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Da Cacciari a Natoli, da Vattimo a Severino e Galimberti: un’analisi dei pensatori che sfidano il cristianesimo. Parla Paul Gilbert

Filosofi, la linea neopagana

di Roberto Righetto (Avvenire, 26.04.2005)

«In questi pensatori c’è il ritorno alla saggezza greca e l’attenzione alla tecnica e all’etica, ma sono convinti che la fede cristiana sia un fatto ormai superato della cultura italiana ed europea»


Il pensiero italiano contemporaneo torna al paganesimo? La riflessione sul senso della vita e della morte, del dolore e della sofferenza, sul destino dell’Occidente nella speculazione dei filosofi più noti può essere definita neopagana? È quanto si chiede un saggio recente curato da Paul Gilbert, ordinario di Filosofia teoretica all’Università Gregoriana di Roma, e intitolato La terra e l’istante. Filosofi italiani e neopaganesimo pubblicato da Rubbettino. Sono cinque in particolare i filosofi presi in considerazione, noti anche al grande pubblico: Massimo Cacciari, Umberto Galimberti, Salvatore Natoli, Emanuele Severino e Gianni Vattimo. Il volume è frutto di un lavoro comune con altri studiosi della Gregoriana e ha un intento di discernimento più che di discussione, trattando di filosofi che non sempre sono d’accordo fra loro e che tendono tuttavia a interpretare il cristianesimo come momento sorpassato della cultura europea e italiana. Professor Gilbert, quali sono le caratteristiche principali di quello che nel libro definite il pensiero neopagano? «Il termine "neopaganesimo" s’ispira al libro di Salvatore Natoli I nuovi pagani , uscito nel ’95. Qui non si indica un ritorno al paganesimo dell’antichità: sottolinea Natoli che ai Greci non si torna. È inimmaginabile che l’Occidente possa oggi ignorare la propria travagliata storia, di cui il cristianesimo ha costituito per secoli una tappa determinante. Perciò, il neopaganesimo è "neo" in quanto altro dal paganesimo antico, dal quale viene separato da secoli di cultura cristiana, ed è "pagano" in quanto non è più oggi cristiano. I "neopagani" giudicano che il cristianesimo rappresenti un’origine indimenticabile della modernità, anche se sorpassata dalla post-modernità contemporanea. Notiamo una differenza essenziale tra questa tesi e quella del nascente Evo moderno, da cui nondimeno il neo-paganesimo trae ispirazione: il Rinascimento voleva in qualche modo ignorare i tempi cristiani e per questo li ha chiamati Medioevo, vale a dire un tempo in mezzo a due epoche, l’antica e la moderna, le sole che contano. Per i nostri autori invece, più sensibili alla logica della storia ispirata dal romanticismo tedesco, particolarmente da Hegel, si deve tener conto della successione dei secoli, senza astrarre alcuno». Passiamolo allora in rassegna, cominciando appunto da Natoli... «La sfida che lancia al cristianesimo è propriamente questa: sarà capace di accompagnare e di spingere la ricerca oggi confusa, ma diffusa nel mondo, di una saggezza di vita? E se la risposta sarà positiva, come farà? Nell’antichità, i cristiani dicevano che la loro fede costituiva la vera filosofia - assai tardi si è parlato di teologia cristiana -, era cioè la vera saggezza. È purtroppo chiaro che la cultura di oggi non conosce, anzi rifiuta spesso di conoscere una tale ricchezza, anche se la bellezza dei monumenti cristiani, qui a Roma per esempio, la ricorda continuamente. Però questa cultura sembra adesso morta; monumentale certo, ma difficilmente vivibile. Sarà quindi viva la nostra tradizione cristiana? La Chiesa, stabilita tra un discorso teologico per gli specialisti da un lato e il diritto canonico per il popolo da un altro, non si sarà svuotata della sua vita interiore, non avrà trascurato il suo tesoro di saggezza umana? La vita, la morte e la risurrezione di Gesù saranno ancora luce per la nostra cultura? Domande che esprimono la richiesta forte di saggezza». Passiamo ora a Severino. «È stato il primo autore che abbiamo affrontato in ordine di tempo. Già in occasione della pubblicazione dei suoi Pensieri sul cristianesimo, la sua forza speculativa ci è apparsa immediatamente, sebbene al contempo emergesse la scarsità e l’inconsistenza della sua conoscenza del cristianesimo. Si è formata in noi la convinzione che la sua lettura del cristianesimo si sia arrestata nelle espressioni fissate, bloccate dalla scolastica formale, vero similmente quella che serviva da insegnamento di base quando frequentava l’Università Cattolica di Milano durante i suoi studi e i primi anni del suo insegnamento. Il pensiero di Severino sul cristianesimo, contrariamente a quello di Natoli, non sa dire niente che valga la pena sul male; per lui la verità della sofferenza è la sua eternità - ecco la fuga più lontana possibile dalla verità della vita. La proposta di Severino è insignificante per l’uomo concreto, anche se il contesto anticlericale di una larga fetta della stampa contemporanea favorisce la diffusione dei suoi tours de passe-passe verbali, del suo nichilismo radicale e disimpegnato, estetico». E per quanto riguarda Vattimo, fautore del pensiero debole ma che si proclama cristiano? «Ma è di stirpe cristiana, e ne rivendica l’ispirazione. Il suo pensiero riprende e attualizza infatti alcuni dei temi più significativi dell’etica cristiana. Per realizzare questo progetto, si giova di un pensiero recentemente attualizzato da Martin Heidegger, ma di antica origine: la kenosi. Un declino che costituirebbe così la chiave d’interpretazione della storia dell’Occidente - a questo proposito, Vattimo e gli altri autori esaminati assumono le viste e sviste di Heidegger sulla tecnica e la modernità. Tale declino viene pensato quale abbandono dell’essere potente che si svigorisce per accompagnare i più deboli, per compassione. Un tale pensiero è ovviamente lodevole. La domanda che nasce però da un simile pensiero è quella di sapere se è veramente adeguato utilizzare una simile struttura etico-ontologica come prisma ermeneutico di tutta la storia dell’Occidente. Infatti, la verità radicalmente debole non sarà verità per niente. Si piegherà a qualsiasi evento, a qualsiasi realtà, non sarà più capace di illuminare l’oscurità dei nostri giorni». Veniamo adesso a Cacciari, che molto ha dialogato con i credenti. «Conosce ottimamente la tradizione teologica, a differenza della maggioranza degli altri filosofi presentati nel nostro libro. È capace di citare gli autori con competenza e profondità. La sua prima ispirazione viene però dall’idealismo tedesco, dall’ultimo Schelling particolarmente, quello dell’abisso originario in Dio. Ecco perché vi è sintonia tra la sua proposta filosofica più essenziale e uno scrittore cristiano come Pareyson, ugualmente ispirato da Schelling. Dalle tematiche cristiane Cacciari riprende particolarmente quella dell’inizio e della libertà. Si potrebbe dire per esempio che l’atto di creazione, essendo un atto libero di Dio, non produce un mondo che sia in continuità con l’essenza divina, ciò che un cristiano riconoscerà ovviamente. La creazione è un atto in cui Dio in qualche modo sparisce. Cacciari riflette da filosofo su questo abisso della libertà che, originaria, impone anche di pensare una vita trinitaria infinitamente generosa. Anche noi, uomini e donne liberi, siamo capaci di fare il bene e il male non perché siamo contingenti, ma perché siamo liberi. La vita umana è perciò drammatica, una scelta continua in libertà. Per un cristiano, un simile pensiero è molto stimolante; ci chiede l’impegno in vista di costruire un mondo migliore; si potrebbe dire che un tale atteggiamento sarà eroico, nel significato dei pagani greci, ma con un tratto teologico, cristiano, che lascia aperta qualche speranza». Infine, le sfide lanciate da Galimberti. «Galimberti ripercorre la storia della distinzione anima-corpo nella tradizione occidentale. Per i Greci, l’anima è essenzialmente intellettiva, fatta d’eternità luminosa, opposta al corpo mortale, confuso e oscuro. Con Agostino, l’anima diviene una potenza interiore, seggio di libertà. Con Cartesio l’interiorità agostiniana dell’anima si trasforma in volontà di potenza sul mondo, una volontà che lo sviluppo della tecnica appoggia singolarmente. Secondo Galimberti, il dogma della creazione sarebbe infatti propriamente all’origine di una tale comprensione del nostro essere. Si può vedere in questa spiegazione una ripresa della tesi fondamentalmente nietzscheana e heideggeriana della kenosi dell’essere nella tecnica, una perdita di sostanza originaria dalla quale però lo spirito europeo non può sognare una purificazione o una guarigione. Sicuramente, non potremmo tornare all’intellettualismo platonico che disprezza il corpo; in ciò il cristianesimo è stato una tappa importante della nostra storia, benché, asserisce Galimberti, non abbia onorato il corpo come si sarebbe dovuto. Comunque, è auspicabile oggi la ricerca di una saggezza dell’anima, non più fuori del corpo». In sintesi, quali sono le sfide che il neopaganesimo lancia al pensiero cristiano. Cosa di positivo vi si può cogliere e cosa invece rigettare? «Il nostro mondo è più che mai in ricerca di saggezza. Si cerca una saggezza che, nell’hic et nunc, renda possibile una certa felicità, una certa riconciliazione cioè con il mondo, con gli altri e con se stessi; una certa unità con tutto, "globalizzata". Se la fede si propone senza agganci con questo desiderio, sarà ritenuta inutile, se non disumana. Una fede puramente estrinseca o sottoposta a dei codici morali lascerà dietro di sé anime deluse e ferite. D’altra parte, il desiderio contemporaneo di saggezza, confrontandosi con la complessità attuale della vita umana, finirà coll’imbattersi nei propri limiti e perciò tenderà a fuggire da se stesso nei sogni, nella cultura delle immagini che si succedono senza testa ne coda, senza fedeltà. Ora, i pensatori presentati riflettono in diverso modo la rinuncia verso un indomani sensato e richiedono un’attenzione sempre rinnovata all’istante, all’adesso, al qui. Ecco nella sua forma generale la sfida più radicale che incontra oggi il cristianesimo: come vivere intensamente e nell’istante il presente concreto senza ridurlo all’insignificanza; come accoglierlo con fiducia e fedeltà, quando esso sempre sfugge? Infatti, i filosofi contempor anei che si ispirano a Nietzsche, saranno in grado di pensare con radicalità la fedeltà alla terra auspicata dal filosofo poeta? Non che Nietzsche proponga un canone della fedeltà. Anzi, il suo sguardo sull’umanità lo invita a beffarsi di ogni promessa. Allora, il cristianesimo non sarà meglio attrezzato per corrispondere alle attese profonde degli uomini e delle donne di oggi?».



Mercoledì, 27 aprile 2005