Con l’occhio del ventriloquo

di AMBRA PIRRI (il manifesto, 16.06.2004)

Dall’abolizione della pratica indù del sati decisa dal colonialismo inglese alla guerra americana di «liberazione» delle donne afghane dal burqa, fino al velo vietato in Francia alle musulmane. La battaglia tra Occidente e resto del mondo nel vocabolario concettuale e critico di Gayatri Chakravorty Spivak*, femminista postcoloniale, intelletuale organica al pianeta


Gayatri Chakravorty Spivak, femminista post-coloniale e studiosa di letteratura comparata, può aiutarci a riflettere su alcune cose che succedono oggi tra l’Occidente e il resto del mondo, tra noi e l’Altro. Ancora nel suo ultimo libro, Morte di una disciplina, tradotto da Meltemi l’anno scorso, Spivak ripropone con forza - come nota Judith Butler - «un contesto radicalmente etico come approccio allo studio dell’alterità.» Perché, forse, non ci resta che rifugiarci nell’etica se davvero vogliamo tentare di avere un rapporto con l’Altra, con l’Altro. Indiana per nascita, studi e cittadinanza alla quale non ha mai abdicato; statunitense per residenza, green-card e lavoro poiché a New York, alla Columbia University, insegna, Spivak si potrebbe definire un’intellettuale organica al pianeta. E’ proprio per queste ragioni che Spivak parte sempre dalla divisione internazionale del lavoro e dalla globalizzazione che, con i suoi rapporti di potere tra il primo e il terzo mondo, è incastrata dentro la storia economica, politica e culturale dell’imperialismo e del colonialismo. Analizzare gli effetti culturali e sociali che la colonizzazione ha avuto, e continua ad avere, sui paesi e sui soggetti colonizzati è uno degli obiettivi degli studi post-coloniali. Ma, a differenza degli altri intellettuali post-coloniali, per esempio quelli che fanno capo ai Subaltern Studies, l’attenzione di Spivak è sempre rivolta al soggetto sessuato al femminile, doppiamente marginalizzato dall’economia e dalla subordinazione di gender.

Per capire la differenza sessuale all’interno di un mondo globalizzato, Spivak si serve di un vocabolario concettuale e critico quasi sempre di sua invenzione. Nascono così espressioni significative come epistemic violence, la violenza alle forme della conoscenza che l’imperialismo ha perpetrato - e continua a perpetrare - sui popoli un tempo colonizzati, e in particolare sulle donne. L’epistemic violence è la rottura violenta operata sul sistema di segni, di valori, sulle rappresentazioni del mondo, sulla cultura, sull’organizzazione della vita e della società dei paesi che ieri erano colonie, e che oggi sono, non a caso, il sud del mondo. E’ grazie all’epistemic violence che lo spazio colonizzato è stato brutalmente trasformato in modo tale da poter essere portato all’interno di un mondo costruito dall’eurocentrismo. Questo processo attraverso cui l’Occidente si è consolidato e costituito in quanto soggetto sovrano dell’intero globo riempiendolo del suo modo di conoscere, delle sue rappresentazioni, del suo sistema di valori, Spivak lo chiama worlding of a world. In questo processo, l’Occidente ha creato i suoi Altri come oggetti da analizzare, assumendosi così il potere/sapere di rappresentarli e controllarli. Questi Altri, suggerisce Spivak, non sono veramente umani: costruiti come inferiori fin da quando l’Europa conquistò quasi l’intero mondo, continuano a esserlo anche oggi perché non sono considerati abbastanza sviluppati o abbastanza civilizzati o abbastanza democratici. C’è un unico soggetto universale e abbastanza perfetto, la norma per l’appunto: il maschio bianco; e l’Occidente ne è la grande estensione.

E che l’Altro continui a essere costruito e rappresentato come un essere inferiore, privo di storia e cultura, al confine tra l’uomo e la bestia, e con il quale non c’è ragione di dialogare perché l’unica ragione possibile è l’umiliazione o la violenza, non è mai stato così vero. Ce lo hanno detto ancora una volta, casomai ce ne fosse stato bisogno, quegli uomini e quelle donne che abbiamo visto ridere, fumare e alzare il pollice in posizione eretta mentre scattavano foto dell’Altro, nudo e al guinzaglio o morto di tortura.

Racconta Spivak a Elisabeth Grosz, in un’intervista dell’84, di essersi appassionata al pensiero di Derrida dopo aver scoperto che il filosofo francese stava smantellando dall’interno la tradizione filosofica occidentale, il cui eroe era l’essere umano universale. «A noi - dice Spivak parlando del sistema educativo britannico-coloniale - insegnavano che se potevamo cominciare ad avvicinarci a quell’essere umano universale, allora anche noi saremmo stati umani». Umani e dunque soggetti. Oppure, soggetti e dunque umani. Ma è davvero così? Soggettività e umanesimo vanno davvero insieme anche nella pratica, oltre che nel pensiero occidentale?

In uno scritto del 1985, considerato il suo saggio più famoso, più malinteso, ma anche più citato, Can the Subaltern Speak?, scritto in polemica con il gruppo dei Subaltern Studies ma anche con alcuni intellettuali post-strutturalisti e post-umanisti (Foucault e Deleuze), Spivak mostra come l’interessamento degli intellettuali occidentali nei confronti del soggetto coloniale finisca sempre per essere «benevolente»; il loro atteggiamento mentale e il loro punto di vista, alla fine, coincide con la narrazione imperialista perché quel che promette al nativo è la «redenzione». In questo saggio, Spivak si domanda se la donna subalterna può parlare ed essere ascoltata o se c’è sempre qualcuno che lo fa al suo posto e che la rappresenta in modo distorto: gli inglesi, nell’abolire la pratica indù del sati (1827), si assunsero il compito di parlare per la donna nativa oppressa dal patriarcato locale. In questo modo autolegittimarono se stessi come liberatori e l’imperialismo come missione civilizzatrice. Gli inglesi attribuirono alla donna subalterna una voce libera e tale da richiedere la propria liberazione all’uomo bianco, all’imperialismo inglese. Dall’altra parte, e contro la rappresentazione britannica, c’era il patriarcato locale, il maschio nativo, che sosteneva che la vedova era ben felice di salire sul rogo col marito cadavere. Per Spivak né l’una né l’altra versione rappresenta la «vera» voce della donna subalterna; in ambedue i discorsi la sua voce è «ventriloquizzata» e lei scompare dentro questo violento fare avanti e indietro tra tradizione e modernizzazione, tra patriarcato e imperialismo. Ecco che la posizione di soggetto della donna nativa viene costruita dall’Occidente e serve solo a rinforzare il prestigio dell’intellettuale-interprete-benevolente della funzione subalterna.

Oppure serve a rinforzare i valori laici e nazionalisti della nazione; è quel che è successo in Francia con il velo. All’improvviso la patria, così affine al patriarcato con i suoi valori militaristi e sessisti, diventa femminista e usa il femminismo contro le altre culture; abbiamo avuto due anni fa il paradosso dell’anti-abortista Bush che andava a bombardare l’Afghanistan per liberare le donne dal burqa, e oggi abbiamo quello della Francia che libera le musulmane dal velo. Il fatto è che il velo continua ad accendere le fantasie pruriginose del maschio occidentale che non sopporta di essere guardato ma di non potere guardare; solo lui ha diritto a osservare, analizzare, valutare, giudicare. Il suo «imperial I-eye» non deve incontrare barriere: l’espressione, che gioca con i suoni, simili in inglese, e che significa tanto l’Io quanto l’occhio imperiale, è della studiosa post-coloniale Mary Louise Pratt; descrive lo sguardo insistente del maschio bianco che «disumanizza, paralizza e uccide», come scriveva, a proposito dell’Algeria, della colonizzazione francese e del velo, Fanon. In Algeria, durante i 130 anni della loro occupazione, i francesi hanno tentato di «svelare» le donne, di rendere i loro corpi disponibili all’I-eye occidentale, come mezzo per conquistare culturalmente l’intero paese. Ecco che il velo diventa la posta di una battaglia grandiosa tra l’Occidente e l’Altro, mentre l’Altra viene usata come simbolo e terra di conquista, dagli uni e dagli altri. Conquistare lei significa annientare lui. Imporle o vietarle il velo significa ascriverla a un patriarcato o a un altro. Oggi, in epoca di emancipazione femminile - che tuttavia poco o nulla ha a che vedere con la libertà delle donne - si trasforma nel suo contrario-uguale: lei occidentale che porta lui musulmano al guinzaglio; la metafora sessuale, maschil-dominante, è identica.

Ma Spivak critica anche il femminismo internazionale, che continua a mettere al centro l’Occidente - o un personaggio occidentale, in questo caso la femminista - che si autocostituisce come soggetto di conoscenza, salvezza, aiuto, proprio perché ha costruito l’Altra come oggetto della sua illuminata compassione. Rappresentare l’Altra, dall’altra parte del mondo, come una sorella svantaggiata serve a farci sentire soggetti liberati, a rimandarci un’immagine di noi stesse ingrandita. E’ così che si diventa soggetti, in senso maschile, costruendosi un oggetto, un Altro inferiore. Il femminismo occidentale ha criticato il soggetto sovrano maschile ma poi rischia di fare, con le donne del cosiddetto terzo mondo, esattamente la stessa cosa che hanno fatto gli uomini per 2.500 anni. E continua a porsi domande ossessivamente autocentrate, tipo «cosa posso fare io per loro?»

Se vogliamo evitare di nuocere alle donne del terzo mondo, dobbiamo anche evitare di guardare le cose dal punto di vista di chi, in quanto soggetto, fa le analisi; dobbiamo evitare che il centro sia determinato, definito - come al solito - dalla ricercatrice.

Il soggetto non si può decentrare, sennò non è più soggetto, ma questa centratura va persistentemente criticata e decostruita: «La decostruzione - sostiene Spivak in un’intervista con Alfred Arteaga del `93 - non dice che non c’è il soggetto, che non c’è la verità, che non c’è la storia; semplicemente interroga il privilegiare l’identità così che qualcuno è ritenuto possedere la verità. La decostruzione non è l’esposizione di un errore. Costantemente e persistentemente guarda al modo in cui la verità è stata prodotta. Ecco perché la decostruzione non dice che il logocentrismo è una patologia. La decostruzione è, tra le altre cose, una critica persistente di ciò che uno non può non volere.» Cosa è che non si può non volere (e che viene dall’Occidente)? Per esempio, proprio la soggettività, o il femminismo. Se però non si vuole diventare quel soggetto normativo che è (stato) il maschio bianco, l’unica possibilità è una critica persistente al modo in cui ci si mette al centro del discorso.

Essere consapevoli, criticare persistentemente, decostruire: questo è «l’itinerario» del pensiero di Spivak che, infatti, non crede alle grandi costruzioni teoriche che spiegano tutto e che vogliono essere coerenti nella loro pretesa di raccontare la verità, assoluta e definitiva. Spivak non crede alle master narratives, le narrazioni dei maestri, ma anche dei padroni. Questo non vuol dire che le master narratives vadano demonizzate perché chiunque viene catturato a narrare; dobbiamo accettare l’impulso di pensare alle origini e alle finalità, di fare programmi di giustizia sociale, restando però al contempo consapevoli che si tratta di una nostra necessità, non della via verso la verità, o di «una soluzione ai problemi del mondo». Il caveat sulle grandi narrazioni, che rischiano di prendere il sopravvento e apparirci come se fossero vere, vale anche per le parole di cui le narrazioni si servono; Spivak le chiama masterwords, le parole dei maestri ma, di nuovo, anche dei padroni. Parole come «il lavoratore» o «la donna» sono parole a rischio perché spingono a creare, e poi a costruire, grandi narrazioni; e tuttavia, sono parole che non hanno alcun riferimento letterale perché non esistono esempi «veri» del «vero» lavoratore o della «vera» donna, che sono «veramente» pronti a battersi per gli ideali che noi abbiamo costruito e sui quali sono stati mobilitati. Queste considerazioni ci dovrebbero mettere in guardia sulle pretese universali, per esempio del marxismo o del femminismo occidentale, di parlare in nome degli uni e delle altre.

Anche l’impegno femminista occidentale col sud del mondo spesso maschera una superiorità condiscendente in nome delle sorelle (costruite e dunque considerate) più svantaggiate. La dobbiamo smettere di sentirci privilegiate e di conseguenza migliori, dice Spivak «situandosi»; mettendo cioè in gioco i suoi numerosi privilegi che vanno dall’essere un’intellettuale di grande prestigio nell’accademia statunitense, coinvolta nella produzione neocoloniale, all’ insegnare ai cittadini più garantiti e viziati del mondo, al vivere nella città più opulenta e consumista del globo. Situarsi vuol dire non candidarsi all’universalità e cioè all’essenza, anche se, che una lo riconosca o meno, non si può fare a meno delle universalizzazioni. Il punto è esserne consapevoli, e utilizzare le universalizzazioni piuttosto che ripudiarle: è quel che lei chiama strategic essentialism, anche perché, in un mondo dominato dagli uomini, come si fa a fare analisi e politica femminista se non - rischiando l’essenzialismo - «come una donna»?

Anche il privilegio va decostruito, perché non sempre e non necessariamente implica intelligenza, comprensione e possibilità di rapporto. Spesso, anzi, succede esattamente il contrario. Spivak suggerisce di «unlearn one’s privilege as one’s loss», cioè di disimparare i propri privilegi perché sono una perdita.

Il razzismo - per esempio - si impara, è un punto di vista e un comportamento acquisito che ci impedisce di vedere, capire e comunicare con chi è diverso da noi; attribuiamo all’Altra/o degli stereotipi, la/o interpretiamo attraverso dei pregiudizi e, di fatto, chiudiamo la nostra mente, la nostra possibilità di comunicazione, apprendimento, scambio e relazione; ecco che il nostro privilegio - in questo caso quello di appartenere alla «razza» bianca - si trasforma in una impossibilità, in una incapacità. Disimparare il proprio privilegio significa cominciare ad avere «una relazione etica» con l’Altra/o. E’ un modo di pensare, di concepire la propria identità e quella dell’Altra differentemente.

Non più l’Altra che, dall’altra parte del mondo, ha la funzione di specchio che ingrandisce la nostra immagine, ma la possibilità di comunicare attraverso distanze e differenze impossibili. E’ un abbraccio, un atto d’amore all’interno del quale ambedue le persone hanno la possibilità di imparare l’una dall’altra.


* DALL’INDIA AGLI STATES.

Gayatri Chakravorty Spivak è nata a Calcutta il 24 febbraio 1942 dove si è laureata. Nel 1960 è andata a studiare negli Stati Uniti, alla Cornell University, dove ha preso un master nel 1962 e il PhD nel 1967. Ha insegnato inglese e letteratura comparata in numerose Università, tra cui Stanford, Santa Cruz e la Goethe-Universitat a Francoforte. E’ Avalon Foundation Professor nelle Humanities alla Columbia University dove insegna dal 1991. Non ha mai voluto prendere la cittadinanza statunitense. Nel 1976 ha tradotto De la Grammatologie di Jacques Derrida firmando una prefazione che l’ha resa famosa. Ha scritto più di cento saggi, sparsi in volumi collettanei: alcuni di essi sono raccolti nei suoi pochi libri. In Italia, è stato tradotto un solo libro, Morte di una disciplina, da Meltemi nel 2003, mentre il suo saggio Decostruire la storiografia è contenuto in Subaltern Studies, Modernità e (post)colonialismo, edito da ombre corte nel 2002. Tra i suoi testi pubblicati in inglese: In Other Worlds: Essays in Cultural Politics, Methuen, New York, 1987; The Post-Colonial Critic: Interviews, Strategies, Dialogues, ed. Sarah Harasyn, Routledge, New York, 1990; Outside in the Teaching Machine, Routledge, New York, 1993; A Critique of Postcolonial Reason, Harvard University Presse, 1999



Martedì, 22 giugno 2004