Inedito interessante e originale di un poeta dialettale di Cossignano (Ascoli Piceno) stampato dall’editore Gianni Maroni di Ripatransone
Niccola Pansoni rivive ne “le canzone du casari’” scritte nel dialetto di cossignano, paese dell’entroterra ascolano.

A CURA DI CARLO CASTELLINI

La figlia del poeta di Cossignano, Ottavia Pansoni Armandi ha affidato il prezioso manoscritto a Mariano Malavolta acuto interprete ed estensore della nota introduttiva e Gianni Maroni lo ha dato alle stampe. Da queste belle e variegate poesie scaturisce un variegato mosaico. Il tono e’ volutamente dimesso in contrasto con l’invadente retorica del regime fascista di quel tempo. E’ anche una sorda ribellione alla miseria al dolore; vengono prese di mira le figure tipiche della piccola borghesia quali, medici, sindaci, sacerdoti, piccoli proprietari, artigiani.


“LE CANZONE DE LU CASARI’” - SONETTI E POESIE IN DIALETTO COSSIGNANESE.

DI NICCOLA PANSONI, EDITORE GIANNI MARONI, PRESENTAZIONE DI MARIANO MALAVOLTA.
Di questa raccolta di poesie in dialetto cossignanese, Cossignano, piccolo paese agricolo dell’entroterra ascolano, NDR), che vede la luce più di mezzo secolo dopo la scomparsa di NICCOLA PANSONI (1932), va detto innanzitutto che si tratta di un avvenimento editoriale a dir poco singolare, che ha una sua spiegazione meramente contingente nella circostanza del generoso gesto della figlia dell’Autore, la sig. ra OTTAVIA PANSONI ARMANDI, la quale ha voluto affidarmi il prezioso manoscritto fino ad ora conservato tra i piu’ cari ricordi di famiglia: la lettura di questo interessante inedito, che riemerge dall’oblio di un passato ormai lontano con tutta la freschezza del parlato dialettale, rende infatti evidente e al lettore non distratto – e non sprovvisto di sensibilità storica – quale imbarazzo abbia sentito l’Autore di fronte al suggestivo affresco che la sua Musa cossignanese era venuta delineando e quale esitazione egli abbia avuto a dare alle stampe un’opera che pure era sostanzialmente completa (anche del frontespizio, qui riprodotto alla tav. V), non soltanto per il taglio bozzettistico e caricaturale di taluno dei componenti – che non avrebbe mancato di urtare la sensibilità o la suscettibilità dei diretti interessati – ma anche e soprattutto per il quadro d’assieme che risultava dalla giustapposizione delle tessere singole di questo variegato mosaico e per il tono volutamente dimesso che, se pure aderiva ottimamente alla realtà tutto sommato arcaica della comunità nella quale il PANSONI viveva, era tuttavia in contrasto stridente con la moda nazionale sempre più invadente della retorica ottimistica e della fuga in avanti che da qualche tempo il regime imponeva a tutti gli Italiani nell’immane sforzo di costruzione di uno stato moderno.
 Nell’evidente iato fra il fondale – appena percettibile al distratto lettore, ma ben presente all’Autore –delle parole d’ordine della propaganda fascista gridate in piazza dalla radio e alla quieta e torpida realtà quotidiana della piccola comunità trascinata, per la prima volta e suo malgrado, a fare da muta e perplessa spettatrice la turbinio della storia nazionale vanno dunque ricercati sia la chiave di lettura di questi componimenti, sia il loro ricchissimo valore documentario, quasi d’inventario concettuale e di censimento culturale.
 La società alla quale il PANSONI, ha saputo qui dare voce e anima è infatti un secreto periferico ed emarginato di eterni perdenti e sconfitti: una società che non ha mai – se non in tempi mitici – prodotto èlites di protagonisti, e che tutt’al più riesce a contemplare sé stessa in qualche barlume di autocoscienza, che scoppietta con vivacità nelle arguzie dei bontemponi o si rivela con evidenza talora drammatica nella sorda ribellione alla miseria, al dolore, e alla pena di vivere; e questo vale sia per la micro borghesia “privilegiata” dei medici, dei sacerdoti, dei piccoli proprietari terrieri, sia per la folla di artigiani perennemente a caccia di lavoro, sia infine per il piccolo esercito di contadini/anime sparsi – ma non troppo – per il territorio: non è un caso che tutti costoro siano poeticamente affratellati da un comune substrato dialettale e dalla povertà di un Patrimonio lessicale ridotto all’indispensabile, ciò che spiega li frequente ricorso alla metafora, o, in casi estremi, al solecismo mimetico dell’incomprensibile terminologia della lingua dotta.
 Va detto a questo riguardo, che la profonda simpatia con la quale il nostro Autore guardava alla materia della sua poesia, non è priva di riscontri puntuali con il clima culturale del suo tempo. Non si non pensare ad esempio, a quella esaltazione populistica del tipo umano spontaneo e genuino – già presente in tante pagine del PAPINI e del SOFFICI – che finì col diventare (proprio negli anni in cui il PANSONI veniva elaborando i suoi sonetti), il manifesto programmatico del movimento detto STRAPAESE, nato come manifestazione di un certo spirito di fronda all’interno delle posizioni fasciste, e coagulatosi poi attorno alle idee diffuse da MINO MACCARI sulla rivista “IL SELVAGGIO” (pubblicata a partire dal 1924) con lo scopo dichiarato di “difendere a spada tratta – come scriveva lo stesso MACCARI nel 1927 – il carattere rurale e paesano della gente italiana”, nonché “l’ambiente,il clima e la mentalità ove sono custodite, e per istinto e per amore, le più pure tradizioni nostre”.
 
     La scelta di pubblicare integralmente il manoscritto senza aggiungere in appendice la riproduzione delle raccolte di componimenti già pubblicate dal PANSONI – scelta che deluderà sicuramente piu’ d’uno dei numerosi amici cossignanesi – l’ho fatta di proposito, proprio per mantenere inalterata, anche sotto l’aspetto formale, la compiuta organicità di questa raccolta: sono fermamente convinto, a questo riguardo, d’avere interpretato rettamente , anche a distanza di tanto tempo, la volontà dell’Autore. (MARIANO MALAVOLTA)               A CURA DI CARLO CASTELLINI
 
COSSIGNANO, (ASCOLI PICENO), LUGLIO 1990.
 
PERCHE’ (RAGIONE DELLA MIA ARTE). AL DOTT. FRANCESCO DEL DUCA – li 22 ottobre 1928
 
…E mi ostino così nel dialetto   - ruvido ed aspro della gente mia
che, in una frase sola, in un sol detto, - assomma tanta vera poesia!
Comprender non mi può chi, nel suo petto, non sente di mia terra nostalgia,
chi non afferra il suo9no puro e schietto - che echeggia per la casa e per la via,
Nella chiesa, nei campi a tutte l’ore pura espression di gente rude e forte con accento che va dritto al core.
Segue d’ognun la buona e triste sorte: nell’ira, in vendetta e nell’amore dalla culla e più là: oltre la morte!
(NICCOLA PANSONI)
LU CHEMMUNE – 10/11 GIUGNO 1911
 
N’accidente a chi è fatte lu chemmune,   - la torre, lu pertò, l’arbre pretorie,
Se pe chembinaziò te ce bocche une - se joche l’anema, l’eterna glorie!
Qua na tasse che fa venì la lune - perché fu fatte pe fa fa bardorie
a cacche segneritte o a cacche dune - che na vote badiè li bove a corie,
 
Se rintre e lu balive ne te cacce - truove na guardia che te da n’avvise!
Dije caccuose – dice “Che te sacce?” - Caschesse jo pe nterre lunghe e stise
comme saprié tutto si malannacce - se je pertiscie mpar de puje appise!
(NICCOLA PANSONI)                 
(A CURA DI CARLO CASTELLINI)


Luned́ 16 Febbraio,2009 Ore: 15:49