Le origini del sionismo e gli inizi della colonizzazione

[Dal libro di Fabio De Leonardis Palestina 1881 2006. Una contesa lunga un secolo, La Cittą del Sole, Napoli, 2007 Fonte: most.za.beograd@libero.it]


 
Alle radici del nazionalismo ebraico
Il sionismo, sebbene tragga la sua linfa vitale dalle aspirazioni messianiche alla redenzione collettiva presenti nell’ebraismo sin dalle sue più remote origini, nasce come movimento politico solo nell’800, in reazione all’ondata di antisemitismo (ma anche alla sempre più diffusa tendenza all’assimilazione) che si stava facendo strada in Europa, anche se nei secoli precedenti c’erano state periodiche migrazioni in Palestina di piccoli gruppi di ebrei al seguito di presunti “Messia”. Se il mondo cristiano aveva da sempre perseguitato gli israeliti, il mondo arabo invece non conosceva un vero e proprio antisemitismo, tanto che fra i maggiori rappresentanti della storia letteraria araba più antica si contano anche degli ebrei, come il poeta-cavaliere Samawal ibn Adiyà[1]. Occasionalmente c’erano stati degli attriti, ma in generale essi costituivano un’eccezione: ebrei ed arabi erano stati alleati nella conquista della penisola iberica, e la Granada araba era stata un’oasi di tolleranza dove il giudaismo aveva vissuto una sua età dell’oro, prima che la reconquista permettesse ai Re Cattolici di avviare le loro persecuzioni antiarabe ed antiebraiche. Non dissimile era il loro status nell’Impero Ottomano, dove gli ebrei costituivano il proprio millet e dove l’abolizione delle discriminazioni formali contro i cittadini non-musulmani e gli sviluppi protocapitalistici avevano notevolmente migliorato la loro condizione. In Europa occidentale dopo l’Età dei Lumi e la Rivoluzione Francese gli ebrei avevano ottenuto pieni diritti civili e politici in diversi paesi (Francia, Gran Bretagna Germania, Austria-Ungheria, Italia) e godevano di pieni diritti civili. Effetto di questa emancipazione e della haskalah (l’Illuminismo ebraico), era stato la formazione di una intelligencija di ebrei secolarizzati imbevuti delle correnti culturali del proprio tempo che, fra le altre idee filosofiche dell’epoca, vennero in contatto anche con il nazionalismo.
Sensibilmente diversa era invece la vita delle comunità israelitiche nella Russia zarista, dove la maggior parte degli ebrei era costretta a vivere in condizioni di indigenza in speciali aree loro riservate in Ucraina, Polonia e Lituania (le tristemente note “Zone di residenza), ed era soggetta a numerosissime discriminazioni e vessazioni, anche se esisteva una piccola borghesia ebraica nelle grandi città[2]. Ad essi era interdetta la proprietà terriera, erano esclusi da molte professioni, il loro accesso all’istruzione era soggetto a limitazioni e soprattutto avevano l’obbligo di svolgere un lunghissimo servizio di leva della durata di 25 anni. Moltissimi ebrei di queste regioni dell’Impero zarista vivevano in villaggi in cui erano gli unici residenti (i caratteristici shtetl) e avevano sviluppato una lingua comune (lo yiddish, un dialetto tedesco arricchito di espressioni e vocaboli provenienti da diverse altre lingue) e un ricco patrimonio culturale popolare. Queste circostanze contribuirono probabilmente a che essi si percepissero e venissero percepiti come una minoranza nazionale, piuttosto che religiosa; fatto che, come si vedrà, avrà le sue conseguenze.
Fu precisamente in Europa orientale, nell’ambiente ostile del virulento e viscerale antisemitismo slavo, che il sionismo si sviluppò come movimento di idee: i suoi precursori furono due rabbini, Yehuda Alkalai e Zvi Hirsch Kalischer. Yehuda Alkalai (1798-1878) era un ebreo sefardita di Sarajevo (Bosnia) che dopo aver studiato a Gerusalemme era diventato rabbino in Serbia. Lì aveva assistito al “risveglio nazionale” serbo e delle altre popolazioni dei Balcani, da cui aveva tratto ispirazione proponendo un nazionalismo ebraico su base religiosa: nella sua visione, il ritorno in massa degli ebrei nella “Terra promessa” avrebbe dovuto essere non la conseguenza della venuta del Messia, ma la sua condizione preliminare. Secondo Alkalai la “Terra promessa” avrebbe potuto essere riscattata acquistandola dal sultano ottomano, e a tal fine egli proponeva la creazione di un’organizzazione che si occupasse dell’acquisizione di terreni in Palestina; auspicò anche il recupero dell’antica lingua ebraica, sul modello dei revival linguistici delle nazioni balcaniche. Alkalai pubblicò queste sue idee in un libro intitolato Ascolta, Israele! (1834) e cercò con scarso successo di diffonderle fra le comunità ebraiche europee. Similmente, il rabbino ashkenazita polacco Zvi Hirsch Kalischer (1795-1874) riteneva che con l’ascesa di un nazionalismo ebraico e il ritorno di gruppi di ebrei in Palestina avrebbe avuto inizio l’avvento della Redenzione. Kalischer pubblicò le sue riflessioni in Cercando Sion (1862) e promosse alcuni acquisti di terreni presso Jaffa pochi anni dopo, ma non riuscì ad andare molto oltre: le sue idee erano considerate blasfeme da molti religiosi, secondo i quali solo il Messia avrebbe potuto realizzare il ritorno nella “Terra promessa”, mentre gli ebrei secolarizzati cercavano l’assimilazione e si sentivano cittadini a pieno titolo del loro paese d’origine. Ciò nonostante, vi furono isolati tentativi da parte di altri precursori del sionismo di mettere in pratica queste idee: nel 1839-40, quando la Palestina era ancora sotto occupazione egiziana, il filantropo Moses Montefiore avviò infruttuose trattative con Mehmet Ali per ottenere l’autorizzazione ad un insediamento ebraico. Negli stessi anni, dell’idea del “ritorno a Sion” degli ebrei si erano fatti portatori alcuni intellettuali e politici inglesi, in particolare Henry Palmerston, Benjamin Disraeli e Lord Shaftesbury: fu quest’ultimo a inventare nel 1854 il celebre slogan “un popolo senza terra per una terra senza popolo”.
Un approfondimento delle riflessioni precedenti si ebbe con il tedesco Moses Hess (1812-1875), ex collaboratore di Karl Marx, che nel pamphlet Roma e Gerusalemme: l’ultima questione nazionale (1862) articolò in maniera più compiuta le basi teoriche del sionismo. Secondo Hess l’antisemitismo avrebbe impedito agli ebrei di inserirsi a pieno titolo nelle società europee, pertanto sperare nell’assimilazione era inutile e illusorio; al contrario, quella ebraica andava affrontata come una questione nazionale irrisolta, la cui unica soluzione consisteva pertanto nella costituzione di uno Stato ebraico nel cuore del Medio Oriente, dove tutti gli ebrei avrebbero potuto trovare rifugio dai loro persecutori e, attraverso il lavoro agricolo, si sarebbero “redenti” diventando una nazione come tutte le altre. Tale Stato, argomentava Hess, sarebbe stato utile alle potenze europee, di cui avrebbe favorito gli interessi, e avrebbe contribuito alla diffusione della “civiltà” occidentale nel “barbaro” Oriente[3].
Hess partiva dunque dal presupposto che gli ebrei di tutto il mondo costituissero una “nazione”. Tuttavia, questa affermazione era ed è alquanto problematica: l’ebraismo è una religione, non una nazionalità, se con questo temine si intende il collante linguistico-culturale di una comunità[4]. Quest’ultima definizione era probabilmente applicabile alle comunità ebraiche ashkenazite della Russia zarista, che effettivamente condividevano una cultura ed una lingua comuni (quella yiddish), e alle comunità ebraiche sefardite che avevano conservato la lingua e la cultura ladine, ma non coincideva certo con la realtà degli altri israeliti della diaspora. Altrove gli ebrei condividevano in genere le lingue e le culture dei paesi in cui vivevano e  molti di loro da questo punto di vista erano completamente assimilati. Gran parte degli ebrei del mondo oltretutto non erano (e non sono) in effetti i discendenti della popolazione dispersa da Tito dopo la conquista romana di Gerusalemme nel 70 d.C.: l’ebraismo si era infatti diffuso come religione nel sude della penisola arabica, per cui gli ebrei di quelle regioni erano in realtà arabi di religione ebraica[5]. Lo stesso era avvenuto in Etiopia sudorientale, dove parte della popolazione locale si era convertita all’ebraismo (i cosiddetti falashà), mentre non pochi ebrei dell’Impero Russo e dell’Europa Orientale erano verosimilmente i discendenti dei Khazari, una popolazione di probabile origine indoeuropea che fra il VI e il X secolo aveva creato un impero fra la Crimea e il Caucaso e il cui re, Bulan, si era convertito all’ebraismo insieme a diversi suoi sudditi[6]. Tutt’oggi del resto la popolazione dello Stato di Israele è divisa al suo interno in diverse comunità a seconda dell’origine nazionale. A queste divisioni se ne aggiungevano altre, come quella fra ashkenaziti (gli ebrei originari della Germania, sparsi fra l’Europa centrale e orientale, la Francia e l’Italia), e sefarditi (gli ebrei originari della Spagna e dispersi dopo il 1492 fra l’Impero Ottomano, il Nordafrica, l’Italia, la Provenza e l’Olanda), oltre alla presenza di varie ramificazioni religiose interne all’ebraismo. La stessa definizione di ebreo, in mancanza di una lingua ed una cultura comuni a tutti gli ebrei del mondo, non poteva essere una definizione di tipo nazionale, perlomeno non nel senso che si è detto: secondo gli ortodossi, ebreo è colui/colei che nasce da madre ebrea o chi si converte all’ebraismo; la definizione “laica” di ebreo che oggi dà lo Stato di Israele con la Legge del Ritorno non va molto più in là di quella etnico-religiosa degli ortodossi, visto che  riconosce come ebreo/a “chiunque abbia almeno un ebreo fra i quattro nonni o anche tra i parenti prossimi”[7]. Basare una identità nazionale su questa definizione comportava necessariamente lo sviluppo di un nazionalismo di tipo etnicista.
Che senso poteva avere dunque proporre un nazionalismo sulla base di una definizione identitaria di “ebraicità” sfuggente, a meno che non la si considerasse nel senso etnico-religioso che si è visto? Hess risolveva il problema trasformando le premesse in conclusioni: questa unità culturale, chiaramente perduta, sarebbe stata il frutto del ritorno nella “Terra promessa”, nel cui crogiuolo le varie identità diasporiche si sarebbero fuse in quella del “nuovo ebreo”. Parafrasando la celebre formula di Massimo D’Azeglio per cui fatta l’Italia bisognava fare gli italiani, Hess riteneva che si dovesse prima creare lo stato e poi attraverso questo plasmare il suo popolo per trasformarlo in “nazione”. Incidentalmente, l’idea che una rinascita ebraica potesse avere luogo solo nella “Terra promessa” significava quindi indirettamente negare qualsiasi valore alla Diaspora e a tutta la ricchissima produzione culturale delle varie comunità ebraiche nel mondo, un sottinteso che ritornerà spesso nel pensiero sionista successivo.
 Le basi teoriche del sionismo erano state poste, ma a rafforzarne la diffusione contribuì soprattutto l’antisemitismo russo: nel marzo 1881 venne assassinato lo zar Alessandro II ed elementi antisemiti diffusero la voce che gli zaricidi fossero ebrei, scatenando così una serie di pogrom; in Ucraina i quartieri abitati dagli ebrei furono presi d’assalto da folle inferocite che si dettero indisturbate al saccheggio e al linciaggio, lasciando sul terreno numerose vittime uccise nelle maniere più atroci. Le autorità zariste, lungi dall’intervenire, spesso rimanevano a guardare o addirittura favorivano queste esplosioni di violenza, utilizzando gli ebrei come capri espiatori per le terribili condizioni di vita delle masse popolari russe. L’antisemitismo era talmente diffuso e radicato in Russia che Lenin qualche anno più tardi lo avrebbe definito, con un’espressione calzante, “il socialismo degli imbecilli”.
Dopo questa terribile ondata di violenza, un nuovo giro di vite repressivo si accanì sugli ebrei dell’Impero zarista, colpiti da espulsioni dalle città e ulteriori limitazioni nell’accesso all’istruzione e nella libertà di movimento. Scosso da questi terribili avvenimenti, il medico Leib Pinsker, sulla scia di Hess, scrisse nel 1882 il pamphlet Autoemancipazione: un avvertimento alla sua gente da parte di un ebreo russo. Generalizzando la situazione degli ebrei russi e sostenendo che gli ebrei sarebbero rimasti per sempre degli estranei invisi alla popolazione autoctona non ebraica, Pinsker invitava i suoi correligionari a rifugiarsi in una “Terra promessa” (l’Argentina e la Palestina erano le principali candidate), dove tramite l’acquisto e la colonizzazione della terra avrebbero fatto rinascere la loro nazione. Scrive Benny Morris che secondo Pinsker “l’avversione per gli ebrei non era un irrazionale residuo del medioevo cristiano: era sempre esistito e sempre sarebbe esistito, nella misura in cui la stessa situazione degli ebrei era anormale e innaturale: senza un territorio, essi erano in un certo modo senza sostanza”[8]. In Pinsker quindi una concezione etnico-idealistica della nazione si fondeva con una visione astorica dell’antisemitismo. Quest’ultimo è invece un fenomeno storico con ben precise radici: nel caso dell’antisemitismo russo del XIX secolo si trattava di una forma di odio di classe sublimato, aizzato da una propaganda reazionaria che faceva leva sulle paure ataviche dell’Altro per incanalare verso gli ebrei la rabbia derivante da un’insoddisfazione sociale diffusa, onde evitare che questa prendesse di mira le autorità costituite. La propaganda antiebraica zarista raggiunse il culmine della sua infamia con i famigerati Protocolli dei Savi di Sion, un falso redatto probabilmente da agenti della polizia segreta che avrebbe riscosso nei decenni successivi grande successo negli ambienti antiebraici: in esso si descriveva un presunto “complotto ebraico” (altro topos caro agli antisemiti) mirante all’assoggettamento del mondo intero.
I primi coloni: gli Hovevei Zion
In seguito ai pogrom del 1881, molti ebrei lasciarono la Russia per gli Stati Uniti e i dominions britannici; alcuni sparuti gruppi detti Hovevei Zion («coloro che amano Sion»), di cui Pinsker divenne presto il capofila, cominciarono invece ad organizzarsi e a raccogliere fondi per emigrare in Palestina. Ad uno di questi gruppi, il Bilu (i cui aderenti furono detti  biluim), appartenevano i primi coloni che sbarcarono a Jaffa nel 1882. Nel 1878 un gruppo di ebrei ortodossi gerosolimitani aveva fondato presso Jaffa il primo insediamento ebraico in Palestina dei tempi moderni, Petah Tikvah, che però era stato rapidamente abbandonato. I nuovi arrivati, che inizialmente avevano trovato occupazione come braccianti, lo ricostruirono e fondarono le prime vere e proprie colonie agricole, Gedera e Rishon LeTzion (essendo stata fondata da ebrei autoctoni, Petah Tikvah non può infatti essere considerata una colonia). I biluim si consideravano l’avanguardia che avrebbe costruito sul campo lo Stato e avrebbe dato vita ad un modello di “nuovo ebreo”. Il loro impeto pionieristico fu però insufficiente: la gran parte dei primi coloni, provata dalle durissime condizioni di vita, preferì abbandonare l’impresa e tornarsene in Russia, oppure raggiungere mete meno disagevoli come gli Stati Uniti. Per di più, i biluim non avevano né esperienza di lavoro agricolo né fondi: a permettere la sopravvivenza di questi primi insediamenti fu quindi soprattutto l’aiuto economico del ricchissimo barone Edmond de Rothschild, che inviò denaro ed agronomi esperti. Fra i primi coloni c’era il lituano Eliezer Yitzhak Perelman, che assunse il nome di Ben-Yehuda e che sarebbe stato il “padre” della lingua ebraica moderna, educando suo figlio esclusivamente in ebraico, insegnando l’ebraico nelle scuole e pubblicando un giornale in quella lingua. Ben-Yehuda avrebbe poi nel 1890 creato la Commissione sulla lingua e pubblicato a partire dal 1912 il primo dizionario di ebraico moderno.
Questa prima, esigua ondata migratoria che va dal 1881 al 1903 sarebbe stata definita dagli storici israeliani “Prima ‘Aliyah”(in ebraico «ascesa»: raggiungere la Palestina era considerato un modo di elevarsi spiritualmente), ed i suoi artefici ’olim. Quello dei biluim fu definito “sionismo pratico”, in quanto i suoi esponenti cercarono di realizzare sul campo le loro aspirazioni. I numeri della Prima Aliyah non furono certo impressionanti, visto che in Palestina non arrivarono che poche migliaia di ebrei: certo è che questo improvviso afflusso di immigrati dalla Russia dovette preoccupare le sospettose autorità ottomane, che nel 1882 proibirono agli ebrei di trasferirsi in Palestina. L’ingiunzione ebbe scarso effetto, tanto più che sei anni dopo, dietro pressioni britanniche, Istanbul dovette fare parzialmente marcia indietro; ad ogni modo gli acquisti di terreni continuarono ricorrendo alla corruzione di funzionari, all’uso di prestanome o appellandosi ai privilegi concessi dalle capitolazioni ai cittadini stranieri.
Mentre i biluim si lanciavano nella colonizzazione, a Vienna nel 1883 il giovanissimo Nathan Birnbaum fondò un’associazione studentesca ebraica, Kadimah, e l’anno dopo iniziò le pubblicazioni della rivista Selbstemanzipation(«autoemancipazione» in tedesco). Fu su questa rivista che apparve per la prima volta, nel 1890, il termine “sionismo”.
La svolta politica: Theodor Herzl e “Der Judenstaat”
Fu in questi anni che nacque il sionismo politico, la corrente destinata ad imprimere la svolta decisiva ad un movimento fino ad allora di scarso o nullo rilievo. Nel 1896 fu pubblicato in Austria-Ungheria il pamphlet Der Judenstaat («Lo stato degli ebrei»), scritto dal giornalista Theodor Herzl (1860-1904). Herzl, nato a Budapest, era un intellettuale ebreo laico di idee conservatrici, colto e poliglotta, che lavorava per un giornale austriaco come corrispondente dalla Francia. Qui era stato testimone, rimanendone sconvolto, dell’esplosione di antisemitismo seguita al caso Dreyfus (1895), un ufficiale francese ebreo ingiustamente condannato per spionaggio. L’episodio lo aveva fatto riflettere sulla condizione degli ebrei spingendolo a scrivere Der Judenstaat, che sarebbe diventato nei decenni successivi il testo chiave del sionismo. Sulla scia di Hess e Pinsker, Herzl vi affermava che l’antisemitismo era qualcosa di inestirpabile, perché “la questione ebraica esiste ovunque, là dove vive un considerevole numero di ebrei. Là dove non esiste, viene importata dagli ebrei che vi si trasferiscono”[9]. Giunse quindi alla conclusione che, poiché “i popoli presso cui vivono gli ebrei sono tutti quanti antisemiti”[10], una reale assimilazione degli ebrei non avrebbe potuto aver luogo se non in misura estremamente limitata, tanto più che l’antisemitismo tendeva a crescere proprio laddove  gli ebrei si erano emancipati maggiormente.
Partendo da questi presupposti e dall’idea che quella ebraica fosse una questione nazionale, Herzl sosteneva quindi che l’unica soluzione alla questione fosse la fondazione di uno Stato ebraico dove gli israeliti potessero trovare un sicuro rifugio. Una volta creato tale stato, l’«anomalia ebraica» sarebbe venuta meno: pertanto, profetizzava Herzl, l’antisemitismo avrebbe cessato di esistere “ovunque e subito”[11]. A suo vedere, la creazione di questo Stato sarebbe potuta avvenire solo dopo essersi garantiti il sostegno politico di una qualche potenza all’impresa. Per spingere gli ebrei ad emigrare, poi, si sarebbe potuto sfruttare lo stesso antisemitismo: Herzl sottolineava infatti come gli stessi paesi antisemiti avrebbero avuto tutto da guadagnarci dalla partenza degli ebrei, visto che i capitalisti gentili si sarebbero liberati in un solo colpo sia dei loro concorrenti israeliti sia dei numerosi socialisti di origine ebraica (che egli chiamava “sovversivi”[12]). Come possibili sedi di uno Stato ebraico egli suggeriva l’Argentina, grande e ricca di risorse, o la Palestina; nel caso di quest’ultima, Herzl riteneva che le potenze europee avrebbero avuto ogni interesse ad appoggiare la costruzione in quel paese di tale stato, in quanto questo avrebbe costitutito “un avamposto della cultura contro la barbarie”[13]. Ad occuparsi degli aspetti scientifici e politici dell’impresa sarebbe stata una “Society of Jews”, mentre la colonizzazione vera e propria sarebbe stata messa in atto da una “Jewish Company”, organizzata “secondo il modello delle grandi società coloniali”[14]. I primi coloni ad essere inviati sul posto sarebbero stati elementi provenienti dagli strati sociali più bassi, perché “solo i desperados sono adatti alla conquista”[15], poi via via sarebbero arrivati commercianti, artigiani, professionisti ed infine imprenditori e finanzieri. Da un punto di vista costituzionale, il nuovo stato avrebbe dovuto configurarsi come una repubblica oligarchica (Herzl non credeva nella democrazia, ed era tendenzialmente monarchico).
Da un punto di vista ideologico, evidentemente, Herzl non fece che ripetere ed epitomizzare idee già espresse dai suoi predecessori; la novità del suo contributo fu piuttosto l’aver articolato una dettagliata strategia per la realizzazione del progetto di uno Stato ebraico, strategia imperniata non su utopie ma sulla realpolitik del suo tempo, l’età dei nazionalismi e della grande espansione coloniale europea in Asia e in Africa, di cui il suo progetto si presentava come parte integrante. Teoreticamente, invece, il pamphlet di Herzl era piuttosto debole: la sua visione totalmente astorica dell’antisemitismo, visto come una sorta di ombra che inseguirebbe gli ebrei ovunque vadano, è mistificante, come già quella di Pinsker, e le considerazioni che Herzl faceva su di esso costituiscono una generalizzazione del tutto arbitraria. In alcuni paesi era effettivamente vero che l’ondata antisemita era il frutto almeno in parte della resistenza all’emancipazione degli ebrei, ma i casi della Gran Bretagna e dell’Italia, dove nel XIX secolo tale emancipazione non comportò alcun rigurgito antisemita, impediscono di generalizzare questa osservazione; viceversa il caso della Russia, dove i pogrom non erano certamente il risultato dell’emancipazione, smentiva un rapporto causa-effetto fra la conquista di una piena cittadinanza da parte degli ebrei e la reazione antisemita. Allo stesso tempo, Herzl mostrava una grande ingenuità nel ritenere che la fondazione dello Stato ebraico e il trasferimento in esso di tutti gli ebrei del mondo avrebberod’emblée posto fine all’antisemitismo. Herzl, come Pinsker, riteneva che quella ebraica fosse una questione nazionale irrisolta di un popolo senza stato: un’idea che, come si è visto, risultava invece estremamente problematica; tanto più che, come egli stesso riconosceva, a tenere insieme gli ebrei era stata “solo l’antica fede”[16], mentre per il resto essi condividevano la cultura e la lingua del paese in cui risiedevano. Nella risoluzione di questo nodo Herzl fu alquanto originale: secondo il fondatore del sionismo politico, a definire l’ebraismo come una nazionalità e gli ebrei come un popolo provvedevano paradossalmente proprio gli antisemiti: “siamo un popolo – è il nemico a renderci tale, anche senza che noi lo vogliamo”[17]. Nella sua visione gli ebrei si configuravano quindi non come una comunità linguistico-culturale, ma come una comunità tenuta insieme da un comune nemico. Se l’identità ebraica veniva definita dagli antisemiti, la logica conseguenza era far proprie le premesse dell’antisemitismo: non è un caso quindi che Herzl riproponesse nel suo pamphlet molti stereotipi antiebraici (“noi popolo avido”[18], scrive), né che egli non si ponesse affatto come fine la lotta all’antisemitismo e alle discriminazioni, giacché il sionismo trovava in questi la giustificazione per la propria stessa esistenza. Qualora ci si attenesse alla definizione di “popolo” data da Herzl, alla scomparsa dell’antisemitismo verrebbe paradossalmente meno lo stesso popolo ebraico, un rischio che egli stesso scongiurava affermando che comunque gli ebrei, come gli altri popoli, avrebbero sempre avuto abbastanza nemici.
Il sionismo di Herzl si poneva quindi non in una relazione di antitesi all’antisemitismo ma di complementarità ad esso: in questa prospettiva, l’obiettivo degli antisemiti di liberarsi dagli ebrei veniva a coincidere con quello sionista di far sì che questi si trasferissero in massa nel futuro Stato ebraico. Questa logica, come si vedrà, sarà foriera di sviluppi spesso paradossali nella storia del sionismo.   
Il sionismo politico
Herzl non si limitò a ripetere le idee dei suoi predecessori e ad articolarle in modo politicamente più definito, ma le tradusse in prassi: e così per il 29 agosto 1897 convocò a Basilea il primo Congresso Sionista Mondiale, in cui i delegati convenuti si costituirono in Organizzazione Sionista Mondiale e si accordarono su un programma finalizzato alla creazione tramite una campagna di pressioni politiche sui capi di stato europei di un insediamento di agricoltori, contadini ed artigiani in Palestina “protetto dal diritto pubblico”[19]. Si evitò di parlare pubblicamente di uno Stato ebraico, onde evitare di inimicarsi il sultano ottomano. L’idea iniziale era di chiedere al sultano una “carta” che desse ai coloni ebrei il diritto di insediarvisi, oppure di ottenere il sostegno di una o più grandi potenze europee. Herzl era assolutamente certo che il sionismo avrebbe trionfato, tanto da scrivere nei suoi diari privati che con il Congresso di Basilea era stato fondato lo Stato ebraico, di cui profetizzò la nascita entro al massimo cinquant’anni (curiosamente, sbagliò solo di un anno: Israele sarebbe stato effettivamente fondato 51 anni dopo, nel 1948).
Altri congressi sionisti seguirono, e Herzl ebbe una serie di incontri con i principali capi di stato e i maggiori finanzieri ebrei d’Europa, chiedendo con scarso successo sostegno politico ai primi e finanziario ai secondi. Il kaiser tedesco Guglielmo II – noto antisemita - fu l’unico a manifestare un qualche interesse, ma anch’egli si tirò indietro per non urtare la suscettibilità del sultano ottomano suo alleato, che invece respinse le proposte sioniste. Le cose non andarono meglio con molte comunità ebraiche europee: nonostante all’Organizzazione Sionista aderissero alcuni ricchi notabili, la gran parte degli ebrei nel mondo erano all’epoca lontani dal sionismo, puntando piuttosto all’assimilazione. Non pochi erano poi impegnati nei movimenti rivoluzionari socialisti e nel Bund; soprattutto in Europa orientale la loro condizione di oppressione li rendeva più permeabili alle idee marxiste, e non per caso gran parte dei futuri protagonisti delle rivoluzioni russa e tedesca erano ebrei: si pensi ad Eugen Leviné, Kurt Eisner, Rosa Luxemburg, Karl Liebknecht, Lev Trockij (Leiba Bronstein), Zinov’ev (Grigorij Apfelbaum), Kamenev (Lev Rosenfeld), Béla Kun e tanti altri; non a caso, la propaganda antisocialista si nutriva sovente di triti stereotipi antisemiti. Un certo successo fu tuttavia riscosso da Herzl  fra gli strati sociali più bassi degli ebrei est-europei, alle cui sofferenze egli sembrava poter offrire una soluzione. 
Ormai politicamente alle strette,  Herzl giocò la sua carta finale, rivolgendosi alla Gran Bretagna e ottenendo da quest’ultima, all’epoca impegnata nel rafforzamento del più vasto impero coloniale della storia, la possibilità di insediarsi in Africa orientale, in Uganda. La “proposta ugandese” fu vagliata nei successivi congressi sionisti e dopo infuocati dibattiti, nel corso dei quali Herzl morì (1904), fu infine respinta nel 1905 a favore dell’originario progetto di edificazione dello Stato in Palestina.
A portare linfa vitale al progetto sionista fu nel frattempo una nuova ondata di feroci pogrom antiebraici che scosse l’Impero Russo tra il 1903 e il 1906; gli episodi più gravi ebbero luogo a Kišinëv nel 1903 e ad Odessa nel 1905, e le vittime furono centinaia. In seguito a questi tragici avvenimenti gli ebrei russi formarono i primi gruppi di autodifesa e ci fu un vero e proprio boom di emigrazione diretta verso la Palestina, la cosiddetta Seconda ‘Aliyah (1904-1914). Furono questi i coloni che avrebbero costituito il nocciolo duro del movimento sionista laburista, che avrebbe poi fondato lo Stato di Israele. Fra essi c’era il giovane polacco David Grün, nato nel 1886 a Płonsk, che avrebbe poi cambiato il proprio cognome in Ben-Gurion (in ebraico, «il figlio del leone»).

(1/2 continua)

La Seconda ‘Aliyah, il sionismo laburista e i primi attriti con gli arabi
“Un popolo senza terra per una terra senza popolo”: il movimento sionista aveva riassunto i propri obiettivi riprendendo lo slogan di Lord Shaftesbury. Si è visto tuttavia nel primo capitolo come la Palestina in cui i primi coloni ebrei sbarcavano fosse ben lungi dall’essere un deserto in attesa di redenzione, come è stata spesso presentata: si trattava invece di un paese popolato da più di mezzo milione di arabi, con un’economia centrata sull’agricoltura e il commercio che si stava integrando nel mercato mondiale. Di questo non sembravano essere consci i biluim, ma non ne erano ignari i teorici sionisti. Già nel 1891 Ascher Ginzburg (1856-1927), uno scrittore ebreo russo meglio noto come Ahad Ha’am («uno del popolo» in ebraico), dopo aver visitato il paese scrisse che la Palestina era tutt’altro che disabitata e che ben difficilmente vi si potevano trovare terreni non coltivati: ciò rendeva quella sionista una pericolosa illusione che rischiava di scatenare l’ostilità degli arabi palestinesi. Ginzburg proponeva quindi di abbandonare i propositi di costruzione di uno Stato ebraico in favore di un “sionismo culturalista”, ossia della creazione di un un focolare culturale (e non nazionale) ove far rinascere la lingua e la cultura ebraica, soluzione questa che avrebbe permesso loro di non entrare in urto con la popolazione locale. Osservazioni simili furono fatte dall’ebreo palestinese Yitzhak Epstein (1862-1943), secondo il quale l’Organizzazione Sionista non aveva tenuto conto del fatto che la Palestina era già abitata dagli arabi: di conseguenza, bisognava smettere di accaparrarsi le terre e scacciarne i contadini arabi e cercare invece un modus vivendi con la popolazione autoctona. Nissim Malul, un altro ebreo palestinese, arrivò addirittura a sostenere la necessità per i sionisti di assimilarsi con la popolazione locale, dando vita ad una sorta di nazionalismo pansemita. Altri ancora proposero infine di lasciar perdere la Palestina e cercarsi un altro paese che non fosse già abitato. Gli appelli di Ginzburg, Epstein e Malul non furono raccolti, ma le loro idee avrebbero dato frutti alcuni decenni più tardi.
Herzl in realtà non ignorava che la Palestina fosse abitata dagli arabi: semplicemente, considerava gli arabi irrilevanti, così come i conquistatori europei dell’Africa vedevano quel continente come un vasto territorio disabitato; tale atteggiamento evidenziava chiaramente il suo debito nei confronti dell’apparato ideologico del colonialismo, di cui peraltro lo stesso Herzl era ben cosciente[20]. Nel 1899 peraltro il notabile palestinese Yusuf Diya al-Khalidi aveva scritto al rabbino di Francia Zadok Khan (che aveva girato la lettera al fondatore del sionismo politico) manifestando la sua preoccupazione riguardo alle attività sioniste in Palestina e consigliando di fermare la colonizzazione;  al-Khalidi profetizzò che il tentativo di impadronirsi del paese da parte degli ebrei avrebbe potuto condurre alla guerra con gli arabi. Herzl aveva risposto rassicurandolo sul fatto che non era sua intenzione spossessare gli arabi e che la colonizzazione avrebbe arrecato loro solo vantaggi, una posizione che in seguito sarebbe stata ripetuta dai sionisti in tutti i contesti pubblici. In realtà, Herzl era ben conscio del fatto che creare uno Stato ebraico in Palestina avrebbe avuto come corollario lo spossessamento degli arabi che vi vivevano: nei suoi diari scriveva infatti esplicitamente che bisognava “espropriare con gentilezza […] indurre  chi è privo di mezzi a passare la frontiera procurandogli un impiego nei paesi limitrofi, [...] evitando nel contempo di dargliene nel nostro”, il tutto “con prudenza e discrezione”[21]. Al-Khalidi del resto non parlava sulla base di ipotesi, ma rifletteva su ciò che aveva visto: al loro arrivo in Palestina, i coloni si erano inseriti come un altro potente attore nel già fiorente mercato delle terre, accelerando il processo già ivi esistente di espulsione dei fittavoli o di loro riduzione a braccianti salariati. Del resto, la strategia per procedere a quella che i sionisti chiamavano assai eloquentemente la “conquista della terra” era stata sintetizzata da uno dei leaders degli Hovevei Zion, Menahem Ussiškin: “La terra si ottiene […] in tre modi: con la forza […] rubandola al legittimo proprietario; […] con l’esproprio basato sull’autorità di un governo; o tramite una compravendita”[22]. Non potendo mettere in atto i primi due sistemi, i sionisti ricorsero al terzo. I primi acquisti di terre furono effettuati grazie al sostegno di Rothschild e di altri magnati e filantropi, ma nel 1900 Rothschild ritirò il suo sostegno perché le colonie non facevano profitti. Poiché la colonizzazione basata sull’iniziativa privata non funzionava, nel 1901 l’Organizzazione Sionista creò il Fondo Nazionale Ebraico, un ente il cui fine era raccogliere denaro per investirlo nell’acquisto di terre su vasta scala in Palestina, terre che poi sarebbero state date in gestione ai coloni. I sionisti acquistarono terreni soprattutto lungo la costa mediterranea, nella valle del Giordano e in quella di Yezreel, in misura minore in Galilea. I grandi proprietari assenteisti che risiedevano a Beirut o le famiglie di notabili palestinesi erano ben contenti di vendere, tanto più che l’accresciuta domanda portò ad un rapido incremento dei prezzi; una volta acquistati i terreni, i coloni vi si insediavano e ne sfrattavano i fittavoli arabi, che erano costretti a trasformarsi in proletariato agricolo al servizio dei coloni o ad emigrare nelle città, incrementando il trend avviatosi dalla metà del secolo. A complicare questo processo c’era poi la mentalità dei coloni: essi erano degli europei che si trasferivano in quello che consideravano un «Oriente» barbaro e arretrato, e portavano con sé tutti i pregiudizi diffusi all’epoca in un’Europa che era all’apice delle proprie conquiste coloniali[23]. Il rapporto tra coloni ebrei e palestinesi arabi si configurava come una tipica relazione tra colonizzatori e colonizzati, con i primi che consideravano i secondi meri fornitori di manodopera a basso costo, infidi, stupidi, sottosviluppati, sporchi, o per dirla con le espressioni usate da alcuni biluim “gente in via di degenerazione”[24], “razza […] ipocrita e falsa”[25] “gente semiselvaggia, le cui idee sono estremamente primitive”[26]. Finanche quando il disprezzo nei confronti degli arabi era meno accentuato, l’atteggiamento che  prevaleva era comunque quello di un bonario paternalismo, anch’esso tipicamente coloniale: “anime di bambini in corpi di adulti”[27], li definì al primo impatto David Grün, futuro Ben-Gurion. Un rapporto di questo tipo non poteva che indispettire ulteriormente gli arabi che entravano in contatto con gli ‘olim, che infatti ai loro occhi erano degli stranieri occidentali venuti a strappargli la loro terra e ingiustamente favoriti dai privilegi concessi loro dalle capitolazioni. Commenta Ilan Pappé che il sionismo, partito come movimento europeo di liberazione nazionale “si trasformò in un movimento colonialista nel momento in cui i suoi leaders decisero di realizzare la loro idea di rinascita nazionale in Palestina”[28].
Non troppo dissimile da quello con gli arabi era il rapporto con il millet ebraico di Palestina: gli ebrei palestinesi, che erano in maggioranza ortodossi e fedeli alle autorità ottomane, specie dopo l’ondata di prosperità seguita alle riforme dei Tanzimat, vedevano i coloni come dei miscredenti moralmente degradati che con la loro attività rischiavano di metterli in urto con Istanbul, mentre i nuovi arrivati a loro volta consideravano gli ebrei orientali dei bigotti sottosviluppati. I coloni erano ashkenaziti, gli ebrei autoctoni sefarditi: le frizioni politiche fra i due gruppi assunsero quindi all’epoca la forma di dispute fra rabbini sul diritto religioso. Nonostante ciò, i coloni nelle statistiche consideravano se stessi e gli ebrei autoctoni come un’unica comunità, che battezzarono Yishuv («insediamento» in ebraico).
Nel giro di pochi anni in Palestina sorsero decine di colonie ebraiche: i coloni, dopo aver acquistato un terreno, vi si insediavano costruendovi delle spartane abitazioni e dividendosi i lotti. Questo tipo di insediamenti, basati sulla proprietà privata, si chiamavano moshavot (al singolare moshavah), erano di solito composti da piccoli proprietari e solitamente sorgevano nelle vicinanze di un villaggio arabo. Non di rado capitava che  sui terreni vivessero dei fittavoli, che venivano sfrattati per fare posto ai nuovi arrivati o diventavano braccianti al servizio dell’insediamento. Spesso succedeva che i fellahin espulsi tentassero di tornare e venissero respinti dai coloni; gli sfrattati si vendicavano allora con piccoli furti o aggressioni, occasionalmente con saccheggi. Peraltro i coloni, proveniendo dall’esperienza dei pogrom russi, erano ben decisi a lasciarsi alle spalle quella che consideravano la passività tipica dell’ebreo diasporico[29], cosicché spesso assumevano un atteggiamento apertamente aggressivo e sprezzante verso gli arabi, tanto che a volte gli attriti con i fellahin si concludevano con la morte di un colono o di un bracciante arabo. Questa attitudine fu stigmatizzata ancora una volta da Ascher Ginzburg, secondo il quale gli ‘olim mostravano una certa “tendenza al dispotismo, come suole accadere ogni volta che il servo diventa padrone”[30]. Ginzburg era stato personalmente testimone del fatto che i braccianti arabi che lavoravano per gli ebrei venivano spesso picchiati senza ragione, al punto che la colonia di Rehovot dovette ufficialmente proibire di ricorrere alla violenza nei rapporti con i dipendenti arabi. Le tensioni erano ulteriormente aggravate dal fatto che alcuni coloni prestavano denaro a interesse ai fellahin e dalla totale mancanza di conoscenza delle rispettive usanze da parte di entrambi, nonostante già i biluim avessero insistito fin dall’inizio sulla necessità di apprendere la lingua e i costumi locali. D’altro canto, le colonie ebraiche erano spesso totalmente dipendenti dai villaggi arabi circostanti per gli approvvigionamenti di acqua e alimenti e per la manodopera, tanto che a volte intere famiglie di stagionali arabi arrivavano anche da villaggi più lontani per lavorare al raccolto negli insediamenti. Gli arabi conoscevano molto meglio il terreno, erano più abituati ai lavori pesanti, avevano esperienza come agricoltori e soprattutto chiedevano salari più bassi, per cui i proprietari ebrei preferivano assumerli al posto dei loro correligionari. Utilizzando le categorie degli studiosi del colonialismo D.K. Fieldhouse e George Fredrickson, il sociologo Gershon Shafir ha definito questo tipo di insediamento una “colonia di insediamento etnico”[31](«ethnic plantation colony»), ossia un modello di colonizzazione basato sul controllo della terra da parte dei coloni europei e sull’utilizzo di manodopera locale. Sebbene i sionisti della Prima ‘Aliyah mirassero in teoria ad una colonizzazione ebraica di massa e all’utilizzo esclusivo di manodopera ebraica (come suggerito sia da Herzl che da Ussiškin), gli insuccessi economici dei primi insediamenti e il conseguente ricorso agli aiuti economici del magnate Rothschild  fecero sì che per il momento a prevalere fosse questo tipo di modello. Non tutti i nuovi arrivati comunque si stabilivano nelle colonie: diverse migliaia preferirono insediarsi a Jaffa e Haifa e dedicarsi ad attività commerciali; alcuni fra loro fondarono la prima banca autoctona palestinese, la Anglo-Palestine Bank.   
Rispetto alla Prima, la Seconda ‘Aliyah (1904-1914) portò ad una svolta radicale: anzitutto i coloni di questa nuova ondata migratoria erano numericamente più cospicui; in secondo luogo, essi erano ideologicamente molto più determinati dei loro predecessori: anch’essi intendevano incarnare il mito del “nuovo ebreo”, ma si consideravano per la maggior parte socialisti e nazionalisti allo stesso tempo. Curiosamente questi nuovi ‘olim, se da un lato nutrivano disprezzo verso i fellahin e gli arabi inurbati, dall’altro veneravano i beduini, che vedevano come coraggiosi guerrieri nomadi del deserto, incarnazione del mito di un arabo “più puro” perché rappresentante di quell’Oriente senza tempo che abitava l’immaginario europeo dell’epoca. Poiché i beduini rappresentavano per loro “una testimonianza vivente su come, verosimilmente, dovessero essere i loro remoti antenati”[32]i coloni li imitavano in tutto, abbigliandosi con la kefiah e apprendendo a cavalcare, marcando così il loro “ritorno” con uno stile di vita legato alla terra e alla natura che li avrebbe “redenti” dal lascito della diaspora, da essi avvertito come un fardello di cui liberarsi. Altro segno evidente di questo azzeramento dell’esperienza diasporica era il cambio di nome: abbandonando quello dell’Esilio e ribattezzandosi con nomi ebraici, i coloni sionisti ridefinivano il proprio sé sulla base dell’acquisizione di una nuova identità personale legata a quella nazionale. Škol’nik diventava allora Levi Eshkol, Perski e Grün  rispettivamente Shimon Peres e David Ben-Gurion, Perelman si trasformava in Eliezer Ben-Yehuda. Il mito della rinascita era strettamente legato a quello del pioniere e al culto del lavoro agricolo, ma in realtà fra gli ‘olim quanti si dedicarono effettivamente al lavoro agricolo furono sempre una minoranza, la maggior parte dei nuovi arrivati preferendo stabilirsi nei centri urbani.
Ideologicamente, i coloni della Seconda ‘Aliyah appartenevano ad un’altra corrente del sionismo, quella laburista. Questa corrente si sviluppò nei primi due decenni del XX secolo ed i suoi principali teorici erano Ber Borochov (1881-1917) e Aaron David Gordon (1856-1922). Il sionismo laburista, nonostante l’apparente debito verso il movimento operaio, aveva origini nettamente diverse. Zeev Sternhell (2002) ne ha indagato la genealogia ideologica, ritrovandovi piuttosto una matrice comune con il cosiddetto socialismo nazionalista, sviluppatosi in Europa a cavallo fra il XIX e il XX secolo da una mistura “fra le tendenze antimarxiste e antiriformiste presenti nel socialismo e […] [il] nazionalismo etnico, culturale e religioso”[33]. Il punto nodale di questa corrente stava nella “accettazione del principio del primato della nazione, al cui servizio vengono posti i valori del socialismo”[34] e conseguentemente nell’auspicare l’unione tra le classi sociali per il bene della nazione, vista come un  corpus organicamente e culturalmente unitario. Per il socialismo nazionalista “l’unica reale distinzione sociale intercorre fra il lavoratore e colui che non lavora, vale a dire «il parassita»”[35], donde un vero e proprio culto per il lavoro manuale, mentre la solidarietà nazionale alla sua base implicava il rifiuto del lavoro agli stranieri[36]. Come è evidente, si tratta dello stesso bacino di idee cui più tardi avrebbero attinto i vari fascismi europei. Sternhell ha indicato come uno dei più compiuti esempi di socialismo nazionalista il nazionalismo italiano di Enrico Corradini, con il suo concetto di “nazione proletaria”[37].
Idee simili a quelle del socialismo nazionalista si ritrovano solo parzialmente in Borochov, mentre sono molto presenti nel pensiero di Gordon. Borochov era un ebreo russo che nel 1905 aveva fondato il primo partito socialista sionista, il Po’ale-Tzion(«operai di Sion» in ebraico); egli aveva cercato di fondere marxismo e sionismo, adoperando concetti marxiani per trovare un fondamento materialista al nazionalismo ebraico. La riflessione di Borochov non nasceva come reazione all’antisemitismo: lo preoccupava piuttosto il fatto che lo status particolare degli ebrei avesse impedito loro lo sviluppo in classi antagoniste. La rivoluzione socialista non avrebbe posto rimedio all’antisemitismo, che anch’egli vedeva come un fenomeno impossibile da sradicare e che avrebbe per sempre sbarrato la strada all’assimilazione; di conseguenza, gli ebrei dovevano impadronirsi di un territorio e fondarvi uno stato, se volevano salvarsi e svilupparsi come tutti gli altri popoli. Per Borochov, la costruzione dello Stato ebraico avrebbe avuto luogo tramite la lotta di classe e sarebbe stata guidata dal proletariato. Sostanzialmente Borochov arrivava alle stesse conclusioni degli altri pensatori sionisti, differenziandosene solo per la terminologia marxista: di fatto il suo tentativo di sintesi tra socialismo e nazionalismo finì per essere profondamente sbilanciato a favore del secondo, cui il primo veniva comunque subordinato[38]. Del Po’ale-Tzion entrò a far parte anche Ben-Gurion, che era invece portatore di una linea fortemente nazionalista. Aaron David Gordon era invece l’ideologo di Ha-Po’el Ha-Tza’ir, («Federazione dei giovani operai di Erez-Yisrael») un partito nazionalista ebraico nato nel 1905, che fu l’altro pilastro della seconda ‘Aliyah. A differenza di Borochov, Gordon era visceralmente antimarxista e le sue idee si inserivano perfettamente nel solco del socialismo nazionalista: egli vedeva l’umanità come un’insieme di nazioni, e la nazione come un organismo vivente strettamente legato al proprio suolo, da cui l’esistenza del singolo era totalmente dipendente; di conseguenza la diaspora era una stortura da rimediare, una condizione innaturale che avrebbe necessariamente distrutto la nazione ebraica. Il ritorno nella sua terra d’origine era quindi per lui una condizione necessaria ed indispensabile per la rinascita del popolo ebraico. Diversamente da Herzl, egli non pensava che fosse l’antisemitismo a costituire la principale minaccia; data la sua concezione della nazione come corpo organico, egli vedeva piuttosto il vero nemico degli ebrei in quanto popolo nell’assimilazione. Gordon fu profondamente influenzato dal pensiero romantico di Herder e dal nazionalismo slavo e considerava la religione ebraica lo “spirito nazionale”[39] (Volkgeist) degli ebrei. Riguardo agli arabi, Gordon riconosceva anche i loro diritti sulla Palestina, ed inizialmente sosteneva che ad acquisire il paese sarebbe stato chi lo avrebbe riscattato col proprio lavoro; in seguito però, considerando la Bibbia come un vero e proprio atto di proprietà, scrisse che le rivendicazioni ebraiche sulla Palestina erano storicamente più importanti. Il “ritorno a Sion” avrebbe permesso secondo Gordon la nascita di un nuovo tipo di ebreo, eliminando quello che egli chiamava il “parassitismo” della diaspora; il suo rigetto di quest’ultima era tale da condurlo a fare propri molti topoi antisemiti, come Herzl: “siamo un popolo parassita. Non abbiamo radici nella terra; [...] siamo parassiti non solo in senso economico, ma anche nello spirito, [...] siamo dunque nulla anche agli occhi degli altri popoli.”[40]. L’esule al suo ritorno si sarebbe invece trasformato in un colono agricolo e avrebbe vissuto in simbiosi con la terra e con i suoi compagni di lavoro in un’ideale microcomunità che rispecchiasse la macrocomunità costituita dalla nazione. In questo ritorno alla terra e alla comunità Gordon esprimeva il suo rifiuto della modernità, che egli vedeva incarnata nel razionalismo, nel capitalismo e nel socialismo e a cui contrapponeva il suo nazionalismo nutrito di irrazionalismo e vitalismo. Come riassume Zeev Sternhell, “il lavoro manuale rappresentava per Gordon la soluzione di tutti i problemi dell’umanità e della società”[41]. Pur partendo da presupposti opposti, quindi,  Borochov e Gordon avevano in comune l’idea per cui i lavoratori dovevano essere il motore dell’impresa sionista.
I militanti di Ha-Po’el Ha-Tza’ir e del Po’ale-Tzion lanciarono quindi la campagna per la “conquista del lavoro” (kibbush ha-‘avodah): la colonizzazione non avrebbe mai potuto tradursi nell’edificazione dello Stato ebraico se le colonie impiegavano manodopera araba, pertanto gli imprenditori dovevano dare prova di patriottismo e assumere lavoratori ebrei. Il fatto che questi ultimi fossero meno abili e più costosi rendeva però tale provvedimento antieconomico, nonostante le proteste della base sionista. La soluzione fu trovata allora con la creazione di insediamenti collettivi, i celeberrimi kibbutzim e moshavim, dove non sarebbe esistita circolazione monetaria, la vita sarebbe stata in comune e i lavoratori non avrebbero avuto padroni. Il Fondo Nazionale Ebraico sostenne questa strategia a partire dal 1908, per impulso di Arthur Ruppin (che si era ispirato alla strategia già sperimentata da Bismarck di “germanizzazione” dei territori prussiani), e cominciò a dare i terreni acquisiti in gestione a delle cooperative agricole. Un anno dopo fu fondato in Galilea Degania, il primo kibbutz. I kibbutzim sarebbero diventati la bandiera del sionismo laburista, esempi propagandisticamente efficacissimi di presunta realizzazione dell’utopia di una comunità di eguali; di fatto, però, quello del socialismo sionista era “soprattutto un mito capace di mobilitare”[42]: l’elemento utopico era certamente presente nell’immaginario di alcuni dei coloni che vi andavano a vivere (anche se non di tutti, visto che a Degania c’erano anche militanti nazionalisti di Ha-Po’el Ha-Tza’ir e lo stesso Gordon), ma la realtà era che i kibbutzim erano piuttosto la soluzione ad un problema pratico, giacché seguendo semplicemente le leggi del libero mercato la colonizzazione ebraica della Palestina non avrebbe avuto successo, non avendo i coloni alle loro spalle la forza coercitiva di uno stato come nel colonialismo “classico”; con gli insediamenti collettivi invece i terreni su cui sorgevano i kibbutzim venivano sottratti al mercato e dati in gestione collettiva dal Fondo Nazionale Ebraico agli stessi lavoratori, i quali si mettevano così al riparo dalla concorrenza della manodopera araba. Gershon Shafir sottolinea come il passaggio dalla Prima alla Seconda ‘Aliyah segni lo spostamento da un modello coloniale in cui i colonizzatori possiedono la terra (o la prendono in affitto da un proprietario) sfruttando la manodopera locale ad uno basato sull’esclusione dei nativi, sul modello americano e australiano[43]. Vi furono naturalmente resistenze da parte degli imprenditori ebrei e dei rappresentanti locali dell’Organizzazione Sionista, che motivarono la loro opposizione con la necessità di non inimicarsi gli arabi; i proprietari reagirono facendo arrivare 150 braccianti ebrei yemeniti, facendo salvi i principi della “conquista del lavoro” ebraica e continuando allo stesso tempo a pagare salari “arabi”, ossia più bassi.  Ma la “conquista del lavoro” andò avanti, senza tuttavia avere realmente successo al di là del ristretto mondo dei kibbutzim e dei moshavim (che all’epoca costituivano non più del 6-8% della popolazione ebraica palestinese[44]): se infatti gli arabi finirono per essere esclusi da questi ultimi, essi continuarono ad essere impiegati come manodopera dalle imprese ebraiche che operavano nei centri urbani e nelle colonie dove la terra era posseduta da privati. Un particolare nodo in questa questione fu la difesa degli insediamenti: fino ad allora i coloni l’avevano appaltata a guardie arabe, ma nel 1908 alcuni membri del Po’ale-Tzion fondarono una organizzazione armata che si proponeva di provvedere essa sola alla sicurezza delle colonie, Ha-Shomer («il guardiano» in ebraico). I sorveglianti di Ha-Shomer diventarono a loro volta fonte di ulteriori attriti, sia a causa della loro aggressività sia perché la loro assunzione da parte dei coloni significava il licenziamento per le guardie arabe.
A partire dal 1907, con l’istituzione dell’Ufficio palestinese dell’Organizzazione Sionista, la colonizzazione ebraica del paese cominciò ad essere pianificata in maniera centralizzata, tendendo a diventare più intensiva. Pochi mesi prima presso Jaffa era stata fondata Tel Aviv, che nelle intenzioni dei fondatori avrebbe dovuto essere il contrappeso laico a Gerusalemme. Tel Aviv si sviluppò presto come una vera e propria città con una fiorente economia basata sul commercio e sull’artigianato, attirando molti più immigrati ebrei rispetto alle campagne e trasformandosi nel cuore del movimento sionista in Palestina. La presenza sionista ormai non poteva più essere ignorata dagli arabi palestinesi: se già nel 1891 alcuni notabili più attenti e informati avevano inviato un telegramma al governo di Istanbul chiedendogli di bloccare l’immigrazione ebraica e l’acquisto di terreni da parte dei coloni, questi timori erano cresciuti dopo il Congresso di Basilea del 1897; negli anni successivi le espulsioni di fittavoli, gli occasionali scontri armati, la crescente presenza ebraica nelle città e la campagna per la “conquista del lavoro” avevano fatto suonare il campanello d’allarme fra le personalità dell’a’ayan, tanto più che anche il nazionalismo arabo, nato alla fine del secolo precedente, stava iniziando a prendere piede. Se questo si era inizialmente configurato come nazionalismo panarabo, in Palestina a dargli un particolare impulso era stata la presenza crescente dei coloni sionisti. Nacquero così i primi giornali arabi nazionalisti, e nel 1911 fu inoltrata a Istanbul un’altra petizione di notabili contro la vendita di terreni agli ebrei. Nel frattempo molti cambiamenti avevano avuto luogo nell’Impero Ottomano, e nuovi e maggiori sconvolgimenti erano in arrivo.



[1] Su Samawal ibn Adiyà si veda Gabrieli 1967: 44.
[2] Sugli ebrei come minoranza in Russia, cfr. Atlas narodov Rossii: 149-50.
[3] Sulla questa costruzione ideologica dell’ «barbaro Oriente» opposto al «civile Occidente», non si può che rimandare al fondamentale Said 2003, ancora attualissimo.
[4] Ci rifacciamo qui alla riflessione di Benedict Anderson, che considera la nazione come “an imagined political community” (1983: 6) nella cui costruzione identitaria gioca un ruolo fondamentale la presenza di una lingua comune. Un approfondimento della questione su cosa sia una nazione esula qui dai nostri compiti: data la vastissima bibliografia in materia, ci limitiamo a rimandare a quattro testi che ci sembrano fondamentali: Anderson 1983, Gellner 1983, Hobsbawm –Ranger 1983 e Bhabha 2004.
[5] È ben più probabile, invece, che siano alcuni dei moderni palestinesi ad essere i discendenti degli antichi Ebrei: uno dei tanti paradossi della questione.
[6] Cfr. Gresh 2004: 35; Ovadia 1998: 29-30; Atlas narodov Rossii: 150. Sull’affascinante storia dei Khazari ha scritto diffusamente Arthur Koestler.
[7] Warschawski 2002: 73.
[8] Morris 2001: 29.
[9] Herzl 2003: 23.
[10] Herzl 2003: 34.
[11] Herzl 2003: 100.
[12] Herzl 2003: 38.
[13] Herzl 2003: 43.
[14] Herzl 2003: 45.
[15] Herzl 2003: 99.
[16] Herzl 2003: 49.
[17] Herzl 2003: 39.
[18] Herzl 2003: 69. Questo sprezzo di stampo antisemita Herzl lo riversò anche sulle lingue proprie delle varie culture ebraiche della Diaspora, come lo yiddish e il ladino, che definì “lingue del ghetto […] idiomi atrofizzati e limitati […] lingue di prigionieri che le avevano rubate”, di cui bisognava sbarazzarsi (Herzl 2003: 90). Anche questo rifiuto delle identità diasporiche sarà una costante del sionismo successivo.
[19] Klein 2000: 11.
[20] In una lettera a Cecil Rhodes (conquistatore inglese della Rhodesia), ad esempio, Herzl aveva scritto: “Il mio programma è un programma coloniale” (citazione riportata in Gresh 2004: 43).
[21] Citazione riportata in Morris 2001: 35.
[22] Citazione riportata in Morris 2001: 55.
[23] Cfr. Said 2003.
[24] Citazione riportata in Morris 2001: 61.
[25] Ibidem.
[26] Citazione riportata in Morris 2001: 62.
[27] Citazione riportata in Morris 2001: 63.
[28] Pappé 2004: 35 (nostra traduzione).
[29] I coloni avevano sostanzialmente introiettato gli stereotipi antisemiti secondo i quali l’ebreo era debole, passivo, sottomesso, attaccato al denaro, senza patria, ecc.  Essi vedevano quindi gli ebrei della diaspora attraverso il prisma di questi stessi stereotipi, e per sottolineare la loro “rinascita spirituale” in seguito all’aliyah cercavano di allontanarsene il più possibile: il “nuovo ebreo” avrebbe quindi vissuto del proprio lavoro agricolo, sarebbe stato forte, aggressivo, indipendente, ecc.
[30] Citazione riportata in Morris 2001: 67. Scriveva Ginzburg: “si comportano con gli arabi con cattiveria e insensibilità, li battono senza ritegno né buone ragioni e se ne vantano” (ibidem). E concludeva amaramente: “come ci comporteremo con tutti gli altri se davvero diventeremo i padroni di Erez Yisrael?” (ibidem).
[31] Shafir 1996: 84. Si veda anche Ram 1993.
[32] Morris 2001: 62.
[33] Sternhell  2002: 22.
[34] Sternhell  2002: 23.
[35] Sternhell  2002: 23.
[36] Per un’esauriente trattazione del pensiero di Gordon, cfr. Sternhell  2002: 74-108.
[37] Sternhell  2002: 45.
[38] Su Borochov e sul Po’ale Tzion, cfr. Sternhell  2002: 117-132.
[39] Citazione riportata in Sternhell  2002: 86.
[40] Citazione riportata in Sternhell  2002: 75.
[41] Sternhell  2002: 96.
[42] Sternhell  2002: 39.
[43] Shafir 1996: 84.
[44] Sternhell  2002: 60.



Domenica 04 Gennaio,2009 Ore: 16:33