Mons. E. Milingo : “ L’apostolo dei preti sposati”?
Riflessioni di un prete sposato
di p. Nadir Giuseppe Perin
Mons. Emmanuel Milingo da Washington, dove si è rifugiato dopo la sua fuga da Zagarolo, eludendo la sorveglianza di mons. Ennio Appignanesi che per due anni lo “aveva marcato stretto”, ha dichiarato di voler diventare “l’apostolo dei preti sposati”. Ha invitato i sacerdoti sposati di tutto il mondo ad unirsi alla sua nuova associazione per preti sposati “ Married priests now”, sostenuto in questo, dalla setta del reverendo Moon che ha scelto come suo nuovo terreno di azione, proprio quello dei “preti sposati”; dalla Congregazione dei cattolici Afroamericani (African American Catholic Congregation); dall’arcivescovo Patrick Trujillo, della “Old Catholic Church in America e da uno dei tanti preti sposati italiani don Giuseppe Serrone. Ben conoscendo le condizioni di sofferenza a cui vanno incontro i preti quando decidono di sposarsi, l’appello del reverendo Moon e di Mons Milingo ed associati, rivolto ai preti sposati di tutto il mondo è molto chiaro : “ Contattateci, forniremo supporto ed aiuti finanziari a voi e alle vostre famiglie”. Di fronte ad una chiesa gerarchica responsabile del ministero per la comunità ecclesiale che, in tutti i modi cerca di fare “terra bruciata” intorno al prete che chiede di “ lasciare il ministero” per “mettere su famiglia”, togliendogli ogni possibilità di impiego e di collaborazione nell’ambito della struttura ecclesiale, trattandolo come un “don nessuno”, un emarginato ed un “barbone”, costretto a mantenere se stesso e la sua famiglia chiedendo l’elemosina alla gente, mi sembra doveroso farsi delle domande alle quali dare delle risposte. Come dovrebbe comportarsi un prete sposato in difficoltà di fronte a questo appello che il reverendo Moon, assieme a Mons Milingo ed associati gli fanno : di contattarli per avere supporti ed aiuti finanziari per se e la sua famiglia ? E’ vero che il prete non si sposa per migliorare le sue condizioni economiche, ma è anche vero che ognuno di noi ha bisogno di quel minimo economico per vivere in maniera dignitosa .Tuttavia, le motivazioni in base alle quale un vescovo o un prete decide di “lasciare il suo ministero per sposarsi”, pur diversificandosi tra di loro, certamente non sono le stesse di Mons. Milingo. Anzitutto, Maria Sung che lui ha “sposato” non è la donna da lui conosciuta durante il suo ministero pastorale e di cui si è innamorato; con lei non ha avuto alcun modo di dialogare sulla possibilità o meno di realizzare insieme una progettualità di vita matrimoniale, conforme al Vangelo e come risposta ad una chiamata dello Spirito. Inoltre, Maria Sung avrebbe potuto chiamarsi con mille nomi diversi, dal momento che non è stata scelta da Mons Milingo come sua sposa, ma gli è stata assegnata dalla setta del rev. Moon che poi l’ha sposato assieme ad altre coppie con una mega cerimonia sponsale. Infine, analizzando il comportamento di Mons. Milingo, come descritto dai quotidiani, io ho avuto l’impressione di una persona che voleva “fuggire” da qualcosa o da qualcuno… più che di una persona desiderosa di rispondere alla chiamata dello Spirito per condividere, nel matrimonio, la propria vita con la donna che ama. La sua mi è sembrata una risposta improvvisata ed opportunista più che una risposta maturata, nel tempo e sostenuta da motivazioni ( guadagni ? Sicurezza economica ?...) poco chiare e trasparenti per poter costituire un esempio da seguire. Pertanto, fatte queste premesse, come prete sposato, non posso riconoscere in Mons. Milingo, un “apostolo dei preti sposati”, né un esempio da imitare perché le sue scelte poggiano su delle motivazioni che non sono le mie, sia per il modo in cui ha scelto la propria compagna di vita, e sia per l’atteggiamento tenuto nei confronti di coloro che nella chiesa hanno la potestà e la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale. “Il lasciare il ministero per sposarsi” – a mio modesto avviso - non deve mai essere rappresentato come uno spot pubblicitario, per vendere al mercato delle vacche il prodotto pubblicizzato, perché renderebbe ridicola una scelta che tutti i preti sposati hanno fatto con riflessione e responsabilità e non senza una profonda sofferenza interiore, evitando, per quanto è possibile di essere di scandalo alla parte più debole del popolo di Dio, che non sa distinguere tra il contenuto della rivelazione o le disposizioni transitorie del Diritto Canonico. La decisione di un prete che lascia per sposarsi dovrebbe essere, invece, un momento di riflessione per tutta la comunità, un’occasione per poter maturare una mentalità più aperta ed accogliente di fronte ad un modo diverso di esercitare il ministero, in conformità non solo al Diritto Canonico, ma anche e soprattutto alla Parola di Dio. Chi delinea la situazione modello del prete sposato è l’apostolo Paolo e non mons. Melingo. Per realizzarla – dice Paolo - occorre che il “pastore (vescovo, presbitero, diacono) sia irreprensibile, marito di una sola donna; sobrio, prudente, decoroso, ospitale, pacifico e disinteressato; che sappia dirigere bene la sua casa, tenere i suoi figlioli sottomessi con perfetta dignità; perché se uno non sa dirigere bene la propria famiglia come potrà avere cura della chiesa di Dio” (1Tm 3, 2-5). E’ l’invito che troviamo nella Domenica XV del Tempo Ordinario (B) “accogliete la parola di Dio non come parola di uomini, ma qual è veramente : parola di Dio”. Parola degli uomini è il Diritto Canonico; parola di Dio è la Sacra Scrittura, il Vangelo. Mentre nel caso Milingo la donna assume il ruolo di “rimedio della concupiscenza del maschio”, tanto è vero che può essere una donna qualunque, anche quella che non conosci e non ami, importante che sia “femmina”, per poter soddisfare le voglie del “maschio”, nella situazione, invece, descritta da Paolo nella lettera a Timoteo, la donna è la “donna biblica, compagna dell’uomo”, perché la sua presenza accanto al prete, non viene mortificata, né mistificata o resa marginale, né subordinata, ma acquista incisività, dolcezza e forza proprio nella condivisione con l’uomo di un progetto di vita da realizzare insieme, con amore. Inoltre, l’abbandono del ministero, non deve essere giudicato alla stregua di una disonorevole defezione, di una caduta morale o di un fallimento spirituale, contro il quale, per rendere la decisione ancora più difficile, la chiesa giuridica quasi sempre si “accanisce” senza pietà e misericordia, fino a ledere in maniera grave la giustizia ( non versando i contributi per il lavoro svolto negli anni del ministero pastorale) e il comandamento dell’amore che Gesù ci ha lasciato : “amatevi gli uni e gli altri, come io ho amato voi” . Oggi, ancora troppi chierici e laici considerano “l’abbandono del ministero” come una disonorevole defezione, una caduta morale, un fallimento spirituale della persona che lascia, perché sono disinformati e nei loro giudizi si lasciano guidare da una immotivata prevenzione. Se, invece, si conoscessero tutti i termini del problema e se ne analizzassero compiutamente gli aspetti teologici, psicologici, sociali si arriverebbe a delle valutazioni molto diverse, riconoscendo da un lato come legittime quelle esigenze naturali che inducono alla comunione coniugale e responsabilizzando, dall’altro, la legislazione canonica che ha modificato, senza apprezzabili ragioni, una millenaria tradizione apostolica, imponendo vincoli teologicamente non necessari, confondendo ambiguamente valori comportamentali che andavano nettamente distinti ( celibato obbligatorio per i monaci, facoltativo per i preti) emanando norme prive oltretutto di valore universale, dal momento che ne sono esclusi dall’osservanza delle stesse i preti della chiesa cattolica orientale che possono liberamente sposarsi. Che cosa chiediamo noi preti sposati a coloro che hanno la potestà e la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale ? - che la possibilità o la necessità di modificare la norma del diritto canonico che rende obbligatorio il celibato per chi è chiamato ad esercitare il ministero presbiterale, non sia il risultato di pressioni o di ricatti, quanto piuttosto il frutto per aver capito ed accolto le ragioni, nella netta distinzione tra vocazione al presbiterato e vocazione al monachesimo, ben consapevoli che il celibato del monaco è diverso da quello del presbitero. Si può essere chiamati all’uno senza essere chiamati all’altro. Il celibato, infatti, è una vocazione specifica del monaco e non del presbitero in quanto ministro della chiesa. Il ministero presbiterale è una funzione, più che uno stato di vita, per cui non dovrebbe essere il presbiterato ad essere sacrificato al celibato, quanto piuttosto il celibato al presbiterato. Il teologo Bernard Häring, che ho avuto come professore di morale all’Università Lateranense- Accademia Alfonsiana di Teologia morale - riferendosi all’introduzione del celibato obbligatorio, mediante una legge ecclesiastica, faceva notare che se coloro che hanno la potestà e la responsabilità del ministero per la comunità ecclesiale, in un momento storico particolare hanno introdotto in piena libertà la legge del celibato, e quindi, senza venire meno alla fedeltà a Cristo, hanno abolito una tradizione che risaliva al tempo degli apostoli, non vedo perché, in questo nostro momento storico particolare, non possano venire meno ad una tradizione posteriore per tornare a quella apostolica o dei primi secoli. Oggi, di fronte alla carenza di vocazioni al ministero presbiterale, mi sembra che tale cambiamento della norma di diritto, oltre ad essere pastoralmente indicato sia, forse, anche obbligatorio” . Hans Küng riteneva che non ci sarà pace nella chiesa cattolica fin quando il celibato non sarà rimesso alla libera decisione individuale, così come era in origine e fin tanto che la relativa legge canonica, introdotta in circostanze molto dubbie, non sarà stata annullata. Il teologo Diaz Alegria S.J. già docente all’Università Gregoriana, scriveva che “quando non si possiede la castità come un dono divino, il celibato obbligatorio diventa una fabbrica di matti. Questo perché i carismi (e il celibato è un carisma) li dà solo lo Spirito Santo e non li dà su ordinazione; le leggi, le sanzioni, le esortazioni, in questo campo non possono nulla”. 2- Per capire ed accogliere le ragioni portate dai teologi, dal popolo di Dio e da una parte, anche, della gerarchia ecclesiastica, ad una modifica della legge canonica del celibato obbligatorio, senza cedere alle pressioni, è necessario che nella comunità dei credenti avvenga un mutamento di mentalità (metanoia). E’ necessario, cioè che il messaggio portato da Cristo, sia messo dentro a delle botti nuove, cioè accolto con una nuova mentalità, convinti cheGesù non è venuto ad insegnarci una religione, ma a farci conoscere il vero volto di Dio, come si canta nella XV domenica del tempo ordinario (B) : “ Mostraci o Dio, il volto del tuo amore”. E chi può mostrarci e farci conoscere il vero volto di Dio è soltanto Gesù. Però tutti siamo chiamati a collaborare per la trasformazione del rapporto presbitero/società che deve essere svincolato dalle vecchie categorie ecclesiastiche e dalla vecchia casistica, passando da una organizzazione di tipo sacrale ad un’altra di tipo missionario. Gesù aveva scelto i 12 apostoli e i discepoli non perché si chiudessero dentro i recinti del sacro e del tempio, come nell’Antico Testamento, ma per andare incontro ad ogni uomo, prendendosi cura di lui, come ha fatto il buon samaritano nei confronti dell’ebreo caduto in mano ai briganti. Nell’antico Testamento il rapporto tra Dio-Padrone, al quale si doveva obbedienza assoluta e l’uomo-servo, era determinato dalla Legge che bisognava osservare ad ogni costo e mediato dai sacerdoti ( = gli uomini deputati al sacro e perciò separati da tutti ciò che era considerato profano ed impuro). Ai sacerdoti l’uomo doveva rivolgersi per essere purificato dalle sue impurità; per questo l’uomo doveva privarsi di qualcosa di suo per offrirlo a Dio e meritarsi così il suo amore. Finché l’uomo, dunque, non sarà aiutato a scoprire che Dio è Padre e che nei confronti dei figli nutre solamente un amore immenso che desidera ardentemente donare a tutti, gratuitamente, sarà sempre difficile che l’uomo-cristiano si “senta parte” di una comunità ecclesiale, alla stessa maniera in cui si sente parte della famiglia nella quale è nato. In un contesto religioso dove c’ è la supremazia della legge sull’amore, l’essere cristiani, come l’ “essere prete” sarà sempre qualcosa di individuale e di marginale rispetto alla realtà in cui si vive. Sarà difficile capire quale sia il vero volto di questa comunità d’amore, chiamata Chiesa, nella quale siamo entrati con il battesimo, ma nella quale, molto spesso, non riusciamo a trovare posto come figli di un Padre che ci ama, né come fratelli con i quali condividere e compartecipare responsabilmente alla esigenze della vita. Infatti, molti fanno fatica a pensare alla chiesa come ad una comunità di amore, dopo che questa koinonia (comunione) è stata divisa dal diritto canonico in “chierici” e “laici”. Ancora troppa è la differenza e la distanza che si nota tra i “chierici” ai quali è riservato l’esercizio della “paternità spirituale”, dell’autorità e della parola… ed i “laici” che si trovano ad essere una sudditanza silenziosa ed obbediente, la cui vita viene scandita più da una legge da osservare che dall’amore da testimoniare. Assieme agli 8.000 preti sposati d’Italia, che si sentono ancora parte viva della comunità ecclesiale e, nello stesso tempo, parte di una società in continuo cambiamento – come prete sposato mi domando spesso quale sia il mio posto all’interno della chiesa che amo e come posso essere per l’uomo di oggi un testimone credibile di Cristo risorto, speranza per il mondo? Quali sono le forme e le modalità che possono caratterizzare la presenza del prete-sposato in questo momento storico ? Quelle contestatarie o altre ? Come può il prete sposato affrontare con spirito evangelico le sfide del tempo, tenendo conto della diversità di situazioni che la comunità cristiana e le famiglie devono affrontare: una società secolarizzata; il pluralismo culturale (società multiculturale); la presenza di fedeli di altre religioni (società multireligiosa); la pressione di vasti settori del mondo laico per relegare la fede nello spazio delle questioni private; il tentativo di schiacciare i cattolici nell’ambito del volontariato; di fare della chiesa un soggetto di culto, senza rilevanza pubblica; il mettere in discussione il diritto dei cristiani a testimoniare la loro visione della vita e ad esprimersi sulle questioni connesse alla società e al suo progetto; il cedere alle lusinghe della religione civile, accettando che siano i “laici devoti” a difendere le ragioni del cristianesimo nel mondo; la stanchezza di un modello pastorale che è cresciuto nella pretesa di organizzare e programmare tutto e nella tendenza di pensare per categorie e settori, dando per scontato che essi interpretino le domande delle persone e le dinamiche dell’esistenza; la fragilità della fede; la stanchezza interiore delle persone; la scarsità dei presbiteri; la richiesta di attuare delle forme nuove di ministero che soddisfino le esigenze delle varie comunità cristiane. Io che ho scelto di “essere prete” per chiamata e nello stesso tempo “prete sposato” non ho mai messo le mie mani nel costato di Gesù, come fu invitato a fare, invece, S. Tommaso, né ho avuto alcuna esperienza visiva di Gesù storico, come l’hanno avuta gli Apostoli, due mila anni fa. Però, attraverso gli scritti del Nuovo Testamento, ho conosciuto il Gesù della fede, come ci è stato tramandato dalle prime comunità cristiane. In questo uomo, Gesù Cristo, morto sulla croce e risorto, io credo e penso di essermi innamorato di Lui. Lo conosco come una persona che ha guarito gli ammalati, ha ridato la vista ai ciechi, ha perdonato i peccati, ha promesso la felicità ai perseguitati ed agli oppressi, ha annunciato il Regno di Dio. Tutte le speranze degli uomini hanno preso corpo in Lui: il Messia dei poveri (Lc 4,18 ss), il Figlio stesso di Dio (Mt 16,16). La sua risurrezione è sopravvenuta come il sigillo di Dio al suo messaggio ed alla sua persona…e quanti l’hanno accolto ed hanno ricevuto il suo Spirito, sono stati trasformati. Queste notizie sono state trasmesse da persona a persona e di secolo in secolo… e tutte le chiese cristiane vivono tuttora della fede in Lui. Anche noi viviamo di quella fede, perché lo Spirito ce ne ha fatto dono. Il nostro credo ci collega con tutti coloro che già lo hanno pronunciato prima di noi ed ancora oggi lo pronunciano; con coloro che hanno creduto nel vangelo e, ricevendo il battesimo, sono rinati a vita nuova. E’ Dio che ci ha fatto il dono di comprendere e, mediante Cristo, ci ha uniti nella fede e nella carità. E’ Dio che ci ha accolti nella sua Chiesa, assemblea del suo popolo, nella quale egli vive… In questa assemblea di carità e di amore io voglio continuare a vivere come prete sposato, facendo della mia vita un dono da offrire a chiunque incontro ; comunicando ai fratelli, non tanto una ideologia, né una filosofia, né una morale, ma solo l’amore per una persona, Gesù il Cristo, che è la ragione di vita per ogni credente. E’ Gesù, infatti, che, continuamente presente nel popolo di Dio, può trasformare, per mezzo del suo Spirito, la comunità dei credenti in una comunità “profetica”, alla quale Dio partecipa la potenza dell’annuncio. Per me, essere un prete-sposato nella comunità ecclesiale, è il mio nuovo modo di esistere al quale Dio mi ha chiamato, assieme agli altri fratelli nella fede per essere “comunità” in Cristo che mi invita quotidianamente a “mettermi in viaggio”; a diventare, in Lui, un “uomo nuovo” che guidato dalla fede, sostenuto dalla speranza e aperto alla libertà e all’amore, è capace di mettersi in discussione, in ogni momento; a vivere in Cristo da uomo libero, continuando a far parte di una comunità (= la Chiesa) che Cristo ha fondato sulla koinonia ( = la comunione) in cui regna la diversità nell’unità e l’unità nella diversità e che Dio ha costituito come suo Popolo eletto. Anche da “prete-sposato” mi sento un ”uomo nuovo”, nel senso del vangelo, perché la mia nuova condizione ecclesiale è ora caratterizzata da umile speranza, da una maggiore apertura alla libertà e all’amore e non tanto dall’attaccamento alle forme e alle leggi del Diritto. Questo mi aiuta a capire meglio il concetto di conversione permanente, che racchiude in se la ricerca continua, la situazione del viandante in cammino, sulla strada, proprio come i primi credenti che venivano chiamati “i seguaci della strada” (Atti 9,2), dal momento che nessuno di noi può dirsi un arrivato nella fede. Mi sento un uomo, un cristiano, un prete-sposato al quale ogni giorno viene offerta l’occasione di una crescita continua, perché ogni giorno mi trovo a rischiare la mia immagine di “figlio” nei confronti di Dio, mio “padre” ; perché ogni giorno devo essere disposto a mettermi in gioco, a mettermi in discussione, convinto che ogni progresso ed ogni cammino comporta un “sacrificare ciò che in noi è vecchio” per una libertà nuova. Chi non sa che l’avventura comporta del rischio? L’avventura dell’essere un prete sposato, comporta necessariamente il passaggio attraverso la croce e la sofferenza, nel senso di essere disposti a perdere la propria reputazione per seguire il Signore, per la conquista di una maggiore libertà di amare, senza la quale non sarebbe possibile una continua rinascita. In questa “avventura in Cristo” mi sono sempre lasciato guidare, non tanto dalla religione (che è un fissare lo sguardo unicamente su ciò che io devo fare per essere gradito a Dio e meritare così il suo amore)quanto dalla fede ( che è, invece, un fissare lo sguardo sul continuo, incessante, generoso e fedele amore che Dio ha nei miei confronti, senza alcun merito da parte mia e che non chiede altro che di essere accolto e donato facendomi, con Dio e come Dio, prossimo a tutti ). Senza la fede la mia vita di prete sposato sarebbe stata soltanto una ricerca di certezze, di sicurezza, della mia salvaguardia, mentre per vivere e crescere in Cristo il prete sposato non deve mettere in salvo se stesso e le sue cose, ma soltanto mettersi in cammino verso quel Qualcuno che supera ogni schema e che solo nella fede può conoscere, perché la fede è libertà che strappa l’uomo al vecchio mondo e, nello stesso tempo, lo rende presente, con Dio e come Dio, per gli uomini, nella storia terrestre. Noi viviamo in un’epoca di crisi, di ripensamento. Accanto a mutamenti sociali e culturali, che hanno profondamente inciso sulla evoluzione dei costumi – noi preti sposati, ma non solo noi - abbiamo assistito ed assistiamo ad un succedersi di nuovi e vari modi di essere e di pretendersi chiesa che hanno talora, con il loro impatto, sconcertato la gente. Ma la crisi che ci ha scosso, ci ha fatto anche bene, perché ci ha permesso di riscoprire sulla nostra pelle, il volto originale della chiesa, pulito dalle sovrastrutture meno autentiche. In tutti questi anni vissuti da prete sposato quante volte ho visto cambiare il volto della Chiesa ! Spesso, mi sono trovato di fronte ad una chiesa nostalgica, attaccata al passato, alle comode sicurezze ed alle formule del tempo che fu. La chiesa della sopravvivenza e della conservazione statica. Mi sono trovato di fronte ad una chiesa ecologica, immersa in una realtà storicistica e positivistica, interessata all’uomo ed al suo ambiente. Una chiesa che cerca una pianificazione scientifica; che vede il futuro farsi minacciosamente avanti con i suoi problemi di superpopolazione, di mancanza di risorse naturali. Una chiesa che non sa collocarsi nella speranza soprannaturale; che prescinde dalla sua dimensione escatologica; che si lascia travolgere dai problemi di direzione, di sviluppo ed adegua ad essi la propria fede e la propria morale. Una chiesa che ha perso l’orizzonte dei cieli nuovi, ma anche quelli di una terra nuova. Tutto – secondo questo tipo di chiesa - si potrebbe risolvere con una adeguata e corretta pianificazione tecnica, piatta e banale, simile ai bilanci di un ragioniere. Mi sono trovato di fronte ad una chiesa di tutti i giorni, cioè quel tipo di chiesa da prendere così come viene offerta. La chiesa che non lascia spazio all’inventiva, che arriva sempre ultima dinanzi alle nuove scoperte, che indugia sempre nel vivere la sua dimensione di strada e di cammino. E’ la chiesa dell’ieri continuo, dell’abdicazione alla fantasia, dell’avventura, del coraggio. La chiesa in cui la “prudenza” non è virtù, ma cautela, precauzione, paura delle cose, paura dell’uomo, paura del futuro. E’ la chiesa che ha dimenticato la speranza, che non sente il messaggio di Cristo, che non sa gridare l’annuncio di salvezza. E’ la chiesa del sonno che non vuole essere disturbato. Imbambolata nella sua quiete. E’ la chiesa che non offre la possibilità ai giovani di rendere effettivo il loro bisogno ed il loro diritto di partecipare alla costruzione di un mondo nuovo. E’ la chiesa senza crisi, perché l’ovatta attutisce ed assopisce tutto. In questa chiesa, molti sono ritenuti ospiti scomodi e lo spirito di profezia e di trasformazione del mondo spesso viene respinto. Qual è la Chiesa che Mons. Milingo cerca ? Francamente non lo so, solo lui lo può sapere. Tuttavia io, come prete sposato sono contento di far ancora parte della chiesa che amo, anche se da lei non sono riamato come vorrei, perché sono convinto che solo con un atto di amore noi potremo capire la chiesa, farci chiesa, edificare la chiesa e cambiare la chiesa in meglio, almeno in quegli aspetti che possono essere modificati. La chiesa bisogna amarla, non odiarla, anche se a volte ci fa lacrimare, perché altrimenti rischiamo di essere soltanto dei seguaci di una ideologia o ci potremo paragonare ai membri di un club che distribuiscono o prendono le tessere di un’associazione da cui si attendono determinati vantaggi. Una chiesa da non amare, perché incapace di farsi amare…una chiesa alla quale aderire senza passione, senza entrarci dentro, perché incapace di suscitare interesse…, una chiesa nella quale non ci si sente coinvolti in tutte le fibre del proprio essere, perché tende più ad escludere, ad isolare, ad emarginare che ad accogliere… non sarebbe chiesa. Non sarebbe, comunque, la chiesa di Cristo. “La chiesa di Cristo è quella che non si può mai amare troppo, né relativamente, né assolutamente” - sono le parole di uno dei più grandi contestatori cattolici, Antonio Rosmini. La chiesa che io amo e nella quale credo – come uomo, come cristiano e come presbitero-sposato - è quella che nasce dalla Parola, vive nell’Eucaristia, rinnova continuamente la sua fedeltà al battesimo, attingendo la forza nel sacramento della conversione. E’ la chiesa che si realizza concretamente nella comunione fraterna, che non è indeterminata o puramente affettiva, ma ordinata secondo la volontà di Cristo. E’ la chiesa, nella quale la “gerarchia”, non significa “divisione”, perché da una parte ci sono coloro che comandano e dall’altra coloro che obbediscono, quanto piuttosto comunione, servizio, unità, autenticità; strumento per consacrare il rispetto della creatività, della autonomia, della libertà che è il segno di Cristo pasquale, paziente, morto e risorto. E’ la chiesa dei discepoli del Signore che, dopo la sua risurrezione, si trovano rinfrancati perché rinati a nuova vita, attraverso di Lui. E’ la chiesa della gioia, per la presenza viva di Cristo che attraverso lo “spezzare del pane” ed il “mangiare dello stesso pane” ci lega insieme e ci fa fratelli; è la comunità nella quale convergono e si armonizzano le funzioni ed i talenti di ciascuno, ove nessuno è escluso, come in una grande famiglia; è la chiesa dove ciascuno è artefice della vita della comunità; è la chiesa dove ci si mette, con amore, al servizio gli uni degli altri. E’ la chiesa degli apostoli dove ogni credente è chiamato a coinvolgersi nella vita della comunità, per celebrare quotidianamente la gioia della risurrezione di Cristo. E’ la chiesa con i suoi misteri, con le sue contraddizioni. E’ la chiesa compromessa con l’uomo, ma libera verso un futuro che non è di questo mondo. E’ la chiesa dove chi ha il compito di guidare lo fa nello stile e nello spirito del servo. E’ la chiesa dove i capi sono i primi a porsi lo zaino sulle spalle per camminare assieme al proprio “gregge” verso la “terra promessa”; è la chiesa dove i capi, a somiglianza di Cristo, non si vergognano di mettersi il grembiule per lavare i piedi agli ultimi; E’ la chiesa dove i capi si prodigano per dare dignità a chi si sente escluso. E’ la chiesa dove “autorità” vuol dire sempre e solo servizio; ove obbedienza vuol dire dignità e consapevolezza; dove ogni rapporto umano è contrassegnato dall’amore. E’ la chiesa dove non ci si sente mai soli. E’ la chiesa che soffre con chi soffre. E’ la chiesa povera, non perché si veste o “si trucca” da povera per apparire tale, ma perché nasce dalla sofferenza di Cristo e vive nella quotidiana umiliazione e nel rifiuto da parte del mondo, per un mistero a noi sconosciuto. E’ la chiesa della speranza e della letizia. Questa è la chiesa nella quale io desidero vivere da prete sposato con la mia famiglia, anche se per ora mi trova a vivere più nelle incertezze della tenda di Abramo che nella sicurezza che proviene dal tempio. Sono convinto che, anche nella chiesa cattolica occidentale, con il tempo la vocazione ministeriale potrà essere vissuta nello stato matrimoniale perché in sintonia con il messaggio evangelico. Questo è un dono che tutta la Chiesa dovrebbe chiedere allo Spirito Santo. Invito, pertanto gli ottomila preti sposati italiani, “a dare vita ad un cenacolo di fraternità, allo scopo di meditare sulla possibilità e sulle modalità di riprendere l’esercizio della nostra missione presbiterale. Partiamo per questa avventura meravigliosa, fiduciosi di coinvolgere altri in questo progetto di fraternità, iniziando col fare della nostra vita un dono da offrire a chiunque incontriamo” ( cfr. Giovanni Monteasi, Celibato, la disobbedienza che salva, Napoli, 1998, p.18) Giuseppe dall’Abruzzo ( e-mail : nadirgiuseppe@interfree.it) Martedì, 18 luglio 2006 |