Un dono. Una scelta
Innamorarsi è sempre un dono immenso, gratuito, personale, che ciascuno di noi nel momento di riceverlo è libero di accettare o di rifiutare, con tutte le conseguenze che derivano dalle decisioni che si prendono. Non si sceglie di innamorarsi, non si può stabilire né il giorno né l’ora, né le circostanze né la persona. È sempre un mistero che non si riesce mai o quasi mai a definire, ad acchiappare, a codificare. Ecco perché quando questo avvenimento si concretizza realmente, senza avvisarti con troppo anticipo, ti coinvolge nella mente, nel cuore, nel corpo. Un mistero che si svela nel dispiegarsi dei giorni, dei momenti, delle piccole o grandi cose che sei chiamato a vivere con te stesso e con l’altra persona che ti dona il suo amore e riceve il tuo. Questa esperienza la facciamo tutti, prima o dopo, in età diverse e con modalità non sempre uguali, e rimane un avvenimento che trasforma la nostra vita. Tutto questo non è puro romanticismo. È realtà. Lo è anche per chi ha ricevuto il dono della vocazione sacerdotale, ed è quello che è successo anche a me. E non sto parlando di una folgorazione accaduta ieri, né di una sensazione passeggera, ma di una storia iniziata ormai da quasi undici anni e che continua ancora con la stessa meraviglia delle origini.
Arriva poi il momento della scelta. Cosa faccio? Cosa facciamo? Accogliamo questo dono e decidiamo di viverlo fino in fondo o ci fermiamo e soprassediamo? È una scelta non facile, comporta delle conseguenze che bisogna accogliere come permanenti. Io decido di sì e anche lei. Ne parliamo, valutiamo, rischiamo, ci fidiamo ciecamente l’uno dell’altra. Io so che accogliendo il dono vengo messo fuori dall'istituzione, so che mi ritrovo sulla strada senza lavoro, so che dobbiamo cercarci una casa, provvedere a sopportare critiche e incomprensioni familiari e sociali di vario genere, pensare un avvenire passo passo, soprattutto accettare una posizione nuova davanti a noi stessi, agli altri e alla comunità. Ci confermiamo il sì. Uniti ce la possiamo fare. La Provvidenza di Dio esiste, l’abbiamo sperimentato negli anni: non ci ha mai abbandonato e non ci ha fatto mai mancare nulla. Spesso ci fermiamo e ci diciamo: “Quante ne abbiamo passate, ma siamo ancora qui, siamo ancora insieme, ci vogliamo sempre bene e continuiamo il cammino”. Quello che io ho predicato per anni come sacerdote e parroco, ho continuato a dirlo a me stesso e a lei, che già mi ascoltava quando lo facevo dall'ambone. Abbiamo ricevuto un dono, abbiamo fatto una scelta. Senza mezze misure, senza scorciatoie, senza nasconderci, senza una doppia vita che, credetemi complica solo l’esistenza non la favorisce. E se è vero che il 50% dei preti (più o meno) vive una relazione clandestina, non è certamente perché questa modalità di vivere una storia d’amore sia la migliore e più semplice. Tutt'altro, è la più triste, per lui e per lei. E siccome chi scrive non è un giornalista ma un prete, so benissimo cosa scrivo. Per esperienza, non per sentito dire. “Ma tu non sai cosa vuol dire…”. Lo so, eccome! Ci sono passato e so concretamente cosa comporta la scelta. Non sono migliore di nessuno, sto scrivendo solo la mia esperienza, se potrà essere utile a qualcuno.
È innegabile: chi ha ricevuto la vocazione sacerdotale e l’ordinazione è e rimane sacerdote per sempre (carattere indelebile del sacramento). Non esistono gli ex preti, un prete non può mai essere considerato ex. Prete lo è e lo sarà sempre. Più corretto definirlo prete uxorato, sposato. E aggiungete anche: felicemente! A parte casi sporadici, nessuno di noi ha rinunciato a sentirsi prete, purtroppo è l’istituzione che ci ha messi alla porta, non sempre in modo gentile, forse con i guanti felpati, ma pur sempre invitandoci a vivere altrove una vita riservata, modesta, silenziosa, quasi che avessimo commesso un reato o una colpa imperdonabile. E se vi viene voglia di recuperare il documento di riduzione allo stato laicale e dispensa dal celibato (che anch’io ho ricevuto per averlo richiesto non per averlo subìto), vi renderete conto dell’umiliazione cui si sottopone il richiedente che viene graziato dall’istituzione perché possa sposarsi anche in chiesa e vivere la sua relazione in modo normale. Domandatevi se tutto questo ha ancora senso, se a prevalere dev’essere la legge, il diritto canonico, se l’unica dimensione dell’operare è quella di far rispettare e mantenere la disciplina, se l’unica preoccupazione diventa quella di continuare a negare l’esistenza di un problema che ha rovinato e continua a rovinare l’esistenza di migliaia di uomini e donne. In nome di cosa? Di una legge umana, che poi, rivestita e supportata da argomentazioni di varia natura, è diventata norma quasi irriformabile. Ancora adesso, ascolto con meraviglia chi si sforza di rivestire la legge del celibato con involucri di varia natura, stratificatisi nel corso dei secoli, per difendere ad ogni costo una norma che non ha più alcun fondamento che la renda obbligatoria per tutti. Libera scelta va bene, ma non può essere una clausola assoluta, tanto da dover richiedere un “giuramento” prima dell’ordinazione diaconale. Non ci hanno fatto giurare di essere poveri, di vivere una vita modesta conforme al Vangelo, non ci hanno fatto giurare nemmeno di essere obbedienti (è richiesta la promessa durante la liturgia di ordinazione, non un giuramento), non ci hanno fatto giurare se non di essere celibi. Vi rendete conto? Riuscite a dedurre le conseguenze? E ci meravigliamo se i preti hanno una relazione o si sposano? Se analizziamo bene ogni aspetto, riusciremo a comprendere l’assurdità della normativa canonica.
Ogni tanto, come in questi ultimi giorni, la questione del celibato dei preti ritorna alla ribalta, grazie ad articoli, interviste, servizi televisivi di approfondimento non privi di valore e di interesse. Il rischio è che se ne parli con una scrollata di spalle, quasi impotenti davanti all’irremovibilità dell’istituzione. E questo atteggiamento deve finire. Finché però tutti o la maggior parte rimarremo chiusi in noi stessi, fino a che i preti e le loro compagne mogli o fidanzate si chiuderanno in sé stessi, fino a quando non faremo in qualche modo sentire che ci siamo e che vogliamo esserci, non possiamo sperare di essere ascoltati, né possiamo auspicare di essere presi in considerazione. Anche solo raccontando le nostre storie, condividendo le nostre esperienze, dandoci un sostegno reciproco, alimentando una rete di amicizia e di vicinanza. Anche solo vivendo serenamente la nostra vita, senza vergogna, senza paura. Una presenza che è già una testimonianza. Senza preoccuparci di quello che diranno o scriveranno di noi. Perché se l’istituzione non comprende e non accoglie, spesso la comunità lo fa. Mi commuove come tante persone avanti negli anni sono più comprensive e accoglienti, come tanti giovani accettano la nostra scelta, come tanti amici e familiari con il passar del tempo riallacciano i rapporti. Non siamo soli. La resistenza maggiore arriva dalla gerarchia. Sembra un muro di gomma invalicabile. Ma la goccia scava la roccia. Le cose cambieranno. Son passate tante cose nella storia della Chiesa, passerà anche questa norma. E speriamo presto.
Francesco