Gayatri Chakravorty Spivak, femminista post-coloniale e studiosa di letteratura comparata, può aiutarci a riflettere su alcune cose che succedono oggi tra lOccidente e il resto del mondo, tra noi e lAltro. Ancora nel suo ultimo libro, Morte di una disciplina, tradotto da Meltemi lanno scorso, Spivak ripropone con forza - come nota Judith Butler - «un contesto radicalmente etico come approccio allo studio dellalterità.» Perché, forse, non ci resta che rifugiarci nelletica se davvero vogliamo tentare di avere un rapporto con lAltra, con lAltro. Indiana per nascita, studi e cittadinanza alla quale non ha mai abdicato; statunitense per residenza, green-card e lavoro poiché a New York, alla Columbia University, insegna, Spivak si potrebbe definire unintellettuale organica al pianeta. E proprio per queste ragioni che Spivak parte sempre dalla divisione internazionale del lavoro e dalla globalizzazione che, con i suoi rapporti di potere tra il primo e il terzo mondo, è incastrata dentro la storia economica, politica e culturale dellimperialismo e del colonialismo. Analizzare gli effetti culturali e sociali che la colonizzazione ha avuto, e continua ad avere, sui paesi e sui soggetti colonizzati è uno degli obiettivi degli studi post-coloniali. Ma, a differenza degli altri intellettuali post-coloniali, per esempio quelli che fanno capo ai Subaltern Studies, lattenzione di Spivak è sempre rivolta al soggetto sessuato al femminile, doppiamente marginalizzato dalleconomia e dalla subordinazione di gender.
Per capire la differenza sessuale allinterno di un mondo globalizzato, Spivak si serve di un vocabolario concettuale e critico quasi sempre di sua invenzione. Nascono così espressioni significative come epistemic violence, la violenza alle forme della conoscenza che limperialismo ha perpetrato - e continua a perpetrare - sui popoli un tempo colonizzati, e in particolare sulle donne. Lepistemic violence è la rottura violenta operata sul sistema di segni, di valori, sulle rappresentazioni del mondo, sulla cultura, sullorganizzazione della vita e della società dei paesi che ieri erano colonie, e che oggi sono, non a caso, il sud del mondo. E grazie allepistemic violence che lo spazio colonizzato è stato brutalmente trasformato in modo tale da poter essere portato allinterno di un mondo costruito dalleurocentrismo. Questo processo attraverso cui lOccidente si è consolidato e costituito in quanto soggetto sovrano dellintero globo riempiendolo del suo modo di conoscere, delle sue rappresentazioni, del suo sistema di valori, Spivak lo chiama worlding of a world. In questo processo, lOccidente ha creato i suoi Altri come oggetti da analizzare, assumendosi così il potere/sapere di rappresentarli e controllarli. Questi Altri, suggerisce Spivak, non sono veramente umani: costruiti come inferiori fin da quando lEuropa conquistò quasi lintero mondo, continuano a esserlo anche oggi perché non sono considerati abbastanza sviluppati o abbastanza civilizzati o abbastanza democratici. Cè un unico soggetto universale e abbastanza perfetto, la norma per lappunto: il maschio bianco; e lOccidente ne è la grande estensione.
E che lAltro continui a essere costruito e rappresentato come un essere inferiore, privo di storia e cultura, al confine tra luomo e la bestia, e con il quale non cè ragione di dialogare perché lunica ragione possibile è lumiliazione o la violenza, non è mai stato così vero. Ce lo hanno detto ancora una volta, casomai ce ne fosse stato bisogno, quegli uomini e quelle donne che abbiamo visto ridere, fumare e alzare il pollice in posizione eretta mentre scattavano foto dellAltro, nudo e al guinzaglio o morto di tortura.
Racconta Spivak a Elisabeth Grosz, in unintervista dell84, di essersi appassionata al pensiero di Derrida dopo aver scoperto che il filosofo francese stava smantellando dallinterno la tradizione filosofica occidentale, il cui eroe era lessere umano universale. «A noi - dice Spivak parlando del sistema educativo britannico-coloniale - insegnavano che se potevamo cominciare ad avvicinarci a quellessere umano universale, allora anche noi saremmo stati umani». Umani e dunque soggetti. Oppure, soggetti e dunque umani. Ma è davvero così? Soggettività e umanesimo vanno davvero insieme anche nella pratica, oltre che nel pensiero occidentale?
In uno scritto del 1985, considerato il suo saggio più famoso, più malinteso, ma anche più citato, Can the Subaltern Speak?, scritto in polemica con il gruppo dei Subaltern Studies ma anche con alcuni intellettuali post-strutturalisti e post-umanisti (Foucault e Deleuze), Spivak mostra come linteressamento degli intellettuali occidentali nei confronti del soggetto coloniale finisca sempre per essere «benevolente»; il loro atteggiamento mentale e il loro punto di vista, alla fine, coincide con la narrazione imperialista perché quel che promette al nativo è la «redenzione». In questo saggio, Spivak si domanda se la donna subalterna può parlare ed essere ascoltata o se cè sempre qualcuno che lo fa al suo posto e che la rappresenta in modo distorto: gli inglesi, nellabolire la pratica indù del sati (1827), si assunsero il compito di parlare per la donna nativa oppressa dal patriarcato locale. In questo modo autolegittimarono se stessi come liberatori e limperialismo come missione civilizzatrice. Gli inglesi attribuirono alla donna subalterna una voce libera e tale da richiedere la propria liberazione alluomo bianco, allimperialismo inglese. Dallaltra parte, e contro la rappresentazione britannica, cera il patriarcato locale, il maschio nativo, che sosteneva che la vedova era ben felice di salire sul rogo col marito cadavere. Per Spivak né luna né laltra versione rappresenta la «vera» voce della donna subalterna; in ambedue i discorsi la sua voce è «ventriloquizzata» e lei scompare dentro questo violento fare avanti e indietro tra tradizione e modernizzazione, tra patriarcato e imperialismo. Ecco che la posizione di soggetto della donna nativa viene costruita dallOccidente e serve solo a rinforzare il prestigio dellintellettuale-interprete-benevolente della funzione subalterna.
Oppure serve a rinforzare i valori laici e nazionalisti della nazione; è quel che è successo in Francia con il velo. Allimprovviso la patria, così affine al patriarcato con i suoi valori militaristi e sessisti, diventa femminista e usa il femminismo contro le altre culture; abbiamo avuto due anni fa il paradosso dellanti-abortista Bush che andava a bombardare lAfghanistan per liberare le donne dal burqa, e oggi abbiamo quello della Francia che libera le musulmane dal velo. Il fatto è che il velo continua ad accendere le fantasie pruriginose del maschio occidentale che non sopporta di essere guardato ma di non potere guardare; solo lui ha diritto a osservare, analizzare, valutare, giudicare. Il suo «imperial I-eye» non deve incontrare barriere: lespressione, che gioca con i suoni, simili in inglese, e che significa tanto lIo quanto locchio imperiale, è della studiosa post-coloniale Mary Louise Pratt; descrive lo sguardo insistente del maschio bianco che «disumanizza, paralizza e uccide», come scriveva, a proposito dellAlgeria, della colonizzazione francese e del velo, Fanon. In Algeria, durante i 130 anni della loro occupazione, i francesi hanno tentato di «svelare» le donne, di rendere i loro corpi disponibili allI-eye occidentale, come mezzo per conquistare culturalmente lintero paese. Ecco che il velo diventa la posta di una battaglia grandiosa tra lOccidente e lAltro, mentre lAltra viene usata come simbolo e terra di conquista, dagli uni e dagli altri. Conquistare lei significa annientare lui. Imporle o vietarle il velo significa ascriverla a un patriarcato o a un altro. Oggi, in epoca di emancipazione femminile - che tuttavia poco o nulla ha a che vedere con la libertà delle donne - si trasforma nel suo contrario-uguale: lei occidentale che porta lui musulmano al guinzaglio; la metafora sessuale, maschil-dominante, è identica.
Ma Spivak critica anche il femminismo internazionale, che continua a mettere al centro lOccidente - o un personaggio occidentale, in questo caso la femminista - che si autocostituisce come soggetto di conoscenza, salvezza, aiuto, proprio perché ha costruito lAltra come oggetto della sua illuminata compassione. Rappresentare lAltra, dallaltra parte del mondo, come una sorella svantaggiata serve a farci sentire soggetti liberati, a rimandarci unimmagine di noi stesse ingrandita. E così che si diventa soggetti, in senso maschile, costruendosi un oggetto, un Altro inferiore. Il femminismo occidentale ha criticato il soggetto sovrano maschile ma poi rischia di fare, con le donne del cosiddetto terzo mondo, esattamente la stessa cosa che hanno fatto gli uomini per 2.500 anni. E continua a porsi domande ossessivamente autocentrate, tipo «cosa posso fare io per loro?»
Se vogliamo evitare di nuocere alle donne del terzo mondo, dobbiamo anche evitare di guardare le cose dal punto di vista di chi, in quanto soggetto, fa le analisi; dobbiamo evitare che il centro sia determinato, definito - come al solito - dalla ricercatrice.
Il soggetto non si può decentrare, sennò non è più soggetto, ma questa centratura va persistentemente criticata e decostruita: «La decostruzione - sostiene Spivak in unintervista con Alfred Arteaga del `93 - non dice che non cè il soggetto, che non cè la verità, che non cè la storia; semplicemente interroga il privilegiare lidentità così che qualcuno è ritenuto possedere la verità. La decostruzione non è lesposizione di un errore. Costantemente e persistentemente guarda al modo in cui la verità è stata prodotta. Ecco perché la decostruzione non dice che il logocentrismo è una patologia. La decostruzione è, tra le altre cose, una critica persistente di ciò che uno non può non volere.» Cosa è che non si può non volere (e che viene dallOccidente)? Per esempio, proprio la soggettività, o il femminismo. Se però non si vuole diventare quel soggetto normativo che è (stato) il maschio bianco, lunica possibilità è una critica persistente al modo in cui ci si mette al centro del discorso.
Essere consapevoli, criticare persistentemente, decostruire: questo è «litinerario» del pensiero di Spivak che, infatti, non crede alle grandi costruzioni teoriche che spiegano tutto e che vogliono essere coerenti nella loro pretesa di raccontare la verità, assoluta e definitiva. Spivak non crede alle master narratives, le narrazioni dei maestri, ma anche dei padroni. Questo non vuol dire che le master narratives vadano demonizzate perché chiunque viene catturato a narrare; dobbiamo accettare limpulso di pensare alle origini e alle finalità, di fare programmi di giustizia sociale, restando però al contempo consapevoli che si tratta di una nostra necessità, non della via verso la verità, o di «una soluzione ai problemi del mondo». Il caveat sulle grandi narrazioni, che rischiano di prendere il sopravvento e apparirci come se fossero vere, vale anche per le parole di cui le narrazioni si servono; Spivak le chiama masterwords, le parole dei maestri ma, di nuovo, anche dei padroni. Parole come «il lavoratore» o «la donna» sono parole a rischio perché spingono a creare, e poi a costruire, grandi narrazioni; e tuttavia, sono parole che non hanno alcun riferimento letterale perché non esistono esempi «veri» del «vero» lavoratore o della «vera» donna, che sono «veramente» pronti a battersi per gli ideali che noi abbiamo costruito e sui quali sono stati mobilitati. Queste considerazioni ci dovrebbero mettere in guardia sulle pretese universali, per esempio del marxismo o del femminismo occidentale, di parlare in nome degli uni e delle altre.
Anche limpegno femminista occidentale col sud del mondo spesso maschera una superiorità condiscendente in nome delle sorelle (costruite e dunque considerate) più svantaggiate. La dobbiamo smettere di sentirci privilegiate e di conseguenza migliori, dice Spivak «situandosi»; mettendo cioè in gioco i suoi numerosi privilegi che vanno dallessere unintellettuale di grande prestigio nellaccademia statunitense, coinvolta nella produzione neocoloniale, all insegnare ai cittadini più garantiti e viziati del mondo, al vivere nella città più opulenta e consumista del globo. Situarsi vuol dire non candidarsi alluniversalità e cioè allessenza, anche se, che una lo riconosca o meno, non si può fare a meno delle universalizzazioni. Il punto è esserne consapevoli, e utilizzare le universalizzazioni piuttosto che ripudiarle: è quel che lei chiama strategic essentialism, anche perché, in un mondo dominato dagli uomini, come si fa a fare analisi e politica femminista se non - rischiando lessenzialismo - «come una donna»?
Anche il privilegio va decostruito, perché non sempre e non necessariamente implica intelligenza, comprensione e possibilità di rapporto. Spesso, anzi, succede esattamente il contrario. Spivak suggerisce di «unlearn ones privilege as ones loss», cioè di disimparare i propri privilegi perché sono una perdita.
Il razzismo - per esempio - si impara, è un punto di vista e un comportamento acquisito che ci impedisce di vedere, capire e comunicare con chi è diverso da noi; attribuiamo allAltra/o degli stereotipi, la/o interpretiamo attraverso dei pregiudizi e, di fatto, chiudiamo la nostra mente, la nostra possibilità di comunicazione, apprendimento, scambio e relazione; ecco che il nostro privilegio - in questo caso quello di appartenere alla «razza» bianca - si trasforma in una impossibilità, in una incapacità. Disimparare il proprio privilegio significa cominciare ad avere «una relazione etica» con lAltra/o. E un modo di pensare, di concepire la propria identità e quella dellAltra differentemente.
Non più lAltra che, dallaltra parte del mondo, ha la funzione di specchio che ingrandisce la nostra immagine, ma la possibilità di comunicare attraverso distanze e differenze impossibili. E un abbraccio, un atto damore allinterno del quale ambedue le persone hanno la possibilità di imparare luna dallaltra.
* DALLINDIA AGLI STATES.
Gayatri Chakravorty Spivak è nata a Calcutta il 24 febbraio 1942 dove si è laureata. Nel 1960 è andata a studiare negli Stati Uniti, alla Cornell University, dove ha preso un master nel 1962 e il PhD nel 1967. Ha insegnato inglese e letteratura comparata in numerose Università, tra cui Stanford, Santa Cruz e la Goethe-Universitat a Francoforte. E Avalon Foundation Professor nelle Humanities alla Columbia University dove insegna dal 1991. Non ha mai voluto prendere la cittadinanza statunitense. Nel 1976 ha tradotto De la Grammatologie di Jacques Derrida firmando una prefazione che lha resa famosa. Ha scritto più di cento saggi, sparsi in volumi collettanei: alcuni di essi sono raccolti nei suoi pochi libri. In Italia, è stato tradotto un solo libro, Morte di una disciplina, da Meltemi nel 2003, mentre il suo saggio Decostruire la storiografia è contenuto in Subaltern Studies, Modernità e (post)colonialismo, edito da ombre corte nel 2002. Tra i suoi testi pubblicati in inglese: In Other Worlds: Essays in Cultural Politics, Methuen, New York, 1987; The Post-Colonial Critic: Interviews, Strategies, Dialogues, ed. Sarah Harasyn, Routledge, New York, 1990; Outside in the Teaching Machine, Routledge, New York, 1993; A Critique of Postcolonial Reason, Harvard University Presse, 1999
Martedì, 22 giugno 2004
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