Approfondimenti
IL VOLTO DI DIO NELL’ISLAM
di Nadir Giuseppe Perin [1]
L’ebraismo, il cristianesimo e l’Islàmismo sono le tre grandi religioni monoteiste per le quali uno solo è Dio. Ma, di quale Dio si tratta? E’ il Dio di Gesù Cristo, cioè il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe. In Abramo sia gli ebrei che i cristiani hanno il “padre della fede. Ma, anche la religione dell’islàm si ricollega ad Abramo. Per l’ortodossia islamica, l’unica rivelazione di Allah “discese” in maniera discontinua e in tempi successivi: prima su Abramo (di cui però non si conosce il libro), poi su Mosè che portò al suo popolo il “Libro” della Torâh, poi su Gesù che portò il Libro del Vangelo (al-Ingil) e predisse l’avvento di Maometto che fu “ il sigillo dei profeti” (33,40). Ci dovrebbe essere, dunque, una concordanza essenziale tra queste rivelazioni, con la conseguenza che il contenuto della rivelazione del Dio Uno, anche se chiamato con nomi diversi, fatta gradualmente, in tempi diversi, a popoli ed a persone diverse come Mosè, i Profeti, Gesù Cristo, Maometto, non può essere contraddittorio dal momento che l’uomo deve seguire i comandamenti di Dio – sia nei suoi rapporti con Lui, che con i propri simili – per attuare nella sua vita e storia personale la volontà di Dio. La strada maestra da seguire, nel suo rapporto con Dio e con il prossimo, è stata indicata da Dio stesso: è quella dell’amore: “ Ama Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente e ama il prossimo tuo come te stesso”. Gesù diede all’amore verso il prossimo un’unità di misura completamente nuova : “amatevi gli uni e gli altri come io vi ho amato”. E Lui ha amato l’uomo fino al punto da dare se stesso in riscatto per tutti. Allora, se si tratta dello stesso Dio, perché unico, è necessario compiere un cammino di conoscenza, fatto di ascolto e di confronto, affinché tra cristiani e non-cristiani si possa realizzare l’incontro. La condivisione, la conoscenza delle ricchezze culturali reciproche, l’impegno sociale, sono gli ambiti adatti per preparare il dialogo interreligioso. Per il cristiano la sua identità è Gesù Cristo, Figlio di Dio, vero Dio e vero uomo, Redentore degli uomini nel quale soltanto, questi possono trovare la salvezza. Anche se, sul piano storico, il cristianesimo è una religione al pari di tutte le altre che sono apparse nella storia, tuttavia, sul piano della verità religiosa, quindi qualitativamente, è la religione, perché è l’auto comunicazione di Dio, Verità infinita e Vita eterna, che si è compiuta nella persona di Gesù Cristo. Dal momento, poi, che il cristianesimo è la religione di Gesù Cristo, il Dio fatto uomo, esso si dichiara la religione assoluta e vera, senza con questo negare che anche nelle altre religioni ci sono delle autentiche verità religiose e vero spirito religioso, perché tali verità sono “semi del Verbo” e tale spirito è frutto dell’azione di Dio che opera la salvezza degli uomini in tutte le condizioni e situazioni sociali, morali e religiose in cui questi si trovano. Non è opera umana, ma opera divina; non viene dal basso, cioè dall’uomo, ma scende dall’alto, da Dio. Esso non nega, né annulla le altre religioni, ma nella sua cattolicità le completa e le purifica, ne accoglie quello che esse hanno di vero e di santo. Tuttavia, le diversità che caratterizzano ebrei, cristiani, e musulmani non dovrebbero rappresentare un ostacolo, ma dovrebbero essere considerate, invece, come un dono. Infatti, nel Corano che per ogni musulmano è guida e medicina, si legge :
“ O uomini, in verità noi vi abbiamo creato da un maschio e da una femmina ed abbiamo fatto di voi popoli vari e tribù, affinché vi conosceste a vicenda, ma il più nobile fra di voi è colui che teme Dio (49,13). Ad ognuno di voi abbiamo assegnato una regola ed una via, mentre se Dio avesse voluto, avrebbe fatto di voi una comunità unica (5,48)[2]. Come nel cristianesimo, così anche nella religione islamica i due protagonisti della storia, sono Dio e l’uomo. Dal rapporto che esiste tra Dio e l’uomo deriva il vero volto della religione e della morale. La religione ha di mira il sacro e si occupa immediatamente dei rapporti tra l’uomo e Dio, mentre la morale ha di mira il bene e si interessa immediatamente dei rapporti che l’uomo ha con il suo prossimo. Nella religione si tratta di un dialogo tra l’uomo e Dio e nella morale di un dialogo tra gli uomini. In tutti due i casi, tuttavia, si presuppone sempre un dialogo anche con Dio, perché la morale, ad esempio, rappresenta la risposta che l’uomo dà a Dio che è Colui che comanda ed impone la legge. Nell’islam, nonostante le possibili mediazioni rivelative, sul piano della conoscenza diretta di Dio, è scoraggiato ogni entusiasmo e si ribadisce seccamente la distanza tra uomo e Dio. “ Non è dato ad alcun uomo che Dio gli parli se non per rivelazione o dietro un velo o inviando un messaggero che gli riveli, col suo permesso, ciò che vuole. Egli, infatti, è eccelso, saggio!” (42,51). Ci sono tre modi nei quali Dio parla o si rivela all’essere umano:
Il Corano sostiene che né l’occhio, né la mente possono cogliere il mistero o la santità di Dio. Tuttavia, Allah, è all’uomo “più vicino delle arterie, della vena del grande collo o più vicino che la sua stessa aorta” (50,16). Questo versetto esprime l’onniscienza e l’onnipresenza di Dio. La vena giugulare esprime la corrente sanguigna che circola nel corpo ed è veicolo di vita e di coscienza. I musulmani ne danno un’interpretazione molto spirituale: Dio conosce molto meglio di noi la nostra situazione vitale di esistenza interiore. Così, in ogni momento, ci si ricorda che Dio c’è, ma in modo dinamico ed attivo. Il riferimento non è all’essenza divina che è in noi, ma alla vicinanza di Allah, attraverso le sue qualità o attributi, cioè mediante la sua scienza. E’ così che Dio conosce le cose più intime dell’uomo, mediante la sua forza dirompente. Prima ancora di poter conoscere il mistero di Dio, realtà impensabile per un musulmano, è Dio che già ci conosce direttamente. La dottrina della manifestazione diretta di Dio non trova facile accoglienza nella teologia ortodossa dell’islam. Per quanto riguarda la conoscenza di Dio, i mistici islamici hanno come punto di riferimento la sura che parla di Dio come della Luce ( āyat an-nūr) : “Dio è la luce dei cieli e della terra. La sua luce è come quella di una lampada in una nicchia; la lampada è in un vaso di cristallo e il cristallo è come una stella luminosa, e la lampada arde per l’olio di un albero benedetto: di un ulivo né orientale né occidentale, il cui olio per poco non risplende anche se non lo tocca il fuoco. E’ luce su luce, e Dio guida alla sua luce chi egli vuole. Dio propone similitudini agli uomini, perché Dio sa ogni cosa” ( 24,35). Dio è luce del cielo e della terra: chi ha fede tende a questa luce cosmica. Rivestirsi delle qualità divine, corrisponde a rappresentare Dio in mezzo agli uomini: è la missione del musulmano che è chiamato a testimoniare il divino per mezzo della professione di fede, delle opere e del comportamento. La luce divina non è solo il segno di Dio che guida il credente, ma un concetto chiave per inoltrarsi nella conoscenza simbolica di Allah. Si tratta di un movimento intellettivo che permette l’innalzamento dell’anima e la percezione della presenza reale, plastica e spirituale di Dio stesso nell’uomo. D’altronde l’islam fa un uso abbondante di simbolismi,come del resto avviene in ogni esperienza religiosa. L’idea centrale del simbolismo della luce è l’accentuazione della luminosa presenza di Dio che è in tutti e in tutto il creato. L’esperienza di Dio è vista in prossimità diretta con l’azione dell’uomo ed il suo agire nella storia. La luce è sicuramente Dio che guida rettamente il credente, ma pure una conoscenza più vicina di Dio da parte dell’uomo. Per l’islam, la luce (al-Nūr) è l’equivalente di Spirito (al-Rūh) e sta ad indicare il senso di un’illuminazione interiore che esteriore. C’è un richiamo diretto alla possibilità di una conoscenza viva, dinamica, pratica e reale di Dio, attraverso la sua guida. E’ una conoscenza immediata che inizia dalla pratica della fede e si oppone alla luce lunare che, essendo luce riflessa, raffigura la conoscenza razionale e discorsiva. Luce indica anzitutto il mistero stesso della divinità; è il simbolo proprio di Dio che si partecipa o si espande senza alcuna confusione o integrazione ontologica con uomini, cose e natura. Come simbolo, la luce porta in sé il nome sacro di Allah. Il cuore dell’uomo assomiglia ad una lanterna di vetro nella nicchia del corpo; nel cuore si trova una lampada, cioè la coscienza più segreta illuminata dalla luce dello Spirito. Per alcuni mistici, la luce riflessa del vetro irradia nell’aria, all’interno della nicchia. L’aria sta a significare le facoltà carnali, mentre i raggi che l’attraversano ed arrivano alle finestre rappresentano i cinque sensi. Per diffusioni successive, la luce di Dio spande bellezza e purezza sulle facoltà più basse come sulle più alte dell’anima umana[3]. Sul versante di Dio, invece, il suo essere luce ed il suo diffondere luce, rinviano al mistero della sua trascendenza. Non ci sono immagini che reggano il confronto con il mistero intimo di Allah: nessuno gli è pari. Egli è l’eterno e l’ingenerato. Eppure è chiaro che Dio è un essere reale, anche se la sua essenza non è definibile. Se Allah non può essere colto da nessuna forma di conoscenza umana o filosofica, razionale o teologica, letteraria o poetica, è, però, vero che Egli ha un volto che non perisce. “Non invocate alcuna divinità assieme a Dio: non c’è divinità all’infuori di lui ! Ogni cosa perirà, eccetto il suo volto ! A lui spetta il giudizio: a lui sarete ricondotti!” ( 28,88). Dio è l’unica realtà esistente e permanente: il suo volto, il suo essere stesso, la sua personalità durano in eterno senza mai scomparire o cadere nel vuoto. Diversamente, invece, il mondo è transitorio. Nell’islam prevale il concetto di mistero su tutto: ALLAH, l’invisibile, è lui il vero Dio che conosce il visibile e l’invisibile. Non c’è divinità all’infuori di lui; è lui il clemente, il re, il santo, la pace, il fedele, il custode, il potente, il dominatore, il supremo. Anche se Dio è l’invisibile, tuttavia, è visto, soprattutto nella pietà popolare, come una grandezza che opera immanentemente. Spesso ci si lega ad una visione intuitiva o antropomorfa di Dio: Allah appare come un generale tra innumerevoli schiere di angeli e di spiriti che seguono costantemente il suo volere. La verità è che diventa difficile vivere la consapevolezza della presenza personale di Allah dentro la storia dei credenti. Dio si partecipa personalmente nella rivelazione che è la sua stessa parola pronunciata. Ciò è possibile perché egli resta l’altissimo ( 20,114; 23,92) i cui doni non possono essere imitati, né si può arrivare alla sua essenza. E’ nel gioco di questa trascendenza che Allah rimane velato : ”Gli sguardi umani non lo raggiungono, ma egli raggiunge ogni sguardo. Ha sguardo penetrante ed è informato di ogni cosa. Dal vostro Signore avete ricevuto mezzi per vedere; perciò chi vede, vede a proprio vantaggio e chi è cieco lo è a proprio danno. Non sono io il vostro custode!” ( 6,103-104). Pur restando il primo e l’ultimo, l’interiore e l’esteriore (57,3), egli è ovunque sia l’uomo ed ha aperto una accesso alla conoscenza delle sue opere nella creazione, del suo modo di agire nella storia dei popoli e della sua volontà nella rivelazione. “Se Dio vuole far del male ad un popolo, nessuno può ostacolarlo e all’infuori di lui non c’è alcun patrono. E’ lui che vi fa balenare il fulmine, motivo di paura e di speranza; è lui che solleva le nubi gravide di pioggia. Il tuono canta le sue lodi e le cantano gli angeli pieni del suo timore. Egli scagli i fulmini e con essi colpisce chi vuole, mentre gli uomini discutono di Dio: egli è violento nell’ira. Solo lui merita di essere invocato; gli dei che essi invocano, invece di Dio, non li esaudiranno affatto. Sono simili a chi tende le mani verso l’acqua sperando che gli venga in bocca, ma non gli verrà mai. La preghiera dei miscredenti non è che un vano errore. A Dio si prostrano volenti o nolenti tutti quelli che sono nei cieli ed in terra, e si prostrano le loro ombre mattino e sera. E allora domanda ai miscredenti : “Chi è il Signore dei cieli e della terra ?”. Rispondi: “E’Dio!” […] Creatore di tutte le cose è Dio: è lui l’unico, il supremo dominatore” (13,11-16). In questa sura si affermano la realtà e la bellezza del creato, come segno del mistero invisibile di Dio. La creazione ed il cosmo portano i segni di Dio. Tali segni confermano la verità della rivelazione: Allah che ha creato la potenza della natura, la forza stessa delle cose del mondo, è capace di far risorgere i morti. Tutto quello che vive ed esiste è legato esclusivamente alla volontà di Allah! Il credente sa di essere creatura e quindi di appartenere alla creazione, cioè di essere inserito in questo tutto che ha origine dalla volontà divina. Per questo Dio è ovunque presente a sé e all’uomo e non è rappresentabile con immagini o volti. Né sono ammessi nella teologia islamica ortodossa degli antropomorfismi. All’uomo non resta che accettare la volontà imperscrutabile di Dio e della sua libertà assoluta. L’esistenza umana dipende dall’unico vero motore ed attore del cosmo che è Allāh medesimo. L’onnipotente (al-Qahhār) si corrisponde al credente che a lui si sottomette con fiducia illimitata. Un vero musulmano, allora è colui che pratica la vera religione (dīn) dell’islam, cioè è un sottomesso[4] (muslim) che pratica la sottomissione o l’islam. Al centro della fede musulmana c’è Allah uno, perché non divisibile in parti ed unico, perché Allah non si è fatto alcun figlio e non c’è altro Dio accanto a lui” (23, 91). Il Corano da una parte insiste sull’unicità di Dio, sulla sua trascendenza e sull’imperscrutabilità dei suoi disegni e dall’altra insiste sulla clemenza e misericordia di Allah, come dice il prologo (Fātiha) del Corano stesso. Tuttavia, per il Corano, Allah è sovrano assoluto che perdona chi vuole e punisce chi vuole; decide quello che vuole e può cambiare quello che una volta ha deciso. Perciò l’atteggiamento dell’uomo di fronte a lui è l’Islàm, cioè la sottomissione al “decreto divino” (qadar) e l’abbandono fiducioso ad Allah. Nel Corano non si parla mai, se non in due versi (3,31 e 5,54), dell’amore dell’uomo per Dio che è, invece, il primo comandamento del Vangelo. In realtà, nei confronti di Allah l’uomo è un “servo” (‘abd) e il suo compito è quello di adorarlo, sottomettersi alla sua volontà, rispettare i suoi diritti. E’ inconcepibile, quindi, il rapporto “Padre-figlio” che il cristianesimo professa fra Dio e l’uomo. Un musulmano non potrebbe mai dire “Padre nostro”, perché Dio è troppo alto e l’uomo troppo basso. La parola amore (mahabba) e il verbo corrispondente (habba)[5] riferiti ad un’attività divina in relazione all’uomo, sono usati con molta parsimonia. Il verbo amare, quale atteggiamento dell’uomo nei confronti di Dio è usato nel Corano ancora più raramente ed in modo più restrittivo (5,54; 3, 31; 2,165). Il Dio del Corano non coincide perfettamente con il Dio-Amore della tradizione ebraico cristiana, ma si presenta come un Signore indulgente e benevolo che mette sempre la misericordia davanti all’ira. D’altra parte, il Dio del Corano è autosufficiente, egli si definisce “bastevole a se stesso”, l’immensamente ricco, colui al quale appartiene ciò che è nei cieli e ciò che è sulla terra… che non ha bisogno di nulla, il Degno di lode” (31,26…). Prima che amore, Allah esige obbedienza alla sua legge, esige adorazione, riconoscenza e auto-oblazione. Questo è l’unico scopo della creazione dichiarato nel Corano. L’auto-oblazione dell’uomo a Dio è l’unica garanzia di salvezza (salama), la sua unica possibilità di ambire la pace interiore (salâm) Il Dio dell’islam è persona, non assimilabile al fato o a qualche forza cosmica. Ma, nel descrivere la persona di Dio ci furono i teologi antromorfisti, confortati da alcuni passi coranici (54,55; 23,116) che lo rappresentarono nelle fattezze di un re celeste, più potente e superiore di qualsiasi re terreno, interpretando in maniera letterale quanto affermato dal Corano. Altri teologi di ispirazione razionalista, proposero interpretazioni allegoriche a quanto contenuto nel Corano ove si dice che Dio ha un volto (6,52; 13, 22…) che parla e ascolta ed ha occhi (20, 39; 23,27 …) e mani (36, 83) e sta seduto sul trono. Dio non poteva essere rappresentato in termini umani, né erano lecite le rappresentazioni antropomorfiche di Dio. Per altri, l’uomo di fede sincera deve contentarsi di quanto dice il Corano sulla fisionomia di Dio, “senza chiedersi come” (bilâ kayf). Sentimento di umiltà della ragione umana di fronte al mistero del “volto di Dio”. Dio si autodescrive in termini antropomorfici perché vuole farsi capire da tutti, ma cercare di ridurre il mistero dentro fisionomie umane o astrazioni metafisiche, sarebbe un’indebita intrusione della ragione umana nelle regioni inviolabili di al-Ghayb ( =l’invisibile, cioè il mistero di Dio).
Caratteristiche del Dio coranico.
- Il Dio coranico è “una persona assolutamente libera e le sue azioni sono totalmente arbitrarie: nulla gli si può chiedere, non è tenuto a darne ragione agli uomini”. - Il Dio coranico è un Dio altamente loquace. Per i 114 capitoli (o sure) di cui si compone il Corano, scorre, in apparente inestricabile disordine, una serie illimitata di ordini, parabole, esortazioni, storie, disposizioni normative di ogni genere, minacce, blandizie, preghiere, raccomandazioni, inni, predizioni… Tutto viene dalla viva voce di Dio che racconta, istruisce, minaccia, esorta ed insegna come gli uomini dovranno pregarlo. Ma, nonostante tutto, alla fine, questo loquacissimo Dio non ha detto che poche cose di se stesso e in modo casuale e frammentario. Quando Dio parla di sé, elenca i suoi nomi ed attributi (59, 22-24). La sura fondamentale è quella in cui Dio, rivolgendosi a Maometto in tono perentorio dice: “ Dì: Egli , Dio, è uno/ Dio l’Eterno/ non generò né fu generato/ e nessuno gli è pari” (112). E’ la formulazione classica del monoteismo islamico. L’avversario polemico di questi versetti era il politeismo dei concittadini della Mecca che a fatica erano arrivati a distinguere in Allah un Dio superiore a tutti gli altri del loro pantheon e lo facevano padre di tre veneratissime dee (Allât, ‘Uzzà, Manât), ossia Dio “generante” con tanto di prole. La formulazione canonica, invece, della fede monoteista islamica è: “Non v’è altro Dio che il-Dio (Al-lâh”). - Il Dio coranico è un Dio creatore. Egli crea , distrugge e ricrea il mondo ad ogni istante, attimo dopo attimo e nulla sfugge alla sua volontà ed onnipotenza, fin dal primo momento della creazione. La stessa risurrezione finale è presentata nel Corano come una “seconda creazione”. (35, 1; 35, 16) . Sotto l’azione propulsiva di Dio il creato appare come appiattito, cioè i valori creati, visti dalla prospettiva divina, non sembrano presentare grandi differenze: la sfera umana e quella non-umana sembrano poste sullo stesso piano. Tutto dipende dalla “divina propulsione”, per cui in natura non si danno leggi fisiche, ma al più “divine consuetudini”. “Non cade foglia che Dio non voglia” (6,59). Il Dio coranico richiamerà a sé tutte le sue creature, dopo averle create. E’ il tema del ritorno (ruju’) a Dio e che riguarda non solo la creatura umana, ma anche tutto il creato (10,4). - Il Dio coranico è onnipotente, ma straordinariamente attivo ed “interventista”. E’ un Dio diverso dall’immagine cristiana. L’uomo non è “collaboratore di Dio nella creazione. Non ci può essere “alleanza” in senso biblico tra Dio e il suo popolo, perché nella visione coranica Dio semplicemente detta le sue condizioni e l’uomo vi si adegua. Il perché di tanto attivismo e protagonismo di Dio non è dato di sapere (44, 38-39; 21, 16-18). - Il Dio coranico si presenta come il Dio totalmente altro e oltre il mondo creaturale, come entità assolutamente trascendente. Nessuna confusione è possibile tra Dio, così concepito e le sue creature. - Allah è un Dio padrone piuttosto che un Dio padre. Lo schema che rende la situazione del rapporto tra il Dio coranico e gli uomini non è quello parentale (padre/figli), bensì quello proprietario (signore/sudditi o padrone/servi). Dio è essenzialmente rabb (principe, signore) mentre l’uomo è essenzialmente ‘abd (servo, schiavo). La dimensione filiale tra il Dio del Corano e l’umanità è semplicemente ignorata. Nella tradizione, invece, compaiono delle similitudini che paragonano l’azione di Allah a quella di una madre tenera e sollecita con i suoi figli[6]. Ma si fanno solo dei paragoni, perché non si trova mai un esempio in cui ci si rivolge ad Allah con appellativi di tipo parentale. Allah è padrone e signore che ha a cuore la felicità e il bene dei propri servi, che sa punire, ma che spesso è anche clemente e misericordioso. Il premio finale verrà dato a chi ha saputo obbedire, servire e sottomettersi a Dio senza riserve, così come fa lo schiavo migliore con il suo padrone. Essere un eccellente “servo di Dio” ( ‘abd Allâh) è la massima dignità a cui l’uomo può aspirare nella concezione islamica. Non figli, ma servi. “Vieni, o anima tranquilla / ritorna al tuo Signore, piacente e piaciuta / ed entra tra i miei servi / entra nel mio paradiso” (89, 27-30). - Ma il Dio del Corano ha anche una connotazione “tremenda” che si collega alla dimensione regale di Allah, supposto il vero ed unico capo della comunità dei credenti e che è per eccellenza una comunità teocratica. Dio minaccia i servi impenitenti e riottosi di punizioni immediate e castighi eterni. La minaccia, assieme alla misericordia è uno dei registri preferiti nel lungo monologo di Dio. L’ira di Dio incombe sugli increduli, su coloro che rifiutano i profeti e i messaggeri e si ostinano a non voler vedere i segni (6,147; 6,6). Allah è dispensatore di vita, ma anche di morte “E’ Dio che fa vivere e uccide!” (3, 156…) è violento a punire ( 3, 11; 8, 13 …) è vendicatore possente (5, 95) coi recidivi. - Il Dio del Corano è un signore inarrivabile, ma con la sua onniscienza lui raggiunge ogni singolo individuo. Dio vede dentro i cuori umani, ma non scende dentro di essi, non si confonde in alcun modo con la creatura. Dio sa tutto(onnisciente) perché lui stesso ha decretato ogni cosa e fatto trascrivere tutto su una misteriosa “tavola ben custodita” (lawh al-mahfûz) prima ancora dell’inizio dei tempi. Il linguaggio della conversazione quotidiana del musulmano continua a veicolare espressioni come “se Dio lo vuole” , “grazie a Dio”: · “Inshallah” significa “Se Allah vuole”. Non è una formula retorica, ma una convinzione di vita che corrisponde alla nostra espressione “Se Dio vuole”. · “Bismillah” (= nel nome di Dio”). Con questa frase il fedele dà inizio ad ogni cosa importante: la giornata, il pranzo, un viaggio. · “Baraka allahu fik” (= che Dio ti benedica). Espressione di saluto e di ringraziamento, in un contesto di amicizia. · “Hamdullah” (= lode a Dio) . Espressione comunemente usata per dire che una cosa è buona. Queste frasi sottolineano la completa sottomissione a Dio, del quale il musulmano si sente umile servitore, orgoglioso di essere stato scelto tra coloro che si prostrano davanti a lui. La bestemmia o qualsiasi espressione irriverente nei confronti di Allah è sconosciuta, mentre la pia menzione del nome di Dio o usare uno dei suoi nomi, è un modo di fare, entrato nella lingua parlata e scritta. La menzione del nome di Dio, raccomandata dal Corano e dalla Tradizione, intesa come preghiera supererogatoria della creatura verso il suo signore, può essere fatta in qualsiasi momento sia con formule convenzionali che con espressioni spontanee. La menzione del nome di Dio viene fatta sugli animali da macellare, senza la quale le loro carni non sarebbero lecite. Quando si inizia un lavoro o un viaggio si sente la formula della basala : bism Allâh al-Rahmân al Rahîm (nel nome di Dio clemente e misericordioso). Attraverso questa formula il pio musulmano santifica quello che sta per fare. Quando le cose vanno bene, il musulmano ne attribuisce il merito esclusivo a Dio con la formula: al-hamd lillâh ( = sia lode a Dio). Le previsioni sul futuro sono accompagnate dalla formula dell’in sha’a Allâh ( se Dio lo vorrà, a Dio piacendo). Di fronte a fatti inspiegabili o che sovrastano le forze umane, il musulmano si rimette a Dio con la formula Allah a’lam ( Dio ne sa di più) o si richiama alla sua onnipotenza con la formula : Allâh akbar ( Dio è più grande). Ci sono altre formule : subhân Allâh ( sia Dio esaltato); oppure la formula della professione di fede: lâ ilâh illa Allâh [ non v’è altro Dio che (l’unico) Dio ]. La menzione di Dio diventa uno strumento privilegiato di santificazione dell’agire quotidiano, trasformando gran parte dell’attività umana in preghiera e lode a Dio. Anche i momenti di dolore e di disgrazia attraverso la dhikr (= menzione di Dio) viene accolto con abbandono alla volontà di Dio, convinti che nulla può venire per caso (3, 139-141). Il dolore viene santificato e viene vissuto come momento di “prova” mandato dall’alto. Attraverso la menzione di Dio il musulmano ricorda a se stesso e ad altri il suo stato di creatura in tutto e per tutto dipendente dal suo Creatore, cioè la condizione di sottomesso, di oblato, che intende santificarsi lodando Allah e conformando la condotta ed ogni iniziativa, alla volontà divina. Attraverso la pratica individuale del dhikr, l’etica musulmana che appariva stretta tra le maglie di una legge tendenzialmente onniregolante e “totalitaria”, apre spazi di libertà e di spiritualizzazione del quotidiano. Non si esaurisce nella pura osservanza esteriore dei precetti e divieti, codificati dai dottori della Legge, ma l’etica musulmana recupera il valore pieno dell’intenzione e della coscienza libera che può, se vuole, santificare autonomamente e informalmente ogni istante dell’esistenza. Il Dio in cui crede l’islam è signore e padrone che esige anzitutto obbedienza assoluta e incondizionata ai suoi decreti per quanto gravosi, arbitrari o al limite o in contrasto con le logiche umane. Nel piegarsi ad un precetto così duro, l’islam mostra il suo volto caratteristico di religione della sottomissione completa e incondizionata alla volontà di Dio, di religione della auto-oblazione del servo a Dio. Nel digiuno che la comunità islamica compie nello stesso periodo su tutta la faccia della terra cerca di ritrovare il senso profondo della sua dimensione di servo di Dio, di essere a lui sottomesso senza condizioni. Il digiuno rituale è sentito come una prova straordinaria di obbedienza del servo al suo Signore. Attraverso la temporanea rinuncia dei diritti della carne passa il riconoscimento del proprio stato creaturale e della santa servitù ( ‘ubûdiyya) che lega ciascun credente al suo Dio. Il Dio del Corano è un Dio esigente, ma non fiscale, che pretende obbedienza e purezza di intenti nell’esecuzione dei suoi precetti, ma è anche pronto alla comprensione dal punto di vista pratico. “Iddio non obbliga nessuno a fare cose maggiori delle sue possibilità che gli ha dato” (65,7). “E Noi non imponiamo a nessun’anima che quello che essa può portare” (23,62). Il digiunante sta di fronte ad Allah senza rinunciare alla sua umanità e alle relative debolezze. Si piega a questo duro precetto, non perché Dio abbia bisogno del suo digiuno o dei sacrifici, ma perché esige da lui un atto visibile di sottomissione e di obbedienza, un segno tangibile del suo “essere servo”. Questa sottomissione passa attraverso la temporanea astensione da cibi e piaceri, attraverso la scrupolosa osservanza degli altri precetti (elemosina, preghiera…) ma non comporta mai nella visione islamica, una rinuncia eroica alle cose e al mondo o una mortificazione ascetica come programma di vita. I credenti sono coloro che si sottomettono a Dio e fanno il bene ( 2,111-119); la religione islamica è la religione naturale di Abramo, dei profeti, di Gesù ( 2,131_132; 3,83-84; 22,78; 30,30; 42,13; 44,8) ; è la religione data ai credenti da Dio stesso ( 3,19; 5,3; 6,125), per questo è l’unica, la migliore ( 3,85; 4,125); è la religione universale ( 6,89-90;12,104; 38,87; 68,51-52; 110,1-3) ed il primo musulmano è Maometto (6,14.163); Dio ricompenserà ogni musulmano fedele ( 2,112; 4,69-70; 5,9-10; 7,32); chi rinnega l’islam perirà nel fuoco dell’inferno (4,115); è una religione che non impone oneri gravosi ( 2,185.286; 4,27-28; 5,6: 22.78); è la religione cui spetta il trionfo finale( 13, 41; 24,55; 35,39; 48,27-28; 61, 8-9; 110, 1-3); è il bene più prezioso che bisogna stimare al di sopra di tutto (9,24; 29,8; 31,15; 58,22; 60,3-4); è la religione che considera i credenti tutti i fratelli ( 3,103; 9,11; 49,10).
La fede musulmana sull’esistenza e l’essenza di Dio. Anche nell’islam ci sono i credenti ed i miscredenti, cioè coloro che non riconoscono Allah. Il non riconoscimento di Allah da parte dell’uomo può dipendere da diversi fattori.
In prospettiva escatologica, il metro di misura della tolleranza è rappresentato dalla carità, dalle opere di bene compiute e non dalla fede come culto ed osservanza di precetti. Nel paradiso entreranno i credenti che hanno fatto il bene, e non c’è credente migliore di chi professa la fede nell’unicità di Dio e fa il bene e vive con il cuore puro, sull’esempio di Abramo (4,123-125). Ciò che favorisce il metro della tolleranza è il riconoscimento che la fede è un dono di Dio: nessuno può credere se non con il favore o permesso di Allah ( 10,99-100). Da sottolineare come il Corano rispetti le altre religioni ed affermi il divieto di costringere ad abbracciare l’islam con la forza. E’ un divieto perentorio: “ Non vi sia costrizione nella religione! La retta via ben si distingue dall’errore. Chi rinnega gli idoli e crede in Dio afferra un’impugnatura saldissima che mai si spezza: Dio ascolta e sa ogni cosa!” (2,256). La polemica non è accesa contro i cristiani o gli ebrei (per i quali prevale una certa tolleranza: 3,199; 5,48) o gli altri credenti, ma contro chi non crede in Dio e si è posto come persecutore dei musulmani. Anche se la storia e la prassi di fede testimoniano una certa ostilità nel dialogo di pace in Medio Oriente e nelle zone intercontinentali abitate da gruppi misti di ebrei, cristiani e musulmani, il Corano riconosce una propria dignità ed un motivo d’essere e di esistere alla altre religioni. Nelle norme di condotta con i miscredenti, i musulmani sono tenuti non solo ad allontanarsi, ma pure a non insultare gli idoli che essi invocano accanto a Dio, affinché per ostilità o per ignoranza non abbiano ad insultare Dio ( 6, 108).Qui la tolleranza va oltre le religioni monoteiste, è per ogni forma di culto, anche idolatrico, che in qualche modo richiami al senso del sacro e del divino. Ciò che conta per il musulmano è quello che Dio ha rivelato e non quello che gli uomini desiderano, per cui se Di avesse voluto, avrebbe fatto di ebrei, cristiani e musulmani una sola nazione. Quindi più che avviare controversie, dispute e giudizi, conviene gareggiare nelle opere buone, visto che Dio ha dato ad ognuno una via ( 5,46-49). Ci sono tuttavia delle norme che bisogna osservare con i miscredenti.
La tolleranza verso i credenti di altre religioni e gli adoratori di idoli ( o più semplicemente atei) impone rispetto di due grandi verità rivelate: l’unicità e l’unità di Dio ed il Corano come fonte ultima ed assoluta delle rivelazione. Si tratta di un vero e proprio dialogo che non si riduce ad una pura rassegnazione, ma ad un confronto e ad un operare comune nella carità, nella testimonianza del bene e dei segni della presenza del Signore. C’è nel Corano una giustificazione autentica delle molteplici confessioni religiose, visto che la religione appartiene all’intimo dell’uomo, è parte della sua essenza. Il detto coranico “non vi sia costrizione nella religione!” (2.256) è applicabile non solo a chi, non musulmano e non credente, vive in un contesto ove la fede islamica è radicata ed integralista, ma pure per quanti si professano completamente atei. La tolleranza fa suo il principio dell’antropologia islamica che non va dimenticato: la debolezza umana. L’uomo creato da Dio dall’acqua (25,54) e fatto di argilla, terra e povere ( 6,2; 15,26,28.33;32,7;35,11;37,11;53,32;55,14) pur avendo ricevuto una parte dello Spirito divino (32,9) è sempre ingrato (10,12; 11,9-10; 17,83;41,51) cede facilmente alla tentazione e disobbedisce a Dio (2,35-39;20,120-123) che lo ha voluto come suo vicario sulla terra (2,30). Si tratta di una sorta di debolezza, di decadenza che investe ogni essere umano (4,20) e che lo porta a sentirsi un prevaricatore, un instabile, un avaro ed un timido allo stesso tempo (96,6; 21,37;70,19-20;22-11). L’islam resta la religione naturale a cui nessun uomo può sottrarsi. Ogni bambino nasce, infatti, per la dedizione ad un Dio. L’essenza religiosa dell’uomo si fonda non tanto sulla rivelazione, quanto sul servizio divino, sulla necessità di porre tutta la propria esistenza alla missione di testimoniare Dio con la preghiera, il culto, la prassi di fede, l’impegno etico, politico ed economico. Il concetto teologico dell’unità dell’essenza di Dio si ripercuote sull’uomo e sul mondo, nell’intero cosmo, attraverso il principio di unità del genere umano e dell’intera umanità. Come Dio è unito in se stesso, così gli uomini di ogni cultura, religione, nazionalità, sono uniti con Dio, con il mondo e tra di loro. Il concetto di fratellanza universale è di derivazione teologica, dipende cioè dall’unità assoluta di Dio. C’è una unità universale nell’esistenza che tocca e fa coincidere l’unità di Dio con quella degli uomini e con quella della natura, perché l’origine di tutte e tre le unità è la medesima, cioè Dio stesso, la sua essenza[7]. Quello che aiuta il dialogo interreligioso ed il principio della tolleranza è il bisogno di motivare, sul piano storico e teologico, che solo Dio ha un’essenza assoluta, che solo lui è assoluto e che l’uomo, insieme ad ogni uomo, è solo un ente finito, una realtà relativa che ha un’esistenza accidentale. L’universo è alla presenza di Allah, per cui segni di tale presenza si moltiplicano all’infinito. L’islam è una religione universale perché fondata da quel Dio che si orienta verso ogni individuo, a partire da Adamo, il primo uomo che, consapevolmente, era orientato verso Dio. Ciascun uomo può credere a Dio e donarsi a lui, stare al suo servizio con dedizione continua. Per il Corano, qualsiasi fede, socialmente ed esteticamente feconda in un Dio, garantisce la partecipazione alla soddisfazione di Dio o, in senso cristiano, alla salvezza. Le religioni rivelate hanno un valore salvifico perché sono portatrici di un messaggio divino mediato da un inviato o più profeti. Giuseppe (nadirgiuseppe@interfree.it) [1] Presbitero-sposato: e-mail : nadirgiuseppe@interfree.it] : Dottore in Teologia dogmatica presso l’Università Pontificia dell’Angelicum in Roma, specializzato in Teologia morale presso l’Università Lateranense – Accademia Alfonsiana di teologia Morale. Diplomato presso la Mental Health Division di Toronto in Psychiatric Nursing Assistant; specializzato in scienze psico-pedagogiche presso l’Università di Magistero dell’Aquila. E’ uno studioso di problemi teologici e sociali. Ha già pubblicato con la casa Editrice EDUP (Editrice dell’Università Popolare- Via del Corso 101) di Roma, le seguenti opere : “Aprutium”, ABRUZZO: Storia, Tradizioni di Vittorito ed il canto folkloristico ( Roma 1998); Onora il padre e la madre, l’arte di invecchiare (Roma 1998); Manuale per conoscere l’Islam (Roma 2003); Manuale per conoscere l’Ebraismo (Roma 2004); Uomini senza collare –Sacerdoti senza ministero ( Roma 2005). [2] Le sure, da un punto di vista cronologico sono divise in due grandi gruppi, relativi ai due centri di rivelazione: la Mecca e Medina. La Mecca è il luogo d’origine della missione di Maometto che iniziò verso il 610 d.C. fino all’egira ( o fuga) del 622. Medina raccoglie le sure rivelate negli ultimi dieci anni della sua vita, cioè fino al 632. Le sure del periodo meccano sono divise in tre gruppi in base al periodo cronologico della rivelazione. Ci sono le sure del primo periodo meccano (610-614), circa una ventina. Si tratta di quelle più brevi, con una composizione stilistica molto frenetica e con versetti ritmati. Si occupano soprattutto delle cose misteriose, del giudizio finale, della penitenza, del castigo, dei tormenti dell’inferno e delle delizie del paradiso; è proclamata pure l’unicità e l’unità di Dio. Seguono le sure del secondo periodo meccano (615-616) che insistono sull’ora delle risurrezione e del giudizio, considerata imminenti. Narrano avventure dei profeti antichi e tendono ad accentuare la polemica con i miscredenti. Le sure del terzo meccano (617-620) sviluppano la tematica dell’unità, unicità ed onnipotenza di Dio. Sono utilizzate immagini, iperboli e metafore illuminanti. Ci sono pure riferimenti alla preghiera rituale, alla decima, ai divieti alimentari. Il periodo meccano, nel suo complesso, è inteso come una fase di pace, di tolleranza, soprattutto verso gli Ebrei. Sono attente a questioni di ordine giuridico e rituali. Le sure medinesi sono più aride e prosaiche. Esse vivono di un processo di arabizzazione del messaggio profetico, combinando le tradizioni ed il pensiero su Ismaele. Comunque, al di là della suddivisione in sure e periodi cronologici, i commentatori tendono a dividere la materia del Corano in tre grandi parti: i precetti e norme rituali e legali (ahkām); i racconti edificanti (qisas) inerenti alla vita dei profeti ed ai personaggi biblici e ai profeti della tradizione araba preislamica; gli ammonimenti rivolti ai fedeli e gli inni alla gloria di Dio ( mawā’iz) con evidente influsso biblico. [3]28 Cfr. H. MASSE, Croyances et costumes persanes, II, Paris 1956, p. 530. [4] Muslim è il participio attivo del verbo salama che vuol dire praticare l’islam. La vera religione, dunque, è l’islam o sottomissione a Dio ( 3.19) [5] Il verbo amare riferito a Dio, nel Corano è usato in forma negativa “Dio non ama gli stravaganti” (6,141), “Dio non ama gli iniqui” (42,40) e con una precisa limitazione dell’oggetto . “Dio ama chi fa del bene” (3, 134 e 148); “Dio ama quelli che confidano in lui” (3,159); “Dio ama i giusti” (5, 42); “Dio ama quanti lo temono” (9,7); “Dio ama quelli che combattono sulla sua via” (61,4) [6] I due termini rahmân (Clemente) e rahîm (misericordioso) che sono i due appellativi più ricorrenti di Allah, nel Corano, sono etimologicamente connessi con rahm che significa “utero materno”. [7] Cfr. A.SHARI’ ATI, On the Sociology of islam, Berkeley 1979, pp 80-85.: A. SHARI’ATI, Histoire et destineé, Paris 1982, pp. 109-113. Lunedì, 03 aprile 2006 |