle istituzioni. Con il tempo, quel piccolo germe s’ingrandì, si moltiplicò ed il lievito si trasformò in società, dando origine alla “societas christiana”, nella quale gli elementi cristiani si fusero con le stesse strutture portanti della società.

In seguito, il processo di secolarizzazione portò alla dissoluzione della “societas cristiana”, riconducendo il rapporto tra Chiesa e mondo nella prospettiva dei primi secoli, quando lo stile di vita del cristiano era caratterizzato dall’equilibrio tra due dinamismi contrastanti: il dinamismo inerente alla presenza attiva e responsabile in questo mondo, e il dinamismo che nasceva dall’iniziale appartenenza a un " altro" mondo. Tra questi due dinamismi si sviluppò la tensione escatologica, comune a tutta la Chiesa e fu avvertita dai laici con particolare intensità a motivo della loro specifica indole secolare.

I primi anni della storia della Chiesa furono il punto privilegiato di confronto, il momento nel quale i ministeri ecclesiali non erano ancora "sacralizzati" ed i cristiani avevano la consapevolezza forte ed umile di essere l’anima del mondo.

Per capire è necessario rifarsi al discorso d’addio di Gesù nell’ultima cena. Egli affermò più volte che sarebbe tornato al Padre, lasciando questo mondo e che gli apostoli avrebbero dovuto continuare, in questo mondo, la sua missione, seguendone lo stile, le modalità e perseguendo lo stesso obiettivo del Maestro, loro modello.

Acquisire lo stesso stile del Maestro, significava avere le stesse convinzioni interiori a supporto della missione, per garantire la quale Gesù inviò lo Spirito Santo. Le modalità del Maestro richiedevano che la missione fosse orientata  verso tutti gli uomini, tenendo presente che non sarebbero mancate le persecuzioni. Mentre l’obiettivo sarebbe stato quello di far conoscere il nome e la gloria del Padre che si era manifestata in Gesù. Infine, il modello da seguire era Gesù stesso nel suo ostinato amore per questo mondo che volle salvare al prezzo della sua vita.

Sulla base di questi insegnamenti anche  il laico, come gli apostoli,  deve imparare lo stile della sua presenza nel mondo. Deve imparare, anzitutto, ad amare il mondo, fatto di uomini e di cose, segnato dal succedersi del tempo e dal moltiplicarsi delle imprese con le quali l’uomo forgia di volta in volta il suo destino, insegue la verità e l’amore, struttura la propria convivenza e spesso si distrugge con le sue stesse mani. Deve imparare da Dio ad amare  questo mondo anche se così diverso da come dovrebbe essere e da come egli lo vorrebbe.

Lo deve amare perché anche Dio lo ama, fino al punto, da dare il suo Unigenito Figlio[34]. Lo deve amare per quello che è, riconoscendo tutto il bene che in esso si trova, senza chiudere gli occhi sul male che pure non manca. Lo deve amare come ama la propria famiglia, gli amici, le occasioni fortunate, le imprese disperate, gli ideali affascinanti, i mille volti di uomini che tessono la trama di un’infinita solidarietà mettendosi a servizio della vita. Il laico deve amare il mondo perché è il luogo proprio della sua responsabilità cristiana e senza l’amore non c’è responsabilità.

Ma non basta amare il mondo bisogna anche farsene carico, esserne cioè responsabili, convinti che il mondo è come l’uomo lo costruisce e che la santificazione del laico si compie anche in base a questo impegno di edificazione del mondo, perseguita con costante dedizione, senza arrestarsi di fronte agli insuccessi e all’apparente inutilità dei propri sforzi, neppure davanti alla croce che potrà sopraggiungere. Anzi, il laico impara da Cristo ad accettarla e a morire se necessario per continuare a testimoniare che ama il mondo e lo vuole migliore.

 

Il laico, allora, deve imparare ad essere nel mondo con la coscienza di essere Chiesa che si matura e si conserva nel costante e personale rapporto con la Parola di Dio, i Sacramenti e nel dialogo di fede coi fratelli e coi pastori. Solo se egli sarà fornito di questa coscienza ecclesiale, convenientemente formata, potrà inscrivere la legge divina nella città terrena (GS 43), cioè potrà realizzare la sua vocazione di laico.

Essere nel mondo senza essere del mondo : ecco l’equilibrio difficile che il laico è chiamato a tenere. La  sua vocazione sarà quella di condividere il mondo e la sua storia nel suo quotidiano svolgersi e fin dentro i meccanismi stessi delle sue strutture, testimoniando però l’esistenza di un "altro" mondo e la perennità dell’eterno in cui la storia si risolve e da cui la storia sarà giudicata. Dio ha assegnato ai laici un posto così sublime nel mondo che non è loro consentito di abbandonarlo. La missione del laico trova nel mondo il suo habitat naturale in cui vivere ed esprimersi, nella consapevolezza tuttavia che egli appartiene ad un altro mondo, di cui è testimone e profetico richiamo.

 

Nello stesso tempo, il laico deve essere nella Chiesa con l’esperienza del mondo, in quanto tra Chiesa e mondo c’è una mutua relazione di “dare” e “ricevere”, in uno scambio reciproco[35]. Il laico diventa, così, una cerniera tra la Chiesa e il mondo. Questa immagine è suggestiva e veritiera se pensiamo all’intrecciarsi della dentatura della cerniera che salda insieme le due parti. Ma, potrebbe anche essere equivoca se si pensasse ai laici come ad una struttura di congiunzione tra la Chiesa e il mondo, una struttura intermedia che non è né Chiesa né mondo. Questo non corrisponderebbe a verità sia perché i laici sono nella Chiesa e ne fanno parte e sia  perché il rapporto col mondo interessa e coinvolge tutta la Chiesa, anche se con modalità diverse a secondo che si tratti di ministri ordinati o di persone consacrate  o di laici.

Il laico, infatti, si fa interprete della presenza della Chiesa nel mondo portando il timbro e le esigenze dell’ispirazione cristiana nei fatti universali della cultura, del lavoro, della convivenza sociale e, nello stesso tempo, testimonia nella Chiesa le sollecitazioni che da questi medesimi fatti umani provengono alla coscienza cristiana e alla stessa missione della Chiesa .

Anche se la modalità con cui la Chiesa si rapporta al mondo si esprime nella persona dei laici nella maniera più tipica e più intensa e anche più rischiosa, tale rapporto non rimane prerogativa dei laici, ma investe tutta la Chiesa. Così, il laico è chiamato ad amare talmente il mondo da sacrificare tempo, energie, lavoro per il suo avvenire migliore del presente, ma è anche abbastanza staccato dal mondo da non legare al suo orizzonte e al suo destino, tutto il senso della propria vita. Egli sa anche pendere le distanze dal mondo, contestandolo nella sue aberranti aspirazioni di onnipotenza.

I laici nella Chiesa, dunque, non possono considerare se stessi, né essere considerati dal clero, semplicemente, come dei soggetti passivi, quanto piuttosto delle persone attive con dei diritti che devono essere loro riconosciuti; dei doveri da compiere e  dei compiti  da esercitare, secondo le disposizioni del diritto e quando fossero a ciò preparati.

 

Certamente il Codice di Diritto Canonico usato per delineare tale antropologia ecclesiale non è quello più adatto. Infatti il codice è un documento "datato", mentre le attribuzioni fondamentali delle persone nella chiesa sono una realtà non databile per il fatto che la loro realtà si fonda unicamente sulla volontà di Cristo. Inoltre, il linguaggio del codice è per natura sua sintetico. Riducendo, infatti, il numero delle parole è facile perdere le articolazioni e le sfumature proprie di un linguaggio più discorsivo, come quello, per esempio, dei documenti del Vaticano II. Infine il Codice  soffre di una certa fissità per cui è facile che le formule in questione, pur invecchiando, non siano sottoponibili a rapida e salutare modifica. Quanto dice il codice è solo un segnale indicatore che spinge ad una ricerca più vasta e profonda, inducendo nello stesso tempo ad una continua riformulazione dei testi in questione.

Il codice per quanto riguarda le attribuzioni fondamentali dei fedeli, come per tutte le realtà giuridico/dogmatiche non è l’unica  "fonte dell’essere”, né l’unica "fonte del conoscere”, ma è una delle tante fonti  di conoscenza. Per conoscere, allora, in modo più approfondito ciò che il cristiano (il battezzato) è nella chiesa, la  missione che è chiamato a svolgere nel mondo, la  dignità alla quale è stato elevato da Dio, i suoi diritti come i suoi doveri, è necessario fare riferimento anche alla dottrina del Concilio Vaticano II e ai contenuti della teologia dogmatica  in  tutta la sua evoluzione.

 

Quali sono i compiti che la Chiesa potrebbe affidare a quei laici che fossero a ciò preparati?

Il Nuovo Codice di Diritto Canonico, dopo aver affermato che tutti i battezzati sono titolari della missione della Chiesa, in tutta la sua complessità ed estensione, apre ai fedeli laici, in modo specifico, una serie di uffici (officia), di incarichi (munera) e di ministeri - interecclesiali -  molto prestigiosi.

“I laici che risultino idonei, possono essere assunti dai sacri Pastori in quegli uffici ecclesiastici e in quegli incarichi, che, secondo le disposizioni del diritto, essi sono in grado di esercitare”, ad esempio: * insegnare scienze "sacre" anche in un seminario teologico; * ricoprire vari uffici nella curia vescovile, come quello di cancelliere, di economo diocesano; * ufficio di reggere una parrocchia in caso di scarsità di sacerdoti, quanto tali incarichi non richiedano il sacramento dell’Ordine, perché altrimenti i laici non possono esserne titolari in quanto carenti della necessaria abilitazione.

Questa cooperazione dei laici trova la sua ragione d’essere, non tanto nell’attuale scarsezza del clero e nella sua insufficienza in ordine ai compiti da svolgere e ai problemi della sua missione sempre più vasti e complessi, ma la motivazione è essenzialmente teologica. I laici, membri della chiesa allo stesso titolo dei chierici e dei religiosi, sono anch’essi impegnati nell’edificazione del popolo di Dio ed hanno l’obbligo di promuovere e sostenere l’attività apostolica anche mediante proprie iniziative, in forza del battesimo e della confermazione.

In un famoso passo del Decreto “Ad Gentes” è detto espressamente che " la chiesa non si può considerare realmente costituita, non vive in maniera piena, non è segno perfetto della presenza di Cristo tra gli uomini, se un laicato autentico, svolto anche dalle donne"[36], non si affianca alla Gerarchia e collabora con essa.

 

Quando il codice di Diritto Canonico parla di laici a cui affidare “0fficia” e “ munera” intende uomini e donne o solo uomini”?

I laici di sesso maschile che abbiano l’età e le doti che sono determinate con decreto dalla Conferenza Episcopale (CEI), possono essere assunti stabilmente, mediante il rito liturgico stabilito, per esempio, ai ministeri di lettori e di accoliti; tuttavia tale conferimento non attribuisce loro il diritto al sostentamento o alla rimunerazione da parte della chiesa [37].I laici, tuttavia, possono assolvere, per incarico temporaneo, la funzione di lettore nelle azioni liturgiche; così pure tutti i laici godono della facoltà di esercitare le funzioni di commentatore, cantore o altre ancora, a norma del diritto. “Ove le necessità della chiesa lo suggeriscano, in mancanza di ministri, anche i laici, pur senza essere lettori o accoliti, possono supplire alcuni dei loro uffici, cioè esercitare il ministero della parola, presiedere alle preghiere liturgiche, amministrare il battesimo e distribuire la sacra Comunione, secondo le disposizioni del diritto”.

Solo i maschi, quindi, possono essere assunti in modo stabile e col rito liturgico ai due ministeri di lettore e di accolito. Tuttavia, anche le donne  possono esercitare per " temporanea deputazione" [quindi non stabilmente] e senza essere ammesse mediante il rito liturgico, il ministero di lettore e altri incarichi nell’ambito della liturgia, es. quello di commentatore e cantore.., non però quello di accolito. Ma, le limitazioni precedenti diventano quasi inesistenti se si considera l’ampiezza della previsione sul ministero liturgico dei laici [ = uomini e donne].

Spesso il laico, di fronte a questa sua nuova immagine, prova un grande disagio causato da un’immagine di Chiesa che egli percepisce come potenzialmente prevaricante la propria libertà e identità, invece che come luogo nel quale riceve una positiva provocazione alla crescita, nella sua relazione con Dio e nella carità fraterna.

Di fronte ad un’immagine di Chiesa "ispessita"  dal clericalismo, il fedele laico reagisce con "strategie di partecipazione con riserva", selezionando quasi per autodifesa, i contenuti proposti dalla predicazione ecclesiastica. Il momento storico, caratterizzato dall’era dell’informazione, dovrebbe costituire un’occasione “provvidenziale per testimoniare ed annunciare il Verbo che si è fatto carne, duemila anni fa.

E’ amaro constatare, invece, come per la maggioranza dei cattolici, il Battesimo sia rimasto sepolto da una cappa di oblio. Tuttavia il futuro dei laici non può essere quello di una minoranza “assimilata” ed  insignificante, perché il laico-cristiano deve essere un “portatore di luce” al mondo, altrimenti il Cristianesimo, come minoranza sommersa in una cultura “secolarizzata”, corre il rischio di essere  ridotto ad una delle tante forme irrazionali di offerte “spirituali” interscambiabili, che abbondano nelle “vetrine” della società consumistica e dello spettacolo; oppure  di essere ridotto a simbolo della compassione per gli altri; ad un edificante volontariato sociale”; oppure, sotto l’influsso dei media, asservito al potere gestito dal clero.

 

Per superare queste riduzioni è necessario che i laici vivano “con passione nel mondo, senza essere del mondo, anche se questo è reso sempre più difficile, da un mondo retto dell’universalismo del potere, da un impero che sembra non avere una capitale, né responsabili visibili, ma che, tuttavia, determina profondamente la vita delle persone e dei popoli, creando zone di benessere e di fame, di pace, di guerra, di vita e di morte”.

Il laico, quindi, del terzo millennio”, dovrebbe essere una persona  che avendo acquisito la coscienza della propria chiamata ad essere “un cristiano”, un discepolo del Signore, vive il proprio battesimo e si sente unito a Cristo, come il tralcio alla vite e, nello stesso tempo, si sente in comunione con tutti gli altri uomini che Dio, per amore, ha creato “a sua immagine e somiglianza”, convinto che il cuore dell’uomo è fatto per la verità, per la giustizia, per la felicità e per la bellezza. Questa è la verità che può liberarci dalle divisioni, dalle polarità che sono così distruttive nella società umana e renderci capaci di tradurre la buona notizia del Vangelo nelle culture della politica, dell’economia e dell’università[38].

 

7- Nell’enciclica Pacem in terris ( 1963) Giovanni XXIII ha rilevato come i movimenti sociali femminili rientrassero fra i segni dei tempi ed ai quali la chiesa doveva prestare attenzione. Tuttavia, la posizione dell’ uomo e della donna nella chiesa non poggia sulle stesse motivazioni che si possono trovare nella società civile. La chiesa e la società civile sono corpi sociali retti da leggi differenti, anche se sono composti da persone che si misurano con lo stesso condizionamento storico, le stesse correnti di pensiero, le stesse problematiche etiche, gli stessi dati psicologici.

Questo è innegabile, anche se “la religione ha sempre influenzato  una definizione ed una  legittimazione dei ruoli tra uomo e donna, legati al sesso”[39], mentre il Concilio Vaticano II nella Costituzione Gaudium et Spes (1966), proponeva di sopprimere ogni discriminazione basata sul sesso come contraria al disegno di Dio.

Nel 1975 l’ONU proclamava l’anno internazionale della donna ed inaugurava il decennio della donna che si concluse con la Conferenza di Nairobi nel 1985. Il Sinodo dei Vescovi del 1987 ebbe come tema il ruolo dei laici nella chiesa e nel mondo…e tutte le donne appartengono alla condizione ecclesiale di “laico”. Tuttavia, ancora oggi, sia che si tratti della chiesa o della società, è ugualmente difficile per una donna diventare amministratore delegato di una multinazionale, come diventare vescovo.

Ma ci sono anche delle aperture sia da una parte che dall’altra: basta pensare alla ordinazione di donne nella Chiesa anglicana e parallelamente alla possibilità per la donna di assumere le più alte responsabilità politiche. Nello stesso tempo, la raccomandazione di “votare donna” si scontra con il corpo elettorale maschile, così come capita, ad esempio, che le donne che vengono ad esercitare un ministero non abituale in una parrocchia, siano, a volte, accolte “male” dal corpo ecclesiale.

Nella società civile, come nella chiesa, è presente la rivendicazione di uguaglianza fra uomo e donna. E’ necessario, tuttavia, distinguere la teoria dell’eguaglianza, presente nella legislazione della maggioranza dei paesi europei, dalla pratica reale.

Una raccomandazione del Consiglio dei ministri dell’Unione Europea del 2/12/96 precisava che i Quindici si impegnavano ad attivare “ una strategia integrata d’insieme mirante a promuovere la partecipazione equilibrata di donne e uomini ai processi decisionali e di sviluppare o istaurare, a questo scopo, le misure appropriate, quali, secondo i casi, misure di legge e/o di regolamentazione e/o di sostegno”.

Questo testo rispecchia una certa consapevolezza che l’uguaglianza dei diritti non significa di per sé un’uguaglianza delle opportunità, e fa capire che il principio di uguaglianza non si attua senza problemi.

Confrontata con questi problemi, la sociologa Christine Delphy rivendica la filosofia dell’azione positiva che, secondo lei “abbandona l’idea d’uguaglianza formale non perché insufficiente, ma perché inoperante, magica e perfino perversa.

Inoperante perché l’uguaglianza formale non può produrre uguaglianza, dal momento che ignora la disuguaglianza; magica  perché l’uguaglianza formale consiste non nel cercare la disuguaglianza, ma nel fare come se la gente fosse uguale; perversa perché è il quadro ideale per riprodurre le disuguaglianze, negandole[40].

L’impiego della parola uguaglianza – secondo Alice Gombault - ha prodotto degli effetti perversi nella relazione uomo/donna. Secondo lei, il rischio dell’uguaglianza sta nel fatto che questa viene percepita come un’uguaglianza con l’uomo maschile che resta il prototipo dell’umano sul quale la donna è tenuta ad allinearsi se aspira al riconoscimento personale e sociale… per cui, molto spesso ci si trova davanti ad una specie di incapacità di pensare l’uguaglianza nella differenza… eppure una equazione stabilisce l’uguaglianza fra termini differenti. Perciò, Alice Gombault, fa appello al concetto di parità, secondo la formula di Eliane Vogel-Polscky, e spiega che lo “scopo di questo cambiamento di terminologia è quello di reintrodurre le differenze, al fine di uscire dall’aporia di credere di aver conseguito l’uguaglianza quando si trattano le donne così come si trattano gli uomini. L’uguaglianza cui fa appello la parità è un’uguaglianza più fondamentale che si radica nel fatto che l’umanità è necessariamente e strutturalmente duale, composta – a parità – di uomini e di donne[41]. Tuttavia, quando si parla della parità come formula politica “non basta che si realizzi un giusto equilibrio tra uomini e donne. E’ la dualità di maschile-femminile che va consacrata politicamente, culturalmente e  simbolicamente” [42].

 

Riflettendo sulla presenza femminile nella tradizione mistica europea e sulla maniera di valutarla, Luisa Muraro ha scritto: “ Nella nostra civiltà le donne sono state spesso misurate, più o meno consapevolmente, sul modello maschile. Parlo al passato, ma notiamo ancora oggi, quando si parla per esempio della presenza femminile in politica, la tendenza sia di commisurarla a quella maschile. A questo modo di pensare ci porta la cultura della emancipazione. Noi non pensiamo più che l’uomo sia il modello e la misura della donna, ma tendiamo a pensare che, in una società giusta e moderna, le donne debbano poter dire, fare, essere, tutto quello che gli uomini possono dire, fare, essere. E niente altro. Questa maniera di sentire e giudicare è catastrofica per l’altro modo di giudicare la qualità basata sull’apprezzamento puro della differenza, senza fini utilitaristici e senza modelli né termini di confronto” [43].

 

In effetti si fa spesso confusione tra l’identità sessuata e gli adempimenti o i ruoli attribuiti a ciascuno dei due sessi. Partendo dalla generazione, dove questi ruoli sono differenti e precisi, si dimentica che tutto il resto è libero, non c’è norma che lo stabilisca.

Nei nostri paesi dove la pagina dell’emancipazione è stata voltata, si sta scrivendo un’altra pagina che ha come contenuto “ l’aspirazione fondamentale delle donne di essere loro stesse, fuori dagli schemi, a formare valori alternativi”. Le donne non “combattono” solo per una loro uguaglianza che tiene conto solo della comunità umana, finalizzata al riconoscimento sociale o mossa dal postulato dell’identità umana. La posta in gioco è più complessa. Infatti ci può essere libertà femminile, per esempio, anche nel fatto che una donna non voti per un’altra donna, sentendosi lei stessa ben poco compresa nel sistema della rappresentanza politica. Questo è vero anche per la chiesa cattolica dove le donne rifiuterebbero sempre di più una eventuale ordinazione se questa dovesse assimilarle allo statuto clericale vigente.

Il movimento di emancipazione ha fatto credere che, se la storia è principalmente quella della libertà maschile, la libertà femminile consisterebbe nel domandare di esservi ammesse e ad essa “innalzate”, per così dire. Ma, non si dà libertà femminile senza l’espressione di bisogni simbolici che le sono propri , nell’invenzione della sua differenza. A volte gli impedimenti più forti all’equilibrio delle relazioni sociali tra donne ed uomini sono posti dalle donne stesse, sia individualmente che come gruppo. Questi freni provengono generalmente da donne non libere, condizionate da tutta una serie di fattori fra i quali possiamo mettere il peso di un passato di dominanza maschile, la paura che genera la possibilità del nuovo, la seduzione maschile, il fascino della maternità, le strutture familiari, il proprio desiderio di potere, l’invidia per le altre donne che hanno fatto la scelta di situarsi nella differenza.

Agli uomini, naturalmente tocca porsi delle domande analoghe e più gravi per quel che riguarda la relazione che hanno fra sé e sé, con gli altri uomini e con le donne.

Per quanto riguarda i chierici, scrive il teologo lionese Christian Duquoc “ Per ora il chierico rimane prigioniero di un potere costruito interamente sugli abusi o sul conservatorismo.. Ma, prigioniero com’è del suo potere, tanto meno lo possiede, in quanto le relazioni sociali si sono trasformate. Se tante leggi della Chiesa, tante parole del Papa, del vescovo, dei sacerdoti non trovano più ascolto è per via che i responsabili, aggrappati a vecchie nozioni, spesso grandiose, non osano rischiare l’invenzione di nuove modalità di ministero. Il potere si rende odioso quando non ha più una funzione effettivamente sociale”[44].

 

8- La domanda che ogni donna potrebbe fare a se stessa : “Sono io positivamente felice d’essere donna e dell’esistenza di altre donne”? richiede una risposta articolata secondo diverse angolazioni.

a) Anzitutto quella antropologica.

L’essere umano è due, uomo e donna, vale a dire “sessuato” che equivale a “tagliato” e non a “ritagliato”. Ogni uomo ed ogni donna è pienamente umano, ma interamente mancante dell’altro umano perché non esiste un essere umano uno o totale.

Bernard Van Meenen fa notare come “sarebbe interessante vedere l’umano non come unità (risultante dalla fusione), né come totalità ( prodotta dall’addizione delle caratteristiche), ma come unicità, ossia come singolarità universale, cioè l’universalità dell’umano non è la sua generalità, ma la sua singolarità.

L’unicità dell’umano, nella sua capacità di aprire a tutti, cioè ad ogni uomo e ad ogni donna, la singolarità dell’essere-umano, rifiuta di fare della parte un Tutto, con una contestazione radicale di ciò che le istanze del potere  economico, culturale… fanno passare per “valori unificanti” e che sono, invece, soltanto delle astrazioni convenute.

Si sente spesso parlare di complementarietà tra uomo e donna, ma essere complemento tocca generalmente a lei, come se l’uomo e la donna fossero singolarmente un semplice ritaglio di un tutto che essi, combinandosi come si deve, potrebbero ricostituire in una specie di fusione ideale.

Si parla pure di reciprocità come se uomo e donna, di ogni particella del loro essere potessero ritrovare dall’altra parte dell’umano, l’eco, il corrispondente o il simmetrico: in qualche modo la sua immagine invertita.

L’unico concetto che sembra appropriato è quello della differenza sessuale. Ma si tratta di un pensiero che stenta ad imporsi sia nel pensiero che nella pratica. L’essere uomo è compiutamente umano, come l’essere donna è compiutamente umano, ma i due sono però differenti. Non sono complementari né confrontabili; l’uno e l’altro esistono ed al tempo stesso si limitano.

Il racconto biblico lo dice adoperando la parola “costola ”, ossia fianco, lato; è la sua maniera di esprimere il limite.

Parlare di differenza sessuale, però, comporta una difficoltà di linguaggio al quale la differenza stessa impone un limite. La differenza sessuale, infatti, esiste pur sottraendosi al linguaggio e non è possibile, di fatto, giustificare questa o quella differenza appellandosi ad un’astrazione tratta da un dato biologico[45] o psicologico.

Luisa Muraro affermava che “ non appartiene a nessuno, né uomo né donna, determinare la differenza di essere uomo/donna che ci determina. Da noi dipende che essa prenda, storicamente, socialmente, significati di libertà… la differenza femminile che si significa per via di differenziazione dall’uomo, è senza libertà ed è speculare della ricerca di assimilazione all’uomo che ha caratterizzato l’emacipazionismo. Una donna è differente dall’uomo sia che cerchi di differenziarsi sia che cerchi di assimilarsi. Ma è se stessa solo se non cerca la sua misura nell’uomo né per somiglianza né per contrasto e la cerca invece nel suo essere donna[46]. Invece alle donne tocca continuamente di dover giustificare la loro differenza e di attestare la sua positività come se l’essere donna non avesse luogo di “essere di per sé”.

La teologa  D. Singles, di Lione , fa notare :” Nessuna antropologia è mai riuscita a mettere in evidenza, in maniera convincente, un solo tratto esclusivo, universale, valido per tutte le donne in quanto donne… La differenza consente ad ogni persona di esistere come progetto originario ed originale, senza confusione con l’altro. Andare oltre ed attribuire ad una forma particolare della differenza, quella che rileva dalla struttura anatomica degli esseri umani, il ruolo di principio fondatore delle funzioni sociali, equivale a richiedere qualcosa che non entra nelle sue competenze… In quello che è proprio o specifico di un essere umano c’entra in primo luogo non l’anatomia, ma la libertà. [47]

La differenza sessuale, dunque, può essere intesa come un principio di libertà che è tutto il contrario di uno stampo pronto nel quale bisogna calarsi con forza. In questo senso possiamo dire che la differenza sessuale non esiste, ma si inventa. Conviene lasciare che si manifesti liberamente, senza sapere, prima, come.

La differenza non dipende da un principio volontarista, come se si trattasse di fare la differenza. Essa è un potenziale che si conosce solo dai suoi effetti. Bisogna allora staccarsi dalla pretesa di dominare sé e l’altro con il sapere e la definizione. La differenza sessuale è un principio di alterità di ogni essere umano, in cui si manifesta. In altre parole la differenza sessuale è la fonte della storia delle relazioni tra uomini e donne; essa si concretizza in identità che sono precisamente storiche, che appartengono cioè al tempo che passa e non possono in alcun modo erigersi in principi validi una volta per tutti. E’ storico ciò che ha un inizio ed una fine. D’altra parte l’essere umano si lascia pensare solo nel segno della differenza, segno della storicità che non ne esaurisce il senso..

 

La differenza maschile si è imposta nella storia con il suo proprio bisogno simbolico che è un bisogno normativo. Nella chiesa cattolica c’è stato un vero e proprio colpo di forza maschile che ha trasformato in legge immutabile quello che era pratica storica.

Per es. la parola “sorella” si usa poco quando ci si rivolge a donne, a meno che non siano religiose. Essere “sorella” equivale ad entrare in una relazione che è decisamente libera dai ruoli di vergine, sposa, madre, che sono tutti molto segnati  dal dato fisico e relazionati all’uomo. Purtroppo sono anche i ruoli nei quali, quasi sempre, la chiesa cattolica riconosce la dignità ed il destino della donna.

Alle donne vengono così assegnati dei “luoghi” che non devono essere i loro, a meno che non se li siano scelti liberamente; il che si verifica forse spesso, ma meno di quel che si crede.

Se leggiamo il Vangelo ci accorgiamo che a coloro che volevano mettere al primo posto la parentela, cioè un ruolo che non comporta nessuna scelta, Gesù disse: “Mi sono fratelli e sorelle quelli che ascoltano la Parola e la mettono in pratica” (Lc 8,19-21). Gesù dichiara la sua preferenza per una relazione elettiva in sommo grado: l’ascolto della Parola e la sua pratica. E quello che fa intendere anche a Marta, sorella di Maria che, da parte sua, aveva fatto la sua scelta: “Maria ha scelto la buona parte (non la migliore) che non le sarà tolta” ( Lc 10,30-42).

Non c’è la possibilità di fare dei confronti dal momento che la parte è buona perché scelta. In fondo solo l’invidia è incapace di fare una scelta perché crede che le spetti tutto, e quindi non sceglie, ma invidia chi sa scegliere. Non è possibile agire umanamente, fare opera comune e specifica insieme, senza passare per la rinuncia, lucida ed accettata ad essere tutto, sia da una parte che dall’altra. Si tratta di una sfida terribile perché proprio lì, al limite di noi stessi, nasce l’angoscia. Occorre perciò ricordarsi che non c’è la Donna, ma ci sono delle donne; non c’è l’Uomo, ma ci sono degli uomini; non c’è l’Umano, ma ci sono esseri umani.

Respingere questa evidenza è la radice di tutte le discriminazioni.

 

b) Cosa dice la Sacra Scrittura dell’essere umano?

Ci sono delle donne che hanno accusato la Scrittura di essere la loro nemica e ci sono degli uomini che si sono serviti di questi testi per fondare i loro poteri esclusivi. Sia nell’uno come nell’altro caso si dimentica che la Bibbia è il racconto della storia della salvezza e che i racconti non fanno astrazione dai contesti culturali e sociologici in cui sono nati. Spesso si trasforma in argomento d’autorità elementi che appartengono al contesto culturale di quei tempi, ricavandone conclusioni arbitrarie. Ma, il più delle volte si dimentica come si legge un racconto. Un racconto non è un rapporto storico, anche se ne ha alcuni aspetti. Non risponde alla domanda : cosa è accaduto ? Ma risponde alle domande: chi racconta ? che cosa racconta? a chi lo racconta? E con quale intento lo racconta ?

Studiando la Sacra Scrittura, si può constatare come per l’autore biblico, sia Dio che fonda la differenza sessuale.

Nel primo capitolo della Genesi si legge che “Dio creò l’umano a sua immagine. A immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò”. Questo testo connette la differenza nell’umano direttamente all’immagine di Dio. L’umano diventa il luogo di una differenza che è l’immagine di Dio in lui. Se ammettiamo che Dio è indicibile, che quello che di lui possiamo dire non è mai quello che è, nemmeno la differenza nell’umano lo sarà. Come il desiderio umano tenta di dire Dio che però gli sfugge, così è della differenza tra l’uomo e la donna. Voler determinare la differenza iscrivendola nella morfologia dei sessi, corrisponde come procedimento alla fabbricazione del vitello d’oro per poter dire : ecco Dio! Il che ci insegna come l’idolatria, nel senso di volersi fare un’immagine dell’altro, si trovi alla radice di tutti gli errori simbolici.

E’ sempre in rapporto a Dio che può dirsi l’equivalenza dei sessi anche nella differenza, poiché l’una e l’altra sono creati ad immagine di Dio.

Bernard Van Meenen sottolinea come “L’altro non sia mai un umano deficiente che io vengo a completare; ciò che ci fa differire l’uno dall’altro, tra donna ed uomo è proprio ciò che non possiamo piegare alle nostre idee, alle nostre immagini o abitudini. Per cui non basta dire che Dio ci ha fatti differenti; bisogna anche differire nel corso della nostra vita, affinché non cessiamo, uomini e donne, di diventare umani tra noi. Il racconto biblico, diversamente dalla filosofia, non lascia la differenza sessuale nel registro della contingenza; il racconto è sempre mosso da una necessità – che non significa determinismo – nel cui specchio il lettore è portato passo a passo a comprendere altrimenti chi lui sia. La Genesi pone nell’umano la differenza sessuale come essente necessariamente l’immagine di Dio, essendo Dio il soggetto creatore. In altre parole, la differenza è posta nella prospettiva di un progetto, dato che il racconto è solo agli inizi”.

 

L’essere non può che concepirsi differente. Questo principio si riflette nella scrittura ebraica delle parole che dicono “uomo” e “donna”. Queste due parole illustrano l’insegnamento biblico: i due elementi che esse hanno in comune rappresentano la comunità umana; insieme formano la parola “fuoco”, nella quale potrebbero confondersi, se non ci fossero, i due elementi che differiscono … ed insieme, questi due elementi rappresentano il nome di Dio; mescolati al fuoco, fondano la differenza dell’uomo e della donna, nel suo centro e al suo limite.

Il nome divino è l’elemento differenziatore nell’umano, che gli permette di entrare in dialogo e fare alleanza, non  soltanto nella figura particolare della coppia, ma in ogni ambito della vita umana. Viceversa, solo nell’alleanza degli uomini e delle donne, il nome divino diventa leggibile.

 

Studiando il testo biblico si nota come il testo non tema di esporre anche le difficoltà fondamentali della relazione tra uomini e donne, al fine di risolverle. Nelle prime parole che esso mette in bocca all’uomo è già attestato l’impatto che quella relazione ha nel divenire umano “ Costei – dice l’uomo – sarà chiamata ichah (donna), perché da ich ( uomo) è stata presa” ( Gen 2,23)

L’uomo riferisce la donna esclusivamente a se medesimo; questo autoriferimento esclude il terzo, cioè Dio che pure era all’opera ed aveva annunciato il progetto di un aiuto all’uomo che gli stesse di fronte e fosse parlante; l’uomo cade nella trappola di voler definire l’altro, mentre Dio voleva impedirglielo, facendolo cadere in un sonno profondo intanto che “costruiva” la differente.

Il racconto espone in seguito le conseguenze disgraziate di questa parola – la donna che va a intrattenersi con un fantasma, il serpente. Il racconto biblico mostra, così, indirettamente come il dialogo degli uni con le altre sia indispensabile ad illuminare e ad aggiustare le loro relazioni. E questo vale nella Chiesa, come altrove.

Nella Bibbia si trova, anche, un altro tentativo dell’uomo di definire la donna, ma  questa volta in base a quello che gli manca. E così, l’uomo, come aveva gridato i nomi degli animali, grida anche il nome della donna “ l’umano gridò il nome della sua donna, Vivente, perché è la madre di tutti i viventi” ( Gen 3,20). La storia di dare alla donna il titolo di “madre”, invece che di “compagna” è dunque molto vecchia. Ma, di colpo la donna dichiarerà, all’inizio del quarto capitolo : “ Ho creato un uomo con il Signore”. In altre parole, lei salta l’uomo, come lui aveva fatto con Dio. Eva in quanto madre, annulla Adamo, in quanto padre e sposo, ruoli che, invece, spartisce fra Dio ed il figlio. Conosciamo il seguito: il figlio si chiama Caino. Siccome non gli è stato indicato suo padre, trovandosi nella situazione di sposo, si sente minacciato dal fratello e lo uccide. Ma quelle stesse parole della donna ricordano qualcosa di importante. Diciamo che con esse lei fa un inizio di teologia ( dalla bocca di lei esce per la prima volta la parola Signore). Sarebbe in effetti dannoso per lui come per lei rinchiudere la loro differenza nella coppia, vedendo in questa il luogo in cui la donna si riconoscerebbe per  alterità dall’uomo e viceversa. Niente di più contrario alla loro libertà perché equivarrebbe a mettere un altro qualsiasi al posto dell’Altro, posto vuoto che soltanto Dio può occupare.

Dio è l’Unico che mette la sua immagine nell’umano proprio nel luogo della sua differenza. E ciò che rivela all’umano il suo differire è che lui è uomo, lei è donna. E questa differenza tra i sessi (non dei sessi, non anatomica, fisiologica, psicologica…)  è il segno di una differenza ancora più grande: se, creando l’uomo a sua immagine, Dio crea differenza, allora differire gli si addice. La Bibbia questo lo significa chiamandolo il Santo ed iscrivendo nella Legge il divieto dell’immagine che sarebbe solo una confusione tra ciò che Dio è e ciò che non è.

Ne consegue che parlare male dell’umano è un parlare male di Dio. Il voler assegnare dei ruoli all’uomo o alla donna è un negare l’immagine di Dio nell’umano, una presa di padronanza su ciò che differisce.

Di conseguenza una comunità cristiana non aperta alla possibilità, per il singolo o la singola, di scegliere il suo posto in essa, nel rispetto degli altri, sarebbe semplicemente blasfema. Ma è proprio sulla confusione tra simbolico e biologico che si costruiscono nella chiesa cattolica pratiche discriminatorie verso le donne.

 

La storia di Tamar narrata nel cap. 38 della Genesi è la storia di una giovane sposa due volte sconfitta in ciò che, nella cultura di quel tempo, costituiva la dignità della donna: doppiamente vedova, rimane senza sposo e senza figlio. Assimilata così alla morte che fa strage nella famiglia  di Giuda – il figlio di Giacobbe che darà il suo nome al re davidico – viene rimandata alla casa di suo padre da cui è venuta. Tamar resiste. Spogliandosi di ogni onore “rendendosi irriconoscibile”, “annientandosi”, dice il testo, viene presa per una prostituta dallo stesso Giuda che già aveva mancato la sua promessa di darle come sposo il terzo figlio. Ed è a questo punto che ella ricollega questo padre alla vita, dandosi a lui in cambio di un pegno, le insegne del suo potere.

Ella mette così a repentaglio la sua vita e, essendo rimasta incinta di Giuda, anche quella della sua discendenza. Confrontato a questo limite estremo, Giuda può ritrovare la sua autorità ed insieme riparare alla parola mancata, riconoscendo che “lei” è più giusta di lui, poiché lei, non senza lui, ha fatto breccia nella vita facendogli ritrovare il suo filo rosso che porta per giunta al Messia.

Questo racconto, pur appartenendo ad un contesto patriarcale, ci trasmette un messaggio essenziale quanto universale e cioè che, abdicando l’uno e l’altra al loro potere e specialmente a quello sulla vita e sulla morte, la vita si apre per l’uno e per l’altra ad un avvenire possibile. Il racconto biblico non fa della differenza uomo/donna un decreto, ma un progetto. Le permette di dirsi una storia che mai, in nessun momento, fa di sé un idolo e che mai perderebbe il filo rosso capace di collegare i singoli momenti al senso che si manifesta solo dal loro insieme. Insieme che non è chiuso; l’attesa escatologica, infatti, lo apre all’avvenire.

 

9- Alla luce di quanto detto come guardare al problema dell’ordinazione delle donne?

Affrontare questo tema potrebbe rischiare un malinteso che consisterebbe nel credere che il porre tale questione rientri per forza nel postulato egualitario, in contrasto con il principio della differenza uomo/donna e la sua istanza dinamica. Ciò sarebbe vero soltanto se l’ordinazione delle donne significasse, ipso facto, l’impossibilità di esprimere il simbolico loro proprio. Ma secondo il Vangelo, le donne presenti alla Passione sono anche le prime portatrici del messaggio cristiano originario, la risurrezione di Gesù, il Cristo.

Nel Vangelo di Marco il racconto della Passione è tutto ordinato in maniera che il suo punto focale sia l’unzione di Gesù da parte di una donna (Mc 14,3-9); scena che Gesù conclude con queste parole:  “Ella ha fatto tutto quello che poteva fare: ha anticipato di ungere il mio corpo per la sepoltura. E in verità io vi dico che per tutto il mondo, dovunque sarà proclamato il Vangelo, anche quello che costei ha fatto sarà raccontato in  memoria di lei”.

Tale passo potrebbe bastare alla teologia più restrittiva per considerare che l’annuncio del messaggio  e la proposta dei segni sacramentali della vita del Risorto, a cominciare dall’Unzione dei malati, possono essere fatti anche da donne. Se così non è stato, bisogna pensare che c’era altro di mezzo e non c’è dubbio che questo altro sia, essenzialmente, il potere sacralizzato.

La  questione si iscrive in una “storia di contraddizioni, ambiguità e pratiche discriminatorie”[48]. Esiste, infatti, tra le donne e le autorità clericali un contenzioso grave ed irrisolto i cui elementi più importanti sono :

a) La confusione tra il simbolico ed il biologico. Nel celebre passo alla lettera agli Efesini “ Mogli siate soggette ai vostri mariti, come al Signore, poiché il marito è il capo della moglie, come anche Cristo è il capo della Chiesa” (  Ef 5,22-33), Paolo parla di una relazione simbolica tra Cristo, sposo e la Chiesa sposa, relazione datrice di vita. La questione è allora come intendere nella sua giusta maniera la distinzione tra simbolico e fisico, tra il reale che significa e la semplice realtà.

Mettiamo che qualcuno abbia trovato un oggetto prezioso che non è appartenuto a nessuno prima di lui. Questo oggetto diventa dunque suo. Nessuno l’ha mai visto, nessuno sa che lui lo possiede. Di conseguenza l’oggetto prezioso perde ai suoi occhi ogni fascino. Non ne ricava nessuna gioia. L’oggetto gli diventa insignificante. Gli piacerebbe parlarne con qualcuno, ma in tal caso rischia di suscitare l’invidia, la disputa, la violenza. Ma alla fine decide e ne parla, lo mostra ad altri che vorrebbero averci parte. La cosa termina con la spartizione dell’oggetto che di colpo diventa il significante dell’accordo concluso, un accordo dal quale tutti traggono un più di vita. L’oggetto è stato spezzato ed esiste solo nella spartizione. Ed ogni parte testimonia di una condivisione generatrice di vita. Da insignificante che era, è diventato il simbolo di una alleanza.

Ritornando al testo paolino è chiaro che non è il “pene” di Cristo che entra in conto, né la vagina  femminile da mettere al suo posto, ma il fatto che Gesù ha avuto il coraggio di dare la sua vita spartendola – come gli sposi sono invitati a fare tra loro perché altri vivano.

Il simbolo di questa comunicazione della vita per Cristo alla comunità cristiana, non è l’oggetto sessuale, ma il pane spezzato ed il vino versato. Ogni uomo ed ogni donna che accettano di mettere la loro vita al servizio della comunità sono atti a designare per essa  quel reale simbolismo in memoria di lui.

Il simbolico è dunque uno spazio di scambio e di comunicazione che rende possibile il mutuo riconoscimento, con riferimento al patto che costituisce ciascuno come soggetto. Questa comunicazione è mediata da oggetti, discorsi, enunciati. Ma che cosa accade quando questo processo di riconoscimento non si compie o si compie solo in parte ? E’ quello che capita quando, alla mediazione del discorso o del regalo viene a sostituirsi, con falso realismo, l’immediatezza dell’oggetto in circolazione. Il significante perde la sua valenza differenziale e mediatrice; si trasforma in immagine e prende allora la funzione cattivante o fascinosa della totalità rappresentata. In una situazione di questo tipo c’è comunicazione, ma i termini sono visti prima del rapporto e la relazione non funziona veramente, perché l’altro non è veramente altro; viene infatti percepito attraverso l’immagine e la rappresentazione che di lui (lei) ci si fa. Questo modo di comunicare lo chiamiamo comunicazione immaginaria. L’immaginario ha bisogno di essere educato al contatto con la realtà per imparare a perdere l’indistinzione della totalità, per prendere la misura dei limiti, degli scarti, delle differenze e dei differimenti che organizzano il  mondo. Il simbolico per contro, è il mondo della relazione differenziata, del desiderio che ha accettato di uscire dalle sue funzioni lusinghiere e che riceve il riconoscimento di sé dall’altro, al quale lo restituisce” [49].

 

b) Bisogna cercare di evitare la confusione tra la tradizione vivente da una parte, ossia la reiscrizione sempre nuova del messaggio in ogni epoca della storia, richiesta dalla storicità del Verbo stesso fatto carne e dall’altro la ripetizione stereotipata e selettiva di un medesimo momento storico.

Gesù diceva che lo Spirito Santo ci farà camminare sulla strada della verità nella sua interezza. La storia, infatti, non è finita e tocca a noi orientarla lasciandoci guidare dallo Spirito.

Nella storia, Tamar non è stata certamente l’unica a resistere in nome della vita. Vi sono molte donne che ancora oggi lo fanno, protestando al alta voce, altre che talvolta sono le stesse, prendendo semplicemente gli incarichi che una donna può prendere ed arricchendoli di conseguenza. Dimostrano così in pratica, l’apporto indispensabile della differenza femminile.

Bisogna sentirsi parte di una comunità in cui ciascuno è chiamato a collaborare insieme agli altri per disegnare alcuni tratti della chiesa di domani, vale a dire una comunità in cui ciascuno e ciascuna assume questo o quel servizio secondo i doni ricevuti ed in cui non ci sono ruoli riservati agli uomini o alle donne, ai preti o ai laici. Una comunità in cui cerchiamo di realizzare il desiderio di Gesù di una comunità di discepoli uguali e differenti, seguendo la sua parola: siate tutti fratelli e sorelle.

c) E’ necessario creare una società in cui la donna possa accedere alle stesse responsabilità dell’uomo. Per quanto il regime democratico si tratta soprattutto di un progetto che è collocato, molto spesso, nei testi legislativi, ma che, molto meno spesso, viene poi applicato. La situazione è molto diversa da paese a paese. E’ un fatto abbastanza curioso per esempio che nell’India, paese altamente tradizionale, una donna può esercitare l’autorità politica suprema senza che ciò costituisca un problema, mentre negli stati Uniti, nella Francia o l’Italia, per esempio, tutti paesi occidentali, non hanno mai visto una donna alla testa dello stato.

Ma, indipendentemente dalla situazione di fatto, oggi l’uguaglianza dei diritti fra l’uomo e la donna è recepita solennemente dalla dichiarazione universale dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite  e la troviamo, più o meno chiaramente, nella maggioranza delle legislazioni moderne. Così, ad esempio, nello stesso tempo in cui la nozione di “potestà paterna” del codice napoleonico si trasformava in  “autorità dei genitori” si poteva constastare – nella legislazione francese – la scomparsa della nozione di “autorità maritale”.

I fatti stanno a dimostrare che il numero di professioni e di responsabilità riservate solamente agli uomini diminuisce ogni anno di più: “ ma viene l’ora, l’ora è venuta, in cui la vocazione della donna si svolge con pienezza, l’ora nella quale la donna acquista nella società un ‘influenza, un irradiamento, un potere finora mai raggiunto” ( Messaggio del Concilio, 8 dicembre 1965; EV I, 502). Tutti questi aspetti del mondo contemporaneo pongono degli problemi alla Chiesa ed alla sua concezione dei ministeri.

 

10- Per risolvere questi problemi bisognerebbe anzitutto annullare il fossato che separa :

- il popolo di Dio dai suoi ministri. Questa separazione aveva raggiunto nel sec. XIX e successivamente nel sec. XX, proporzioni inquietanti. Il clero formava un mondo a se stante, con la sua divisa, le sue abitudini, il suo linguaggio. I cristiani avevano la sensazione sempre più netta di non essere “di chiesa”. Coloro che non avevano una cultura classica si sentivano sempre più estranei ad una chiesa che non parlava la loro lingua.

- la chiesa ( il clero) dal mondo moderno, soprattutto dal mondo operaio. Questo atteggiamento suscitò diversi movimenti allo scopo di reinserire i preti nella vita del mondo moderno: l’apparizione dei preti-operai fu certamente il fatto più spettacolare, che non ci deve però far dimenticare gli sforzi, nella stessa direzione, per il rinnovamento di una liturgia che si esprimesse nella lingua di tutti.

Il fenomeno della “declericalizzazione”, cioè della fine della costituzione da parte del clero di un mondo separato,  è stato discusso a livello teorico e non è certamente compiuto sul piano concreto. Dal punto di vista sociologico è un fatto incontestabile e rappresenta un fatto importante della vita della chiesa cattolica in Europa occidentale.

Il movimento ecumenico che cerca di ristabilire l’unità fra tutti i cristiani, “esorta tutti i fedeli cattolici perché riconoscendo i segni dei tempi, partecipino con slancio all’opera ecumenica”( Decreto sull’Ecumenismo, 4).

Ora uno dei punti principali di divergenza fra le diverse chiese, specialmente fra la chiesa cattolica e la chiesa della Riforma, è quello del riconoscimento dei ministeri (Decreto sull’Ecumenismo, 22). In questo modo dalla fine del Concilio, si è instaurato a livello pastorale, un clima più fraterno di collaborazione fra i ministri delle diverse chiese, mentre i teologi cercano di comprendersi meglio e di sottoporre le loro  divergenze alla luce di una rinnovata riflessione teologica.

Fra i risultati di questo dialogo ecumenico sui ministeri, citiamo “ La Dichiarazione comune sulla dottrina del ministero, elaborata dalla Commissione internazionale anglicana-cattolica romana, Canterbury 1973 ed il Documento del gruppo di Dombes, dal titolo “ Per una riconciliazione dei ministeri. Elementi di convergenza fra cattolici e protestanti” (1973).

La dichiarazione anglicana cattolica insiste soprattutto sul fatto che “un accordo sulla natura del ministero deve precedere ogni esame per il riconoscimento reciproco dei ministeri” ( n. 17), mentre il gruppo di Dombes sottolinea l’importanza capitale di questo problema nel dialogo ecumenico: “poiché il problema dei ministeri costituisce il maggior ostacolo all’unità, bisognerebbe portare il dialogo ecclesiale su questo punto con precedenza sugli altri ( n. 38).

Inoltre bisogna ritornare alle fonti per riscoprire il fondamento della fede cristiana contenuta nella scrittura e nei testi delle tradizione. Solamente un tale confronto permette di fare una scelta fra l’essenziale e l’accessorio nella formulazione della fede cristiana, fra ciò che è parola di Dio e quanto è solo tradizione degli uomini ( cfr. Mc 7, 8-9), fra il messaggio cristiano e la sua formulazione di una determinata epoca o di una determinata circostanza.

In questo approfondimento e discernimento la sacra Scrittura svolge un ruolo di primaria importanza. Se la chiesa fin dai primi secoli, ha riconosciuto i testi biblici come “canonici” è perché riservava a tali testi ispirati un valore permanente per la propria vita. Ecco perché invita i cristiani ad ascoltare ogni domenica questi testi fondamentali che illuminano la loro vita e perché lo studio della sacra scrittura deve essere l’anima della sacra teologia ( Costituzione Dei Verbum, n. 24).

Ritorno alle fonti con l’apporto del rinnovamento biblico: delle buone traduzioni ed il progresso dell’esegesi dei testi, permettono oggi una comprensione migliore della “parola di Dio”.

 

Giuseppe.



[1] Presbitero-sposato nel 1968, con Rescritto di dispensa. Dottore in Teologia Dogmatica all’Università Pontificia dell’Angelicum in Roma; specializzato in Teologia Morale all’Università Lateranense – Accademia Alfonsiana di teologia Morale; Diplomato in Psychitric Nursing presso la Mental Heath Division di Toronto. Ha lavorato per quattro anni in Canada, presso la struttura Ospedaliera psichiatrica di Hamilton (Ontario), occupandosi di persone anziane con problemi psichiatrici e di giovani e adolescenti con problemi di droga. Ritornato in Italia nel 1971 si è specializzato in Scienze psico Pedagogiche presso l’Università di Magistero dell’Aquila, collaborando per 33 anni con l’Istituto Medico Psico Pedagogico “Piccola Opera Charitas” – al recupero psichico- sociale e lavorativo delle persone meno dotate. Ora, da nonno in pensione scrive libri su temi di attualità, di teologia, di psicologia, di storia delle religioni : Onora il padre e la madre- l’arte di invecchiare; Manuale per conoscere l’Islam; Manuale per conoscere l’Ebraismo.

Fa parte del movimento “Vocatio” per realizzare con la testimonianza della vita evangelicamente vissuta e la parola scritta, assieme ad altri presbiteri-sposati , un cammino di rinnovamento nel Popolo di Dio, proponendo una nuova immagine di prete, che rispondendo alla chiamata di Dio alla vita matrimoniale, cerca di realizzare la sua vocazione di uomo  e di cristiano, appagando il bisogno di amore che sente quale dono di Dio all’umanità, senza diminuire, nello stesso tempo, il suo impegno presbiterale e ministeriale a servizio della comunità perché “accogliere nella propria vita presbiterale la presenza della donna che ama con la quale condividere – nel matrimonio - gli ideali di vita  ispirata al Vangelo di Cristo, non è assolutamente in contrasto con il servizio-presbiterale alla comunità, né di impedimento. Inoltre, attraverso il Movimento “Vocatio”- e nel dialogo rispettoso e fraterno con l’autorità ecclesiastica - si propone di “rompere” quel muro di silenzio, di indifferenza e di emarginazione che esiste nel contesto ecclesiale nei confronti dei presbiteri-sposati, affinché la loro dignità di uomini, di cristiani e di presbiteri non venga mai calpestata, ma siano aiutati ad inserirsi nella società – assieme alla loro famiglia -  con dignità, e - per coloro che si dichiarassero disponibili – venisse data l’opportunità di mettere i doni  ricevuti dallo Spirito Santo, nuovamente al servizio della comunità, in un rinnovato esercizio del ministero presbiterale-uxorato. A tale scopo ha scritto il libro “Uomini senza collare –Sacerdoti senza ministero- Edito dalla Casa Editrice EDUP, Via del Corso 101 – 00186 Roma.

Il suo indirizzo di e-mail è nadirgiuseppe@interfree.it

[2] Il velo sul capo della donna era un segno convenzionale del suo ruolo sociale. Nell’ambiente greco-romano, solo le schiave e le donne di facili costumi andavano a capo scoperto.

[3] Il termine “profetizzare” si riferisce ad un discorso edificante sotto l’ispirazione dello Spirito ( cfr. 1Cor 14,3).

[4] Il termine diakonos, in quel tempo, non aveva ancora il significato tecnico che la parola “diacono” ha oggi.

[5] Gianfranco Ravasi, nella presentazione del libro di ERHARD S. GERSTENBERGER – WOLFGANG SCHRAGE, Il rapporto tra i sessi nella Bibbia e oggi, Ed, Paoline, Roma 1984.

[6] AAS 55 (1963) pp. 267-268.

[7] AAS 58 (1966) pp. 1048-1049.

[8] Cfr. Paolo VI, Allocuzione ai membri della « Commissione di studio sulla funzione della donna nella società e nella chiesa » e ai membri del « Comitato per l’anno internazionale della donna », 18 aprile 1975 : AAS 67 (1975), p. 265.

[9] Cfr. Concilio Vaticano II, Decreto Apostolicam Actuositatem, 18 novembre 1965, n. 9: AAS 58 (1966), p. 846.

[10] Cfr. S. Ireneo, Adversus haereses I, 13, 2 :PG 7, 580-581 ; ed Harvey, I, 114-122 ; Tertulliano, De praescript. Haeretic. 41,5: CCL 1, p. 221; Firmiliano di Cesarea, in S. Cipriano, Epistulae, 75: CSEL 3, pp.817-818; Origene, Fragmenta in 1Cor 74, in Journal of theological studies 10 ( 1909), pp. 41-42; S. Epifanio, Panarion 49, 2-3; 78, 23; 79, 2-4: t.2, GCS 31, pp. 242-244; t.3, GCS 37, pp. 473, 477-479.

[11] Cfr. Didascalia Apostolorum, c. 15, ed. R.H. Connolly, pp. 133 e 142; Constitutiones Apostolicae, lib. 3, c. 6, nn. 1-2; c.9, nn. 3-4; ed F. X., Funk, pp. 191, 202; S. Giovanni Crisostomo, De sacerdotio 2,2: PG 48, 633.

[12] Cfr. S. Bonaventura, In IV sent., Dist. 25, art. 2, q. 1 : ed. Quaracchi, t. 4, p. 649 ; Riccardo da Middletown, In IV sent., Dist. 25, art. 4, n. 1, ed. Venezia, 1499, f. 177 r; Giovanni Duns Scoto, In IV sent., Dist. 25: Opus Oxoniense, ed. Vivès, t. 19, p. 140; Reportata parisiensia t. 24, pp. 369-371; Durando di Saint-Pourcain, In IV sent., Dist. 25, q. 2, ed. Venezia, 1571, f. 364v.

[13]Si è cercato di spiegare questo adducendo l’intenzione simbolica di Gesù il quale scelse i Dodici apostoli che dovevano rappresentare i capostipiti delle dodici tribù d’Israele ( cfr. Mt 19,28; Lc 22,30). Ma non si tratta in questi testi che della loro partecipazione al giudizio escatologico. Il senso essenziale della scelta dei dodici è da cercare, piuttosto, nella totalità della loro missione ( cfr. Mc 3,14): essi devono rappresentare Gesù presso il popolo e continuare la sua opera.

[14] Innocenzo III, Epist. ( 11 dicembre 1210) ai vescovi di Palencia e Burgos, inserita nel Corpus Iuris, Decret., lib. 5, tit. 38, De Paenit., c. 10 Nova: ed. A. Friedberg, t. 2, col. 886-887; cf. Glossa in Decretal. Lib. 1, tit. 33, c. 12 Dilecta, V. Iurisdictioni; cfr. S. Tommaso, Summa theolog., pars III, q. 27, a. 25 ad 3; Pseudo-Alberto Magno, Mariale, quaest., ed. Borgnet 37, 81.

[15] Pio XII, Costituzione Apostolica Sacramentum Ordinis, 30 novembre 1947 : AAS 40 (1948), pp 5-7 ; Paolo VI, Costituzione Apostolica Divinae Consortium Naturae, 15 agosto 1971: AAS 63 ( 1971), pp. 657-664; Costituzione Apostolica  Sacram unctionem, 30 novembre 1972:AAS 65 (1973), pp. 5-9.

[16] Cfr. Sessione 21, cap. 2 : Denzinger-Schonmetzer, Enchiridion symbolorum..., n. 1728.

[17]Cfr S. Cipriano, Epist. 63,14 : PL 4, 397 B ; ed. Hartel, t. 3, p. 713.

[18] Cfr. Concilio Ecumenico Vaticano II, Costituzione Sacrosanctum concilium, 4 dicembre 1963, n. 33 “… dal sacerdote che presiede l’assemblea nella persona di Cristo…”; Costituzione Dogmatica Lumen Gentium, 21 novembre 1964, n. 10 : “ Il sacerdote ministeriale, con la potestà sacra di cui è investito, forma e regge il popolo presbiterale, compie il sacrificio eucaristico in persona di Cristo e lo offre a Dio a nome di tutto il popolo…”; n. 28 : “ in virtù del sacramento dell’ordine, ad immagine di Cristo, sommo ed eterno sacerdote… esercitano soprattutto il loro sacro ministero nel culto eucaristico o sinassi, in cui agendo in persona di Cristo…”;  Decreto Presbyterorum Ordinis, 7 dicembre 1965, n. 2 : “I presbiteri, in virtù dell’unzione dello Spirito santo, sono segnati da uno speciale carattere ed in tal modo sono configurati a Cristo sacerdote, sicché sono in grado di agire in persona di Cristo capo”; n. 13 : “ Nella loro qualità di ministri delle cose sacre, e soprattutto nel sacrificio della Messa, i presbiteri agiscono in modo speciale in persona di cristo…”; Sinodo dei vescovi del 1971, De sacerdotio ministeriali I, n. 4; S. Congregazione per la Dottrina della Fede, Declaratio circa catholicam doctrinam de ecclesia, 24 giugno 1973, n. 6.

[19] Cfr. S. Tommaso, Summa Teologica, pars III, quaest. 83, art. 1, ad 3um: “Bisogna dire che (come la celebrazione di questo sacramento è immagine rappresentativa della Croce di lui: ibid. ad 2um) così per la stessa ragione il sacerdote reca in sé l’immagine di Cristo, in persona ed in virtù del quale egli pronuncia le parole per consacrare”.

[20] « Dal momento che il sacramento è un segno nelle operazioni che per lo stesso segno si compiono si richiede non solo la « res », ma anche la significazione della “res”, ricorda S. Tommaso D’Aquino, precisamente per respingere l’ordinazione delle donne; In IV sent., dist. 25, q. 2, art. 1, quaestiuncula 1, corp.

[21] Cfr. S. Tommaso, In IV sent.,dist. 25, q.art. 2, quaestiuncula 1, ad 4um.

[22] Cfr. Concilio tridentino, Sess. 22, cap. 1: DS 1741.

[23]Cfr. Conc. Ecum. Vaticano II, Costituzione dogmatica, Lumen Gentium, n. 28 :” Esercitando, secondo la loro parte…, l’ufficio di Cristo, pastore e capo”; Decreto, Presbyterorum Ordinis, n. 2: “ in modo da poter agire in persona di Cristo capo…”; n. 6 : “ La funzione di Cristo capo e pastore”; Cfr. Pio XII, enciclica Mediator Dei : “ il ministro dell’altare impersona Cristo in quanto capo che offre a nome di tutte le sue membra”: AAS 39 (1974), p. 556; Sinodo dei Vescovi 1971, De Sacerdotio Ministeriali, I, n. 4 : “ rende presente Cristo, capo della comunità…”.

[24] Cfr. Paolo VI, encicl. Mysterium fidei, 3 settembre 1965 : AAS 57 ( 1965), p. 716.

[25] Cfr. Dichiarazione della Congregazione per la Dottrina della Fede, 15 ottobre 1976, (prefetto card. Franjo Seper).

[26]Dorothée Bauschke ha tenutoil 02/02/1998 al corso di formazione permanente organizzato dall’ Institut catholique de hautes études commerciales (ICHEC) di Bruxelles, servendosi anche della collaborazione, attraverso contatti personali, di Luisa Muraro del dipartimento di filosofia dell’Università di Verona e di  Bernard Van Meenen, professore di esegesi al CETEP e alla facoltà St Louis di Bruxelles.

[27] Cfr. “Bulettin International Femme set Hommes en Église”, n. 63 (october 1995), pp 3-6.

[28] Cfr. Elisabeth Green, La réflexion sur la différence sexuelle et la théologie. Le débat italien, in Concilium 263                      ( 1/1996) p. 169.

[29] Cfr. Liliale Voyé, Femmes set Église Catholique. Une histoire de contradictions et d’ambiguïtés, in « Archives de Sciences sociales des Religions », n.95, 1996, pp 11-28.

[30] Infatti il nuovo Codice di Diritto Canonico usa le stesse parole sopra riportate per definire non tanto il " laico", ma i "christifideles"; cfr.  can. 204-§1; cfr. LG (21 nov. 1964), nn. 9,17,31,34,36.

[31] Cfr. LG,31.

[32] Cfr. LG, n. 33.

[33] Cfr. Gaudium et Spes, n. 44.

[34] Gv 3,16.

[35] Cfr. GS, 40-45.

[36] Cfr. Decreto Ad Gentes 21,1.

[37] Cfr. can. 230 § 1, §2, §3.

[38] Cfr. Nadir Giuseppe Perin, Uomini senza collare –Sacerdoti senza ministero – Ed. EDUP, Roma 2005, pp.59-72.

[39] Cfr. Claude Bovay, Religione t reproduction de l’asymetrie, in « Archives de Sciences sociales des Religions », n.95, 1996, pp. 143-161.

[40] Cfr. Christine Delphy, Comment en finir avec l’exclusion des femmes, in “Le monde diplomatique”, Mars 1997, p. 6.

[41] Cfr. “Bulletin International Femme set Hommes en Église”, n. 63 ( octobre 1995)

[42] Cfr Francoise Picq, Un homme sur deux est une femme.Les féministes entre égalité et parité (1970-1996), in “Le Temps Moderns” n. 593 (avril-mai 1997) p. 227.

[43] Cfr- Les pièces secrètes de l’Europe, in “ Annuaire de l’Association Européenne des femmes pour la ricerche théologique”, vol 4, Kampen-Mainz 1996, p. 133.

[44] Cfr. La femme, le clerc et le laïc, in “Oecuménisme et ministère”, Labor et Fides, Lyon 1989, p. 66.

[45] Cfr. Evelyne Peyre e Joelle Wiëls, Le sexe biologique et sa relation au sexe social,in “Les Temps Modernes” 593 (avril-mai 1997), pp. 14-48.

[46] Cfr. Donne fino a Dio, in “ Il manifesto” 30 giugno 1989.

[47] Cfr. Donna Singles, La différence, destin ou projet?, in «  Lumière et Vie » 194 ( 1989), p. 70.

[48] Cfr. Liliale Voyé, Femmes et Elise Catholique, In Concilium 263 ( 1/1996).

[49] Cfr. Antoine Delzant, La communication de Dieu, Cerf, Paris 1986



Giovedì, 20 aprile 2006