COMUNITA’ PARROCCHIALE DI S.CRISTINA, S.ANTONIO ABATE, S.M. MADDALENA, S.PIETRO D’ALCANTARA
Incontro sulla Escatologia: Esiste l’inferno?

(seconda parte)


di Don Luciano Scaccaglia

Riprendiamo il secondo di una serie di opuscoli redatti da don Luciano Scaccaglia, parroco in Parma della COMUNITA’ PARROCCHIALE Dl S. CRlSTINA. S.ANTONIO ABATE. SM. MADDALENA, S.PIETRO D’ALCANTARA. Ringraziamo don Luciano per questi testi


L’inferno è chiamato nella Bibbia Sheol (nel Primo Testamento) (in greco, Ade) e Geenna (nel Secondo Testamento).

I profeti parlano dello Sheol come simbolo del futuro Inferno: cfr.Ger 7,32; Is

66,24.

Secondo alcuni studiosi però l’inferno, come castigo finale e definitivo, appare solo nel Nuovo Testamento, non con questo nome, ma con le seguenti espressioni: pianto e stridore di denti, oscurità, esclusione dalla felicità eterna, fuoco che non si spegne mai, ecc.

Secondo la Chiesa Cattolica Gesù parlò ripetutamente dell’inferno:

“Gesù parla ripetutamente della ‘Geenna’, del ‘fuoco inestinguibile’, che èriservato a chi sino alla fine della vita rifiuta di credere e di convertirsi, e dove possono perire sia l’anima che il corpo. Gesù annunzia con parole severe che egli ‘manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno... tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente’ (Mt 13,41-42), e che pronunzierà la condanna: ‘Via, lontano da me, maledetti, nei fuoco eterno!’ (Mt 25,41)”. (Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1034).

 

Esamino alcuni testi principali dei vangeli seguendo esegeti che l’interpretano non secondo l’esegesi tradizionale, che invece vede negli stessi testi l’annuncio esplicito della dannazione eterna.

La posizione tradizionale verso l’inferno è chiara e ben nota:

“… con la morte cessa per la persona umana la possibilità di cambiare la decisione presa in pienezza di luce e di libertà. Essa resta fissata per sempre in quello che ha deciso. La scelta di Dio o la scelta di se stesso contro Dio è irrevocabile, e Dio non può far nulla per cambiarla, altrimenti distruggerebbe la libertà umana, che è il dono più grande che egli abbia fatto all’uomo nel crearlo, e che egli mantiene anche quando l’uomo sceglie contro di lui”[1].

- “Ma io vi dico: chiunque si adira con il proprio fratello, sarà sottoposto a giudizio. Chi poi dice al fratello: stupido, sarà sottoposto al sinedrio; e chi gli dice: pazzo, sarà sottoposto al fuoco della Geenna” (Mt 5,22).

Geenna (in ebraico Gei-hinnom, “valle di Hinnom” a sud di Gerusalemme) sotto i re Manasse ed Achaz (cfr. 2 Re 16,3; 21,6; Ger 7,31; 19,5; 32,35) era il luogo dove si facevano sacrifici umani al dio Moloch. Con il re Ezechia divenne la discarica pubblica dove sempre ardeva il fuoco. Inoltre vi si portavano anche i corpi delle vittime della peste: così divenne simbolo dell’inferno.

Nella letteratura apocalittica indica il luogo di raduno degli empi per la condanna finale.

- “E non abbiate paura di quelli che uccidono il corpo, ma non hanno potere di uccidere l’anima; temete piuttosto colui che ha il potere di far perire e l’anima e il corpo nella Geenna” (Mt 10,28).

Occorre ora fare una premessa per conoscere la mentalità ebraica sul rapporto anima-corpo: la distinzione o peggio l’opposizione è greca e non biblica.

“Benché Mt distingua l’anima dal corpo, non prende in considerazione l’esistenza dell’anima separata dal corpo dopo la morte, cioè nel tempo intermedio prima della parusia di Gesù. Comunque, l’anima garantisce all’uomo la continuità della sua esistenza fino al giudizio finale. Per il semita è inconcepibile la vita senza il corpo. Il detto si riferisce alla totalità della vita dell’uomo, conservata da Dio anche dopo la morte”[2].

- Matteo esorta a non aver paura dei persecutori (vv. 26-33).

Il cristiano deve annunciare Cristo senza paura, ovunque.

“Il ‘catacombismo’ perciò e il ‘silenzio’ in cui si vuoi relegare la chiesa contrasta apertamente con la volontà del suo fondatore. All’uno e all’altro tentativo si oppone il comando di Cristo: ‘proclamatelo’, ‘annunciatelo”[3].

- A volte questo annuncio coraggioso dell’Evangelo comportava il rischio del martirio (v. 28) e molti cristiani cedevano e rinnegavano la fede (lapsi). Per dare coraggio di fronte ai sacrifici e al martirio per la fede, Matteo non esita a far ricorso al deterrente dell’inferno.

“Matteo ha fatto ricorso alle minacce (la geenna), segno evidente che le raccomandazioni da sole non bastavano a impedire le defezioni (cfr. 5, 22.29; 23, 15.33). Lo spavento dei fuoco può darsi che sia più efficace del timore dei carnefici”[4].

- Mt 13,18-23.36-43.

“Come dunque si raccoglie la zizzania e si brucia nel fuoco, così avverrà alla fine del mondo. Il Figlio dell’uomo manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno dal suo regno tutti gli scandali e tutti gli operatori dì iniquità e li getteranno nella fornace ardente dove sarà pianto e stridore di denti” (vv. 40-42).

Molti esegeti mettono in discussione l’autenticità di questa parabola; non sarebbe di Gesù, perché rispecchia la situazione post-pasquale della comunità cristiana dove convivevano fedeli impegnati, peccatori e miscredenti.

La parabola della zizzania con la sua spiegazione risalirebbe, quindi, ò alla riflessione della Chiesa delle origini, o alla redazione di Matteo.

Il brano è quindi parenetico, non teologico: fa leva cioè sulle minacce apocalittiche per portare gli ascoltatori alla conversione e non intende trasmettere verità di fede sulla vita eterna.

In Matteo e nei vangeli è molto frequente il genere letterario della parenesi:

“Dal greco parainesis, derivato del verbo parainein, ‘esortare’. E’ la predica cristiana in quanto si presenta con il carattere dell’esortazione e dell’ammonimento. Come concetto esegetico, indica il genere letterario biblico che contiene esortazioni, incoraggiamenti e propone le esigenze pratico-morali della fede spesso nella forma dell’etica nell’ambiente anche pagano nel quale si sviluppa la Bibbia”[5].

L’aspetto più sconcertante di questa parabola è in questo Dio che rigetta chi non accoglie Cristo (vv. 41-42).

Tale sconcerto si prova anche leggendo altre frasi simili in Matteo: “Andate via  da me” (7,22), “saranno cacciati fuori” (8,12), “lo rinnegherò davanti al Padre mio” (10,33), “fin dall’Ade precipiterai” (11,23), “e la condanneranno” (12,41), “per bruciarla” (13,30), “separeranno i cattivi dai giusti” (13,49), “gettatelo fuori nelle tenebre “ (22,12), “via da me maledetti” (25,14).

- Siamo davanti a un Gesù venuto per condannare e non per salvare?, come invece si legge in Gv 3,17:

“Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui”.

- Secondo molti studiosi sono testi da attribuire ai primi predicatori cristiani che puntavano sui castighi divini per spingere alla conversione i cristiani tiepidi e indifferenti.

Non sarebbero messaggi teologici sul dopo morte.


“C’è pertanto da chiedersi se questi testi evangelici non siano squarci di omiletica cristiana che, come quella degli antichi profeti, ha fatto sempre leva sulle minacce di castighi per portar a ravvedimento gli uditori, più che annunzi divini sulla sorte ultima dell’uomo. Una notizia così grave qual è quella della conclusione della storia (o della fase terrestre del regno) non può esser dedotta da testi così singolari in cui la fantasia e lo zelo hanno preso la mano del predicatore. Il futuro rimane, può darsi, un segreto che Dio non si è preoccupato di manifestare così facilmente come i predicatori cristiani sembrano fare intendere”[6].

- Secondo altri studiosi il testo è di Matteo, ma ha lo stesso intento dei predicatori del tempo: affermare che non salva l’ortodossia, se manca l’ortoprassi: è la fede operosa che salva, non l’anomia, l’infedeltà alla legge di Cristo che è legge di amore e di solidarietà.

“L’appartenenza alla comunità cristiana non garantisce in sé la salvezza finale. Il giudizio infatti non avverrà in base a criteri di carattere religioso o confessionale, ma secondo il metro prassistico significato dal comandamento delI’amore del prossimo. L’evangelista combatte la falsa sicurezza dei cristiani che, fiduciosi negli elementi istituzionali e sacramentali della chiesa, trascurano concretamente la legge rivelata dal Signore”[7].

- Lc 16,19-32: parabola del ricco epulone.

Lo scopo dell’evangelista è religioso, invitare cioè alla fede e alla salvezza, ma non esclude giudizi sociali sul rapporto tra ricchi e poveri.

Gesù e Luca sono dalla parte di tutti i Lazzari della terra, ne condividono la sorte e così deve fare anche la Chiesa.

“L’intento dell’evangelista è ricordare che nella storia c’è stato almeno qualcuno che ha preso le difese di Lazzaro e della sua classe e che si preoccupa di spingere gli uomini, soprattutto i credenti, a rendersi consapevoli delle situazioni inique, assurde in cui i più vivono a motivo dello strapotere dei pochi”[8].

- Il finale della parabola è crudele e spietato per il ricco; la sorte dei due protagonisti sembra irreversibile; sono divisi per sempre da un baratro, da un “grande abisso”, invalicabile:

“Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì sì può attraversare fino a noi. E quegli replicò: Allora, padre, ti prego di mandarlo a casa di mio padre, perché ho cinque fratelli. Li ammonisca, perché non vengano anch’essi in questo luogo dì tormento” (vv.26-28).

- Anche l’intento di Luca è qui parenetico e non teologico: non intende risolvere i problemi sull’al di là, ma lancia un appello a vivere nell’amore e nella giustizia nell’aldiqua, per essere veramente secondo Dio.

“Il bene come il male ha ripercussioni ultraterrene, ma come e in quale proporzione nessuno lo sa, né forse il parabolista ha inteso rivelarlo. Se l’ha fatto, ha seguito una sua logica umana non quella di Dio[9] (ndr, il grassetto è mio).

- Se prendiamo alla lettera la parabola nascono forti dubbi su Dio: è un Dio che sembra non avere la capacità di perdonare un ricco pentito.

La presentazione così severa di Dio traduce e rispecchia l’ostilità dura di Luca verso i ricchi, la classe abbiente, durezza presente in tutto il suo vangelo:

“Ma guai a voi, ricchi,

perché avete già la vostra consolazione.

Guai a voi che ora siete sazi,

perché avrete farne” (vv. 24,25).

- Secondo quasi tutti gli esegeti, questa parabola non ha uno scopo dogmatico: rivelare che cosa c’e dopo la morte. E’ un racconto simbolico, apocalittico, che vuole mettere a fuoco il pericolo delle ricchezze non condivise.

“L’evangelo non intende darci informazioni sull’al di là, né sulla geografia escatologica, sul soggiorno degli empi e su quello dei giusti. Per parlare del rischio fatale della ricchezza, che chiude l’uomo agli altri e al futuro, l’evangelo ricorre a un racconto simbolico aprendo uno scorcio oltre la morte. Ma per descrivere la condizione dei due protagonisti nell’al di là esso utilizza le immagini e le raffigurazioni fantastiche note nella tradizione biblica e giudaica contemporanea. Nello stato intermedio, prima del grande giudizio in cui verrà assegnata la sorte definitiva, i, giusti sono separati dagli empi; i primi sono in un mondo ideale di felicità, i secondi sono tormentati dal fuoco e dalla sete”[10].

- Mt 25,31-46: ll giudizio finale

“E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna” (v.46)

Gli esseri umani egoisti, i capri (vv.32-33), quelli insensibili alle sofferenze al­trui, vengono messi nel giudizio finale a sinistra (perché era la parte meno privilegiata secondo la cultura antica).

Matteo, per loro, parla di fuoco eterno, eis to pyr to aiônion (v.41) o castigo eterno, eis kolasin aiônion (v.46).

- Il termine eterno, in ebraico ‘olam, in greco aiòn va interpretato alla luce della semantica antica e della concezione teologica presupposta dal brano, dove il centro è rappresentato dall’etica delle opere a favore degli ultimi.

‘Olam non significa eterno come intendiamo noi moderni, ma una durata lun­ga, indefinita, indefinibile di una realtà.

“Il vocabolo olam nell’originale ebraico non significa assolutamente eterno, ma lunga, indefinita o indefinibile durata. L’ebreo non aveva concezioni filosofiche, o cosmologiche profonde ed esatte; ne si è in grado di determi­narle. L’autore parla secondo un’accezione popolare, generica del termine”[11].

“La parola ebraica ‘olam per l’Antico Testamento, e la sua traduzione greca aiôn per la Settanta e il Nuovo Testamento, designano un periodo compiuto, determinato, anche se di durata inafferrabile. Infatti la parola ebraica ‘olam riguarda ciò che è nascosto, segreto, di cui si ignora sia l’inizio che la fine: ciò che è indefinito, indeterminabile”[12].

La parola quindi può avere diversi significati: ciò che è vecchio, antico (Gen 6,4; Lc 1,70; At 15,18;), ciò che è stabile, come le montagne e gli elementi del­l’universo (Gen 49,26; SaI 72,5.17), ciò che è permanente, durevole (1Sam 2,30; Gen 17,7; Ger 7,7; Is 61,7), ciò che non solo dura, ma è anche misterioso come l’esistenza d’oltretomba (Ger 51,39; Qo 12,5; Mt 18,8).

- Ma è soprattutto a livello teologico che nascono dubbi e perplessità: un Dio giudice inappellabile contrasta con un Dio Padre, Madre, Amico e anche con un Dio presentato come Sposo nello stesso c. 25,6.

- Inoltre Gesù invita i suoi discepoli/discepole a perdonare sempre, settanta volte sette; e Gesù è l’icona perfetta di Dio. Ora tale legge del perdono non vale per Dio che Io ha mandato?


“E Gesù gli rispose: ‘Non ti dico fino a sette, ma fino a settanta volte sette”(Mt 18,22).

- Alcuni obiettano che la pena è eterna in quanto è irreversibile l’ostinazione dell’essere umano nel peccato: ma non si comprende come qualcuno possa ostinarsi a difendere a tutti i costi la propria infelicità.

> Il brano quindi, seguendo moltissimi esegeti, va interpretato nel suo con­testo storico originario: il giudizio di Dio è presentato in modo mitico, secon­do le procedure dei tribunali orientali.

“Anche Dio è un giudice severo e inappellabile, anzi più munifico e più terribi­le di ogni altro; premia e punisce senza pari. Egli ha i domini che compartisce con gli amici fedeli e le prigioni per punirvi i suoi nemici. Gesù,  o meglio Matteo, è rimasto legato alla mentalità e cultura del tempo nel presentare le manifestazioni della giustizia divina; non è improbabile perciò che molta predicazione cristiana sui destini ultimi sia basata unicamente sugli schemi dell’arte letteraria giudaica. Non possiamo pretendere di fissare il codice a Dio”[13]. E’ difficile credere in un simile Dio.

- Interessante è pure l’intuizione dell’esegeta Ortensio da Spinetoli: La libertà che è l’essenza dell’essere umano rimarrebbe anche oltre la morte come possibilità di una realizzazione piena nell’amore.

“Se l’uomo rimane tale, e quindi libero anche nella fase celeste, mal si comprende il suo presunto stato di fissità nel bene, e nel male. Non potrebbe essere, pertanto, questo un ulteriore residuo di una concezione filosofica che pone la perfezione nella stasi, nell’immobilismo supremo, invece che nel movimento e nell’incessante divenire, come l’antropologia evolutiva inclina a pensare? Se l’uomo continua a essere libero, può darsi che continui anche a realizzarsi e a scrivere ulteriori pagine di storia. Le parabole del servo (24,45-51) e dei talenti (25,14-30) fanno del cielo non un luogo di comodo riposo ma di superiore impegno”[14].

- Anche per altri studiosi, il brano che è una composizione matteana, ha un intento parenetico ed è costruito secondo l’apocalittica giudaica. Il messaggio del valore delle opere è tipico della teologia di Matteo.

“Molti elementi riflettono chiaramente l’impronta matteana, come la compat­tezza letteraria, la strutturazione accurata con il ricorso ai numerosi parallelismi, l’uso di alcune espressioni (tutte le nazioni, trono della sùa gloria), la concezione particolare del regno del Figlio dell’uomo, il tema del pastore, del giudizio divino in base alle opere, del premio eterno, del servizio in favore dei fratelli bisognosi, la presentazione grandiosa di Gesù quale giudice escatologico, l’intento parenetico”[15].

- Lo studioso B.T. Viviano definisce il brano un capolavoro, ma si chiede se esso venga da Gesù, o da Matteo, o dalla Chiesa primitiva, o dal Giudaismo come sosteneva il grande teologo protestante Bultmann.

Potrebbe quindi essere una composizione di Matteo, unico degli evangelisti a riportare il giudizio finale.

- Il brano è sempre stato letto e giustamente in chiave universalistica, non religiosa o confessionale; è l’amore concreto agli ultimi che salva, non salvano le appartenenze religiose o sociali, o di movimenti o di partiti.

Lo scopo di Matteo nel comporre questo brano fu quello di scuotere una Chiesa stanca e rilassata; forse all’origine di questa composizione parenetica ci fu un insegnamento di Gesù sull’amore concreto ai poveri.

“Si ritiene che l’evangelista abbia rielaborato materiale tradizionale. Ma si può pensare che, con probabilità, all’origine ci sia stato un insegnamento di Gesù. Egli è stato profondamente sensibile al tema dell’amore misericordioso per i poveri e i derelitti. Basterebbe a dimostrarlo la parabola del samaritano (Lc 10,29-37). Inoltre egli ha dichiarato beati i poveri (Lc 6,20). Non è avventato congetturare che abbia individuato nelle opere di misericordia il criterio del giudizio u1timo”[16].

Alcune riflessioni finali

1. Dai vangeli non appare che Gesù sia stato un predicatore dell’inferno; è la tesi condivisa da molti esegeti e teologi. Certo Gesù parlò dell’inferno come ne parlavano tutti al suo tempo, usando il linguaggio di allora, quello apocalittico.

“Lo stesso Gesù, per quanto riguarda l’inferno, ha indubbiamente condiviso in larga misura le concezioni apocalittiche dei suoi contemporanei. Lo dimostra, insieme ai discorsi escatologici (certamente contestati nella loro autenticità), soprattutto la parabola lucana di Lazzaro e il ricco epulone nell’inferno... No, Gesù non è un apocalittico, che soddisfa la sempre esistita pia curiosità degli uomini circa l’aldilà, che proietta in un altro mondo le paure e le speranze non realizzate di questo mondo”[17].

- Dell’inferno Gesù ha parlato marginalmente e con le formule tradizionali del tempo. Il centro del suo messaggio è il Vangelo, cioè una notizia lieta e non minacciosa.

2. Il Dio dell’amore predicato da Gesù non può essere vendicativo e colpire con pene eterne, infinite chi ha peccato.

“Devo credere in un tale Dio? In un Dio che potrebbe assistere a una simile crudele tortura psico-fisica, priva di speranza, di misericordia e di amore, oltre che senza fine, delle sue creature? Magari insieme ai beati in cielo, per tutta l’eternità? Coloro che propugnano un tale Dio pensano che il Dio infinito, di fronte a un’offesa ritenuta infinita, per ristabilire il proprio ‘onore’ abbia bisogno di una tale punizione infinita; ma il peccato in quanto azione dell’uomo, è realmente più di un atto finito? E nel Nuovo Testamento Dio è davvero presentato come un simile creditore duro di cuore? Un Dio della misericordia, dalla cui misericordia sarebbero esclusi i morti? Un Dio della pace, che rende eterne l’inimicizia e la non conciliazione?”[18].

3. Molti però obiettano: non è Dio a castigare, a condannare con un verdetto dall’esterno, ma sono l’uomo e la donna che, liberamente, si autocondannano;  e, con la morte, questo loro rifiuto di Dio diventa definitivo, irreversibile. A tale obiezione molti rispondono così: ci può essere qualcosa di definitivo, che resiste all’onnipotenza coniugata con la misericordia infinita di Dio?

“Che cosa significa qui definitivo? Dio, già secondo i Salmi, non domina anche sul regno dei morti? Che cosa può allora diventare qui definitivo contro la volontà di un Dio onnipotente e misericordioso? Perché un Dio infinitamente buono deve rendere eterna l’inimicizia, invece di superarla, e deve voler di fatto condividere per l’eternità la sovranità con un qualche anti-Dio? Perché egli non dovrebbe avere più da dire qui una parola? Perché dovrebbe essere costretto a rendere impossibile per l’eternità una purificazione dell’uomo colpevole?”[19].

 

4. E’ strano: oggi la psicologia e la giustizia penale cercano alternative alle punizioni per ì condannati e al carcere, per cercare di redimere e ricuperare chi ha sbagliato, anche molto, mentre Dio continuerebbe col vecchio sistema della pena vendicativa, definitiva ed eterna?

5. Per l’esistenza dell’inferno eterno ritorna spesso la risposta che esso rap­presenta, anche se in maniera drammatica, il rispetto della nostra libertà.

Ora sul problema del rapporto tra libertà umana e Dio (con la sua grazia), la teologia recente non li mette in concorrenza (cioè più energicamente opera la grazia, minore è la libertà e viceversa). Molti si chiedono: Dio non può salvare anche chi non può essere salvato?

“Non si potrebbe pensare a una vittoria definitiva della grazia di Dio anche nella piena libertà dell’uomo?”[20].

Dicevano i teologi Scolastici “ Nikil volitum, quin praecognitum” non si può volere quello che non è prima conosciuto; chi conoscerà bene la dannazione eterna da accettarla come stato definitivo della propria anima?

6. Credere al paradiso è diverso dal “credere” all’inferno; infatti le due cose non sono sullo stesso piano.

“E’ esatto dire che il cristiano crede nel paradiso, ma non lo è altrettanto (per Io meno se si usa il verbo ‘credere’ nello stesso senso) dire che il cristiano crede nell’inferno. La fede cristiana è essenzialmente speranza. Ma questa speranza viene proclamata davanti all’abisso del fallimento. Parlare dell’inferno significa richiamare l’attenzione sull’abisso, ma non fissare l’attenzione su questo abisso e tanto meno affermare che qualcuno senz’altro ci cadrà dentro”[21].

7. Bisogna parlare dell’inferno, oggi?

Nella Bibbia se ne parla soprattutto a livello parenetico più che informativo: per spingere a vivere eticamente il presente.

Quindi “non bisogna ‘predicare l’inferno’. Predicare significa proclamare, annunciare la Buona Notizia. Si predicano il regno di Dio, la penitenza, il perdono dei peccati, la carità, il cielo, ma non si predica l’inferno[22].

Occorre predicare la speranza della salvezza per tutti; infatti “quando Gesù parla dell’inferno non si tratta per lui di guardare al futuro, ma di far vedere l’importanza del momento presente”[23].

> Secondo il teologo Ruiz de la Pena, “la dottrina della morte eterna non appartiene al vangelo, che, nel suo significato letterale, è la ‘Buona Notizia’,  annuncio di salvezza e non di salvezza o di condanna”[24].

> Secondo altri teologi nel Nuovo Testamento si afferma l’inferno come pos­sibilità reale nella nostra vita. “Ma in contropartita si afferma la speranza della salvezza per tutti. Ciò che sfugge alla riflessione biblica, però, è in che misura si realizzi la possibilità reale della condanna dell’uomo”[25].

8. Occorre inoltre ricordare che nelle antiche Professioni di fede (Credo) e in quella più recente di Paolo VI non si parla dell’inferno.

Noi crediamo nella vita eterna. Noi crediamo che le anime di tutti coloro che muoiono nella grazia di Cristo, sia che debbano ancora esser purificate nel Purgatorio, sia che dal momento in cui lasciano il proprio corpo siano accolte da Gesù in Paradiso, come egli fece per il Buon Ladrone, costituiscono il Popolo di Dio nell’aldilà della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della Resurrezione, quando queste anime saranno riunite ai propri corpi... E con la fede e nella speranza, noi attendiamo la resurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà (30 giugno 1968).

Interessante è un aneddoto medievale, narrato da uno storico e compagno del re Luigi IX, durante una crociata:

“Un frate domenicano, inviato dal sovrano a trattare coi Saraceni, aveva trovato sulla strada una vecchietta di nome Caritea. Costei reggeva, uno per mano, due recipienti: nel primo c’erano braci infuocate, nel secondo acqua gelata. «Che cosa vuoi farne?», le aveva domandato il frate; e la vecchietta aveva risposto che col fuoco intendeva bruciare il paradiso e con l’acqua spegnere le fiamme dell’inferno in modo che nessuno facesse il bene  per  la speranza di un premio o si astenesse dal male per paura del castigo, ma unicamente «per amore di Dio»

«Signore, se ti adoro per timore dell’Inferno, bruciami nel fuoco in­fernale; se ti adoro per la speranza del Paradiso, rifiutami il Paradiso. Ma se ti adoro soltanto per amor tuo, non mi negare il tuo eterno splen­dore.» (Rabi’a al-Adawiyya)



[1] Torres Queiruga, L’inferno, isg edizioni, Marna, Barzago (LO), 2002, p. 100.

[2] A. Poppi, I quattro vangeli, Vol. Il, Edizioni Messaggero, Padova 1997, p. 142.

[3] O. da Spinetoli, Matteo, Cittadella Editrice, Assisi 1983, p. 318

[4] Ibid.

[5] Cfr. Dizionario del Cristianesimo, Edizioni Jesus, Milano 2000, p. 126.

[6] O. da Spinetoli, Matteo, op. cit., p. 405.

[7] I Vangeli, Traduzione e commento a cura di G: Barbaglio, R. Fabris, B. Mag­gioni, Cittadella Editrice, Assisi 1989, p. 326.

[8] O. da Spinetoli, Luca, Cittadella Editrice, Assisi 1986, p. 532.

[9] Ibid., p. 534

[10] I Vangeli, op. cit., pp. 1173-1174.

[11] O. da Spinetoli, Matteo, op. cit., p. 677.

[12] L. Monloubou-F. M. Du Buit, Dizionario Biblico, a c. di R. Fabris, Borla, Roma 1987, p. 359.

[13] 0. da Spinetoli, Matteo, op. cit., p. 678.

[14] Ibid.

[15] A. Poppi, I quattro vangeli, op. cit., p. 216.

[16] IVangeli, op. cit., p. 545.

[17] H. Kung, Vita eterna?, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1983, p. 175.

[18] H. Kung, Credo, Rizzoli, Milano 1994, p. 171.

[19] Ibid, pp. 171-172.

[20] F. Nocke, Escatologia in Giornale di Teologia, 1985 p. 141.

[21] Ibid, p. 143.

[22] A. M. Roguet, Preche-t-on suffisamment sur l’enfer? in AA. VV., Le Christ de­vant nous, Desclée, Paris 1967, p. 143.

[23] G. Greshake, Mas fuertes que la muerte, Sal Terrae, Santander 1981, p. 120.

[24] J. L. Ruiz de la Pena, La otra dimensi6n. Escatologia cristiana, Sal Terrae, Santander 1986, p. 254.

[25] J. J. Tamayo-Acosta, L’escatologia cristiana, Borla, Roma 1996, p. 414.



Giovedì, 22 giugno 2006