L’identità di genere,  la bisessualità e il ruolo del padre nelle fasi  preedipiche dello sviluppo

di Silvio ZUCCONI

(dagli Atti del Convegno - 2000: “Femminile e maschile: dall’identità di genere alla persona”)


www.argonauti.it

La psicoanalisi, a parer mio, quando spinge l’indagine sino al fondo del cratere della vita per indagare ab origine sull’enigma della differenza tra i sessi, partorisce le sue teorie là dove i fantasmi che abitano nella mente dei pazienti si incontrano con i fantasmi che abitano nella mente degli psicoanalisti. Forse è per questo motivo che i dibattiti scientifici sul tema dell’identità di genere si sono sempre svolti all’insegna della polemica più accesa. Per non parlare della "confusione delle lingue", che ha fatto sì che alcuni autori abbiano adoperato termini simili nel riferirsi a concetti diversi oppure, viceversa, termini diversi a sponsorizzare concetti identici. Io vorrei fare il possibile per non essere frainteso per cui rivisiterò alcuni concetti basilari che riguardano la tematica del genere, acché siano chiare sia l’ottica con cui affronto il problema sia la grammatica emotiva che mi induce alla scelta di un gergo piuttosto che un altro.

Comincerò con il pormi due interrogativi:

1) La psicoanalisi contemporanea pensa alla scoperta dell’alterità e alla scoperta della specificità di genere come a due processi tra loro annodati e alimentati dalla stessa forza motrice. Quindi essa colloca lo sviluppo del genere nel contesto relazionale delle primitive relazioni d’oggetto, all’alba della vita, quando il bambino è ancora alle prese con i conflitti che sono tipici della fase di individuazione-separazione. È a tutti noto come tutto ciò abbia portato a una revisione profonda delle concezioni freudiane sulla femminilità e abbia permesso di riposizionare la dialettica maschile-femminile su una bilancia meno iniqua, mentre alcuni dati clinici quali l’angoscia di castrazione e l’invidia del pene, emblemi tradizionali della differenza tra i sessi, più che abbandonati, sono stati considerati bisognosi di reinterpretazione metaforica e di risignificazione.

Comunque è questa la questione: siccome l’adozione del nuovo paradigma cambia gli accenti e sposta il baricentro dai livelli edipici a quelli preedipici dello sviluppo, il conflitto edipico viene a perdere la posizione "stellare" in cui Freud l’aveva collocato?

Sembra che da parte di tutti gli autori ci sia accordo pieno nel pensare che il concetto, lungi dall’essere ridimensionato, acquista, nella nuova prospettiva, una rilevanza persino maggiore. In altre parole, il triangolo edipico è il "delta" del fiume della vita, dove confluiscono tutte le correnti vitali aggreganti, necessarie alla costruzione dell’identità sessuale e personale, sebbene sia anche il luogo del massimo rischio, "il triangolo delle Bermude", per i bambini più sfortunati che giungono all’appuntamento con il destino da un entroterra troppo sinistrato. Il bambino sano, che ha la forza e il coraggio di rinunciare all’illusione protettiva degli oggetti soggettivi, acquista un biglietto di ingresso per accedere al mondo degli oggetti totali. Inizia una nuova avventura: non si lotta più "per esistere", bensì per avere il diritto "a desiderare" e "ad amare".

2) Alcuni ricercatori americani (Stoller, 1968; Chodorow, 1978), anche sulla base di conforti statistici, hanno avanzato l’ipotesi che i primi rudimenti dell’identità di genere siano, più che anatomicamente destinati, culturalmente appresi. I contributi ambientali (il sesso attribuito al bambino al momento della nascita, l’educazione diversificata dei genitori) influirebbero sull’autodeterminazione del genere e sul comportamento specifico del bambino molto più di quanto si sia portati a pensare.

Quindi che cosa significa identità di genere? Significa elaborazione psichica di dati biologico-costituzionali e di differenze anatomiche, oppure è "racconto della psiche dell’uomo"? Non è una questione insulsa. È un’evenienza tutt’altro che rara che sessualità e identità di genere, anziché essere aggemellate, siano l’una all’altra di ostacolo, mentre, nel riscontro clinico, se non è facile leggere la mappa del come si diventa uomo oppure donna, ancora più difficile è capire perché non lo si diventi a dispetto del sesso biologico.

Mitchell (1996) sostiene, e io sono d’accordo con lui, che a questa domanda non c’è risposta univoca. Infatti "...qualsiasi pur piccolo tentativo di biologizzare sarà sempre decostruibile e alla fine si troverà che esprime la cultura in cui è stato generato; d’altronde qualsiasi pur piccolo tentativo di costruttivismo dovrà sempre essere riancorato al corpo e alla biologia umana perché esso abbia una base e sia emotivamente significativo". Anche Fausto Petrella, nel corso di un dibattito sul genere di alcuni anni fa, ha affermato cose identiche. Mitchell ancora ricorda che, nella sua discussione finale sul simbolismo, Loewald (1988) sostiene che il simbolo e la cosa simboleggiata si arricchiscono reciprocamente e reciprocamente si trasformano. "Il serpente non può essere ridotto a significare semplicemente il pene. Una volta così simboleggiato il serpente è trasformato dal pene e il pene è trasformato dal serpente. Serpente e pene non sono più gli stessi di prima ... entrambi sono diventati delle costruzioni". Allo stesso modo bisogna pensare al genere e alla sessualità: costruzione e cosa costruita, entrambe, l’una con l’altra si definiscono, si limitano e si trasformano.

Infine, al di là del vincolo posto dal destino e a prescindere dallo "stampo" culturale, ogni essere umano dà alla costruzione della propria identità sessuale il suo attivo, singolare e personalissimo apporto.

Comunque identità di genere non significa ancora acquisizione definitiva di femminilità o di mascolinità. Il cammino da fare è ancora lungo. A parer mio due concetti teorici, quello di scena primaria e quello di bisessualità psichica, sono strumenti, più che utili, indispensabili per leggere la mappa di questo percorso.

Le fantasie di scena primaria, se mi si concede una metafora piuttosto ardita di sapore aeronautico, sono le tracce contenute nella "scatola nera" della mente che raccontano come il bambino ha vissuto la sessualità dei genitori (un intreccio di percezioni reali e di elaborazioni oniriche) nel corso delle varie vicissitudini che hanno caratterizzato il processo di individuazione e di separazione tra sé e l’oggetto.

Così la scena primaria, nelle versioni più arcaiche, contiene un vasto repertorio di immagini terrificanti e al contempo affascinanti, che emergono dallo sfondo di sensorialità e affettività molto primitive, mentre il bambino partecipa di un evento sessuale e aggressivo che ha le caratteristiche di un’intensa esperienza emozionale che lo sommerge. Man mano che il bambino cresce la scena primaria progressivamente e gradualmente si aggiorna. Alle soglie dell’edipo fanno la loro comparsa gli aspetti genitali e i conflitti fallico-edipici a essi associati. Infine, nel più "adulto" dei fotogrammi, i genitori possono essere riconosciuti nella loro individualità, nelle loro distinte identità sessuali e nella loro complementarità di genere, mentre il bambino ha acquisito il diritto ad avere un suo posto nella costellazione familiare, ad avere un suo corpo e una sua sessualità.

Sono d’accordo con Ogden (1989) quando afferma che "la scena primaria non va concepita troppo semplicisticamente, in quanto contenuto mentale statico, come un’eccitante e terrificante combinazione di fantasie sessuali e aggressive sul rapporto fra i genitori, condite di mitologia personale, bensì è da vedere come un organizzatore di importanza centrale delle relazioni oggettuali interne che verranno a costituire il complesso edipico maturo". Insomma l’immagine del rapporto sessuale fra i genitori è una sorta di "stampo", di schema di pensiero, entro cui pensare l’impensabile.

La bisessualità psichica è un tema oltremodo controverso. Molte delle persone che conosco e che stimo l’hanno in uggia. Per esempio Simona Argentieri (1988) così si esprime: "L’ipotesi che, in analogia con la duplice potenzialità embrionale, ciascun umano possa lasciar emergere in sé una supposta ‘parte’ psicologica corrispondente al sesso opposto, mi sembra francamente più l’eredità di una nostalgia mitologica della perduta perfezione ermafrodita che una reale possibilità psicologica".

Al contrario io penso che il concetto sia potenzialmente molto fertile a condizione che venga concepito e adoperato nel senso che qui di seguito mi accingo a descrivere.

A) In primis al termine "bisessualità" andrebbe sempre rigorosamente aggiunto l’aggettivo "psichica", acché il concetto possa essere affrancato da quella devozione alla biologia da cui non furono certamente immuni né Fliess né Freud (i primi ad avere questa intuizione, intuizione di cui si contesero la paternità).

Ricondotta sul terreno precipuamente psicologico e situata dentro l’habitat delle prime relazioni oggettuali, la bisessualità psichica vuol significare la disponibilità naturale che hanno i cuccioli dell’uomo (sia maschi che femmine) a sentirsi libidicamente attratti da entrambi i genitori e a desiderare di incarnare entrambi i sessi. Se l’appetito sessuale può essere interpretato come un’inevitabile e perentoria risposta interattiva al piacere sensuale che gli stessi genitori provano e trasmettono quando carezzano e manipolano il corpo del loro adorato bambino, la doppia identificazione parrebbe realizzarsi sulla spinta ad appropriarsi dei misteriosi organi sessuali che conferiscono potere magico alla madre e al padre arcaici.

Nei dibattiti scientifici su questo tema si registra una tendenza insolita a esprimersi con un linguaggio improprio. Alcuni autori parlano di una "doppia identità" maschile e femminile, come se avessero dimenticato la differenza che corre tra identità e identificazione. Altri si riferiscono a "parti" oppure a "elementi" maschili e femminili, come se fossero a lezione di embriologia o di endocrinologia, riposizionando dentro ipotesi biologizzanti ciò che conviene concepire come risultato di vicissitudini relazionali.

Forse la difficoltà a disancorarsi dal concreto nasce dal bisogno di attribuire consistenza ai fantasmi bisessuali, dato che sono persistenti e profondamente radicati nella struttura psichica, comunque una consistenza maggiore di quella che viene di solito assegnata ad altre innumerevoli combinazioni, dal destino più effimero, prodotte dal caleidoscopio della mente, quand’essa è ancora troppo immatura per riconoscere i confini tra sé e gli oggetti e tra realtà interna e realtà esterna.

Come è noto Joyce McDougall (1995) ha dato particolare spessore e rilievo clinico al concetto di bisessualità psichica. L’autrice afferma che la scoperta da parte del bambino della differenza anatomica tra i sessi e la necessità di venire a patti con il proprio destino monosessuale (scandaloso affronto alla megalomania infantile) costituisce una delle più profonde ferite narcisistiche dell’infanzia e ha un corrispettivo, in quanto a traumaticità, nella precoce scoperta dell’alterità e nella più tardiva rivelazione dell’inevitabilità della morte.

Come il bambino riesce a integrare queste domande bisessuali nella sua struttura psichica, anche quando l’evidenza anatomica non può più essere negata, ovverosia i diversi modi in cui tenta di risolvere l’impossibile desiderio di essere e di avere entrambi i sessi, risulta un fattore decisivo ai fini del costituirsi dell’identità di genere e più tardi dell’identità sessuale.

È al momento dell’ingresso nell’edipo che può dirsi completato il processo digestivo. Il bambino sano, che ha internalizzato la rappresentazione simbolica della complementarità dei due sessi, può accettare il fatto che non apparterrà mai a entrambi i generi e che sarà sempre una metà della costellazione sessuale. Gli individui che non riescono a venire a capo di questi traumi universali trasportano nella dimensione adulta le stigmate della loro incompiutezza. La conflittualità inconscia che ne deriva alimenta varie patologie: sessualità inibite o deviate, blocchi dell’attività creativa, patologie borderline e affezioni psicosomatiche.

B) Chi assume una posizione critica o scettica nei confronti della teoria della bisessualità psichica tende a liquidarla in quanto concetto inutile e privo di qualsiasi specificità. In poche parole sarebbe come dire che esistono nella preistoria della mente livelli indifferenziati e totipotenti in cui non è ancora avvenuta la distinzione tra figura materna e paterna e quindi neppure, ovviamente, tra maschile e femminile. Oppure si potrebbe pensare che è del tutto superfluo fare due battesimi, visto che il concetto è troppo aggemellato con quello di scena primaria.

Io trovo che il modo in cui Fast (1984) pensa alla bisessualità sia oltremodo interessante e anche convincente. In sintesi l’autrice sostiene che una coscienza di sé, collocata in un corpo maschile oppure femminile, può coesistere con la fantasia di un illimitato potere in quanto al genere. Ciò sicuramente si realizza nella fase preedipica iperinclusiva (che coincide temporalmente con la fase di riavvicinamento della Mahler) in virtù di un paradosso: se è vero che i bambini di entrambi i sessi, in un primo stadio indifferenziato in quanto al genere, coltivano la fantasia di essere completi bisessualmente, cioè di "avere" e di "essere" sia il grembo fertile della madre che il pene potente del padre, è anche vero che ognuno di loro continua imperterrito a elaborare questa fantasia anche in una mente già differenziata (o che va differenziandosi) in quanto al genere, a causa delle reciproche influenze dell’anatomia, della biologia e del diverso atteggiamento dei genitori nei loro confronti (Elise, 1997).

Quando si parla di paradossi è quasi d’obbligo scomodare Winnicott. In linguaggio winnicottiano la storia potrebbe essere così raccontata: l’acquisizione dell’identità di genere si realizza attraverso una scoperta graduale, all’interno di uno spazio potenziale, dove fantasia inconscia, realtà anatomica e influenze culturali non si uccidono le une con le altre, bensì coesistono.

Comunque io sono portato a pensare che il concetto di iperinclusività sia un boccone troppo ghiotto per avere un impiego solo settoriale (al fine di riformulare la complementarità di genere) e che meriti un’applicazione più estensiva.

Per esempio, Ogden (1989) ha concepito l’idea che l’esperienza umana sia il prodotto dell’interazione dialettica di tre modalità generatrici di esperienza: la depressiva, la schizo-paranoide e la contiguo-autistica. Le tre "fasi" o "posizioni" non si arrampicano l’una sull’altra in obbedienza a un ordine cronologico o nel rispetto di una successione gerarchica, ma coesistono in quanto modi usuali e costanti di funzionare della mente. Ciascuna modalità crea, preserva e nega l’altra. Ebbene, quanto Ogden afferma risulta essere un chiaro esempio di iperinclusività applicata alla totalità della struttura psichica.

Anche Lopez adotta questo nuovo paradigma quando critica le tradizionali contrapposizioni freudiane e le riporta dal dualismo dell’o, o all’iperinclusività dell’e, e. Accettare il paradosso vuol dire contenere, piuttosto che risolvere le contraddizioni, e mantenere la tensione tra elementi antitetici.

Anche una relazione d’amore coinvolgente può essere considerata iperinclusiva perché reclama la coesistenza e l’interazione dei livelli genitali con quelli fusionali dello sviluppo (vedi Amati Mahler, 1995, nel suo bel lavoro "Che cosa vogliono gli uomini?"). L’intera bobina delle fantasie di scena primaria sta a disposizione degli amanti se esiste per loro la possibilità non solo di immergersi ma anche di riemergere dall’esperienza. Invece lo sperimentare una così profonda intimità può generare angoscia negli individui ad alto rischio sismico, che hanno ragioni valide per temere una regressione senza ritorno.

La felicità in amore può essere intesa come riconquista del "paradiso perduto", come completa riunione con l’oggetto primario, ma nulla ci vieta di pensare come Platone (perché no?) e di sognare un incontro magico con la "metà mancante" della complementarità.

Scrive Platone ne Il convivio:

Quando dunque l’uomo s’incontra con quella che fu già la mezza nostra parte, meraviglioso trasporto lo prende; egli sente amicizia, parentela, amore ...

E il motivo? L’antica struttura nostra era questa ed eravamo interi. Al desiderio appassionato della primiera totalità e allo sforzo d’ottenerla una seconda volta si dà il nome d’Amore.

C) L’ultimo sforzo che compio in difesa della teoria della bisessualità psichica mi introduce in un campo molto più vasto che meriterebbe uno spazio a sé e capacità speculative maggiori delle mie. Comunque proverò a tracciare un bozzetto sintetico del mio pensiero.

In psicoanalisi sviluppo e crescita vengono tradizionalmente e correntemente concepiti come inseriti in una traiettoria lineare. Infatti si trascorre dal bambino all’adulto, da uno stato di fusione con l’oggetto alla scoperta dell’altro, dall’onnipotenza al riconoscimento della realtà. Inoltre il processo maturativo non si compie senza dolore e sacrificio perché, inesorabilmente, le pretese del desiderio fanno attrito con le esigenze della realtà, mentre il passaggio da un’organizzazione psicologica a un’altra richiede una serie di processi di lutto. "Elaborazione del lutto", un termine abusatissimo nel nostro gergo, null’altro significa che disposizione alla rassegnazione. Per ogni centimetro di crescita l’essere umano riduce di una tacca la sua onnipotenza, cioè paga pegno e subisce un ridimensionamento onirico e narcisistico.

Ebbene, un grafico dello sviluppo così concepito, a parer mio, è disseminato di troppe croci.

In parole poverissime sono questi gli interrogativi che mi pongo: se individuazione e separazione hanno un così alto costo, se crescere significa fare a meno di soffici "piumini narcisistici" per riposare su dure "mattonelle di realtà", che guadagno c’è nel diventare adulti? Non sarebbe preferibile restare eterni bambini? Come può Freud avere pensato che la bambina scopra il padre come oggetto d’amore sulla spinta di sentimenti di privazione e di vergogna? (puntualmente Schafer, 1974, e Ogden, 1989, fanno notare quanto sia assurdo pensare che una delusione traumatica in questa fase dello sviluppo promuova un progresso; è più lecito aspettarsi che un trauma siffatto dia l’avvio a soluzioni difensive e regressive volte al restauro del narcisismo offeso). E ancora, come può la differenza genitale essere il motore dell’identità di genere se la sua scoperta è uno scandaloso affronto alla megalomania infantile?

Come si può capire, vado configurando due diverse impostazioni mentali: una prima, per quanto attiene allo sviluppo e alla crescita, propende per soluzioni narcisisticamente penalizzanti, una seconda riconsidera e reimposta l’antitesi tra narcisismo e onnipotenza da un lato e riconoscimento e accettazione della realtà dall’altro. Io da sempre, da quando ho iniziato a fare questo lavoro, ho sposato la seconda.

Anche le teorie di Fast e di Ogden, cui ho fatto cenno poc’anzi, comportano l’adozione di un modello dello sviluppo alternativo. L’iperinclusività della Fast e il cortocircuito, anziché la successione lineare, delle tre fasi di Ogden prevedono infatti "un risparmio sui costi" e "una limitazione delle perdite", in ragione del fatto che i livelli mentali adulti e le integrazioni più tardive non rimpiazzano le posizioni più antiche (casseforti dei sogni dei fanciulli), bensì le riconfigurano.

Sicuramente Winnicott può essere considerato un antesignano di questo nuovo modo di pensare. È fin troppo nota la sua ipotesi che uno svezzamento sano, mediato da oggetti e fenomeni transizionali (Winnicott, 1951), comporti il matrimonio del sogno con la realtà. Meno noto è il suo contributo, a parer mio più originale, L’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso identificazioni (Winnicott, 1968), dove, d’un sol colpo, vengono sovvertiti un paio di punti cardinali della psicoanalisi tradizionale. Nel panorama mentale "made in Winnicott" l’aggressività non è un’entità metafisica imparentata con la morte e neppure si produce come reazione alla frustrazione nell’impatto con il principio di realtà, bensì è una forza al servizio della vita che crea "la qualità della esternalità", cioè la condizione necessaria acché la realtà esterna emerga prepotente in netto contrasto con il mondo interno. In sintesi, se è l’illusione che crea l’oggetto soggettivo (un oggetto non completamente separato da sé), è l’aggressività che distrugge l’illusione e crea l’oggetto esterno (un oggetto che esiste al di fuori della propria onnipotenza). Il risultato più sconvolgente dell’operazione è che il bambino non scopre solamente la cruda verità ma l’amore. È come se dicesse al suo oggetto: "ti ho distrutto ... sei sopravvissuto (o siamo sopravvissuti) ... ti ho finalmente scoperto ... ti amo". Il nuovo oggetto non ha più legami di parentela con l’oggetto buono e non ha bisogno di essere riparato, bensì può essere liberamente usato e amato. Detto tra parentesi, occorre diffidare del concetto di "riparazione". C’è il rischio che comporti un reflusso, in quanto modalità proditoria di riafferrare per la coda l’oggetto, proprio nel momento in cui sta uscendo dalla gabbia, con la scusa che deve essere restaurato.

Dentro questo nuovo modo di pensare le relazioni, soprattutto quando si affrontano tematiche che riguardano il genere, va sicuramente inserita la Benjamin, forse la più creativa e la più sostanziosa tra gli autori americani che appartengono al filone dell’"intersoggettività".

La Benjamin, della quale avrò ancora occasione di parlare, eredita sia le teorie di Winnicott che quelle della Fast e le applica al suo campo specifico di ricerca, traendone le logiche conseguenze. È sua questa affermazione: "L’assunto implicito della teoria della differenziazione sessuale è che riconoscere la differenza ha un valore maggiore ed è un’acquisizione più tardiva e più difficile che non riconoscere l’uguaglianza. Il punto trascurato è che la difficoltà sta nell’accettare la differenza senza rifiutare l’uguaglianza" (1995), cioè nel trovare uno spazio di equilibrio tra gli opposti.

Infine è impossibile dimenticare, dulcis in fundo per noi "argonauti" e per tutti gli amici fedeli che leggono la nostra rivista ormai da venti anni, la teoria della persona di Davide Lopez.

Nel raccontare la storia con parole mie, immagino che il DNA della nostra mente contenga la progettualità acché tutte le correnti energetiche ascensionali che sono al servizio della vita, anziché disperdersi, abbiano una naturale tendenza a subire la forza aspirante e a convergere verso lo stesso punto nevralgico, dentro un ombelico, dove si amalgamano fino a realizzare un’"unità". La persona abita in questo pianeta, un "pianeta blu", dove le opposizioni binarie, strumenti di tortura della "vita sfinge", coabitano senza molestie e dove i più alti livelli dello sviluppo libidico-emotivo, cioè il massimo grado di differenziazione e di integrazione, coincide con il massimo grado di iperinclusività e di agilità preconscia.

Non bisogna pensare che si tratti di una conquista una volta per sempre. Anzi, sotto gli urti della vita, la Gestalt della persona tende a dissolversi, per ricomparire più tardi solo se una volontà indomita si assume l’onere di una continua rifigurazione.

La persona disdegna quella ricerca ossessiva della verità che adopera solo il polo appuntito dell’intelletto e strumenti di ricerca degni di una polizia scientifica, e si dichiara erede della potenza onirica contenuta negli antichi miti, nelle religioni e nelle grandi filosofie del nostro glorioso passato di animali sapienti.

Sono giunto al termine del mio velocissimo e panoramicissimo raid per cui è anche arrivata l’ora di tirare le fila.

Tutti gli autori, di cui ho fatto menzione, hanno per me un’aria di famiglia. A mio parere ciò che li accomuna, al di là degli interessi diversificati e delle varianti stilistiche, è il loro convergere su due punti nevralgici:

1) Non è detto che individuazione, separazione e crescita comportino una penalizzazione narcisistica continua; è anche possibile che ci sia "un vello d’oro" da conquistare e che la scoperta progressiva del mondo avvenga sulla spinta di una corsa esaltante alla realizzazione di sé come persona.

2) La vita non ama le linee rette ma si avvita su se stessa in un’eterna giostra. Ovverosia, lo sviluppo non richiede una traiettoria lineare che allontani dalla posizione iperinclusiva, ma la capacità di ritornarvi senza perdere la consapevolezza della differenza.

Non mi resta che applicare questi due principi alla teoria della bisessualità psichica da cui sono partito. La bisessualità psichica è profondamente radicata nella psiche umana perché riposa sugli antichi patti d’amore che i bambini di entrambi i sessi hanno istituito con entrambi i genitori, sia con la madre che con il padre. Se, come dice la Benjamin, il segreto sta nell’accettare la differenza senza rifiutare l’uguaglianza, si comprende come una scelta "per decapitazione" risulterà essere matricida oppure parricida e comunque sempre suicida. Rinunciare a una metà di se stessi porta alla costruzione di una pseudoidentità, cioè di un’identità sessuale difensiva, reattiva e avversativa (l’individuo dell’altro sesso viene trasformato in un oggetto che incarna le parti scisse di sé), per cui si potrebbe anche dire che un individuo siffatto, che ha optato per questa soluzione, non diventerà né maschio né femmina. In conclusione, lo sviluppo di una sana identità sessuale deve essere inteso come il prodotto dell’interazione dialettica di maschile e femminile, perché tanto nella sana identità maschile che nella sana identità femminile ciascun termine dipende ed è istituito dall’altro (Ogden, 1989).

***

Nell’ultima parte del mio lavoro rivisiterò il concetto di edipo di transizione di Ogden. Sarà questa l’occasione propizia per parlare di quanto sia importante il ruolo del padre preedipico nella costruzione dell’identità sessuale sia maschile che femminile.

La mia riflessione prende avvio da questa affermazione di Ogden: "Sebbene Freud venga spesso accusato di aver trattato in modo inadeguato i problemi dello sviluppo sessuale femminile, credo che egli abbia riservato un’attenzione minore al problema dell’ingresso del bambino nel complesso edipico, che non al problema degli esordi dell’edipo femminile".

Ovverosia un’ingiustizia storica sarebbe stata perpetrata sia ai danni del sesso femminile che del sesso maschile. Io mi allineo con questo modo di pensare e ritengo che la radicale riorganizzazione psicologico-interpersonale, che è richiesta per l’ingresso nel triangolo edipico, comporti che femmine e maschi siano alle prese con conflittualità diverse ma comparabili. Va da sé che il superamento di tali conflitti preveda soluzioni diversificate.

Le difficoltà della bambina sono connesse al cambio di oggetto: il rischio è che il trasloco emotivo-affettivo dalla madre preedipica (oggetto noto) al padre edipico (oggetto esterno ancora da conoscere) si traduca in un "salto nell’abisso" di quella dimensione esterna che giace fuori del suo controllo onnipotente.

Per il bambino, invece, l’accesso a un rapporto erotico e sentimentale con la madre edipica si carica di angoscia per l’arcana rassomiglianza che questo oggetto d’amore ha con l’onnipotente e seducente madre preedipica.

Quindi, se la femminuccia si vive come penalizzata per l’onere del passaggio da un oggetto all’altro, il maschietto non si ritiene certamente privilegiato per essere esonerato da questo compito. In letteratura è stato abbastanza trascurato il fatto che l’impotenza maschile psicogena, quasi sempre, e alcune forme di omosessualità, più che essere generate da interdetti paterni non digeriti, null’altro significano che sacro terrore della femmina. Quando, nel corso dello sviluppo, non si è stabilita una distanza di sicurezza tra la madre preedipica e il sé, "il profumo di donna" rimanda alla maga Circe e alle sirene voraci, mentre il rapporto sessuale viene equiparato a entrare dentro la pancia di Moby Dick.

A dialettica maschile-femminle così ritarata, occorre tornare a domandarsi, partendo da presupposti diversi rispetto a Freud, quali sono i processi psicologico-interpersonali che mediano la transizione dai livelli preedipici a quelli edipici dello sviluppo.

Ogden avanza l’ipotesi che l’ingresso nel complesso edipico sia assicurato, sia per la bambina che per il bambino, da un rapporto di transizione con la madre che è analogo, anche se evolutivamente successivo, al rapporto con oggetti transizionali descritto da Winnicott. Nel "rapporto edipico di transizione", acché un’esperienza del genere si produca, madre e figlia, oppure madre e figlio, devono essere capaci di creare e utilizzare uno "spazio di gioco" (Winnicott, 1971) e stabilire tra loro una relazione basata sul seguente paradosso: la bambina e il bambino si innamorano della madre-in-quanto-padre e del padre-in-quanto-madre. In quale delle due configurazioni ci si trovi, se si è innamorati della madre oppure del padre (di un oggetto interno oppure di un oggetto esterno), è domanda che non si pone. Quindi la prima fase dello sviluppo edipico comporta una triangolarità che viene a costituirsi nel quadro di una relazione a due.

Naturalmente, anche in questo caso, i destini femminili e maschili divergono.

La madre della transizione è come se dicesse alla figlia adorata: se fossi un uomo ... Ma ben si sa che l’inconscio non contiene il "se fossi", per cui è come se affermasse: io sono un uomo ... sei bella ... sono innamorata di te. Così la bambina, se tutto va per il meglio, non deve necessariamente rifiutare la madre per amare il padre e può fare, solo dopo e grazie a questa prova generale (che equivale a una benedizione materna), un ingresso nel triangolo edipico senza uno schiacciante vissuto di delusione.

Per quanto riguarda il figlio maschio la madre della transizione incarna sia l’oggetto interno padre, che conferisce al bambino il potere sessuale, sia l’oggetto esterno madre, che si lascia desiderare. Paradossalmente, è proprio attraverso il rapporto con la madre, una donna, che il bambino acquisisce il fallo, cioè l’equivalente simbolico di quella forza che è necessaria per affrontare "l’oscuro oggetto" delle sue brame.

In sostanza, conclude Ogden, sia per la femmina che per il maschio, la relazione triangolare, che è l’esito di un soddisfacente rapporto edipico di transizione, rappresenta una ricostruzione della fondamentale bisessualità dell’individuo, in modo che la femminilità non esiga più una fuga dalla mascolinità o un diniego di essa, e naturalmente viceversa.

Io ho un appunto critico da fare a Ogden, che pur ringrazio per il concetto illuminante che mi ha regalato. La critica riguarda il ruolo che dentro la sua teoria viene ad assumere la figura paterna. Nella teoria di Ogden, come del resto in quelle della maggior parte degli analisti di oggi, il padre del periodo preedipico ed edipico precoce non ha presenza corporea, bensì esiste nell’inconscio materno e per ciò che la figlia scorge nello sguardo della mamma. Io penso che ci si dimentichi che una visione preedipica della "sacra famiglia", in cui viene sottolineata l’intimità e l’isolamento della diade madre-bambino in contrapposizione al padre che è collocato fuori, che è e deve essere altro, è stata costruita per convenzione e si riferisce solo a una parte della verità.

André Green (1975), riallacciandosi all’idea di Winnicott che non esista un’entità separata "bambino", ha affermato che non c’è neppure un’entità "madre-bambino", dal momento che il padre è sempre rappresentato "nell’inconscio della madre".

Anche se non voglio negare il maggiore spessore cenestesico che attiene alla relazione madre-infante, io sostengo che un’entità isolata madre-bambino non può esistere perché, fin dall’inizio, il padre è corporalmente presente. Già quando è un feto dentro il grembo materno, visto che i due partner hanno rapporti sessuali, il figlio che sarà sente gli "scossoni" dell’amore. Subito dopo, appena nato, siccome viene preso in braccio sia dalla madre che dal padre, percepirà, per quanto i sensi giovanissimi glielo permettano, una pur minima differenza tra la pelle liscia della mamma e i peli del papà. Non vorrei che quanto affermo venisse considerato troppo ingenuo. Pur sapendo che c’è un salto tra la realtà esterna e quanto la mente di un bambino piccolissimo riesce a concepire, io ritengo che ci siano ragioni sufficienti per pensare che una triangolarità esista fin dall’inizio, una triangolarità fatta di tre corpi. Prova ne sia che non manca mai un senso rudimentale del terzo, come elemento inerente alla struttura della scena primaria, fin dalle versioni più primitive di questo contenuto fantasmatico.

Sarebbe ben diverso affermare che l’esistenza del padre in quanto altro è una necessità psichica del bambino e soprattutto una necessità funzionale alla diade madre-bambino. Infatti non trascurerei il ruolo che il padre si assume (o che comunque gli viene affidato) di contenitore della persecuzione, al fine di bonificare la relazione madre-infante dai fantasmi aggressivi e abortivi in essa contenuti, in modo che essa si configuri, su un piano immaginario e idealizzato, come una specie di età dell’oro, prototipo di ogni benessere.

In tal senso trovo che non sia stato valutato a sufficienza il concetto di paranoia primaria che Franco Fornari (1981) ha studiato nella produzione onirica delle donne gravide.

Comunque, quanta più ambivalenza esiste all’interno della relazione madre-figlio, quanto più odio, invece che amore, è contenuto nella relazione tra moglie e marito, tanto più esterna, minacciosa e poco familiare risulterà la figura del padre.

Per assurdo, Ogden, che è un uomo, ha dato un risalto preponderante alla figura della madre, per quanto riguarda lo sviluppo precoce, mentre sono state le femministe americane, cioè delle donne, a rivendicare l’importanza del ruolo paterno ai fini della costruzione del sé e dell’identità sessuale.

Jessica Benjamin (1995) ha proposto l’idea che, fin dal momento in cui si alzano in piedi, fin da quando la differenza di genere e la differenza genitale cominciano a essere riconosciute, i bambini di entrambi i sessi sono spinti, da imperativi narcisistici precoci e irrinunciabili, a investire il padre e il fallo di attributi idealizzati. Si assiste alla creazione di un padre-eroe che rappresenta il legame con l’eccitante mondo esterno e diventa un "Che Guevara", il partigiano della libertà, in quanto figura simbolica di riferimento del diritto a essere separati, in contrapposizione cioè ai bisogni di accudimento e di sicurezza. Faccio notare, tra parentesi, che questo povero padre, oggi tanto discusso e sovente sottovalutato, farebbe "da tiro e da trotto", con l’assumersi il ruolo di "contenitore della persecuzione", quando nei figli prevalgono i bisogni simbiotici, e quello di "contenitore della idealizzazione", quando i figli rivendicano la loro indipendenza sovrana.

Tipica di questa fase dello sviluppo, quindi, è una sorta di amore identificatorio. Anche in questo caso i destini maschili e femminili divergono.

L’amore omoerotico identificatorio serve al bambino per rafforzare la sua identità maschile, cioè la "storia d’amore con il mondo" del bambino che fa i primi passi si trasforma in una storia d’amore con il padre, che rappresenta il mondo, per cui il figlio è innamorato del suo ideale.

Invece il desiderio di avere un pene della bambina, in questa fase dello sviluppo, non è una risposta alla differenza anatomica e tantomeno una reazione alla castrazione, bensì risponde alla lotta per individuarsi. Dati i legami di similarità tra madre e figlia, tanto più le femmine ricercano un oggetto diverso in cui riconoscere la propria indipendenza. Quest’altro oggetto è molto spesso il padre, la cui alterità è garantita e simbolizzata da un diverso genitale.

Quindi l’interesse preedipico della bambina per il padre, l’interesse per il pene, non è eterosessuale, dice ancora la Benjamin, ma riguarda l’incorporazione omoerotica e il possesso di qualcosa che possa competere con il potente seno. È un desiderio di somiglianza che spesso compare in età di latenza come desiderio di essere un maschio.

Proprio quando il padre non è disponibile (succede spesso perché i padri sono più propensi a rispondere al bisogno identificatorio dei figli maschi), l’invidia del pene esprime il desiderio disperato che la bambina ha di lui, cioè significa "fame di padre".

Il padre dunque (la cui funzione, a questo punto, è diadica e non triadica) può essere "transizionalmente" un oggetto d’amore omoerotico non solo per il bambino ma anche per la bambina. È proprio questo amore omoerotico, spinto dalla forza evolutiva della separazione, ad aprire la strada verso un’eterosessualità non conflittuale.

Un’ultima sintesi: l’edipo di transizione di Ogden e l’amore identificatorio della Benjamin sono concetti speculari. Ripartendo da Ogden e rivendicando, in accordo con la Benjamin, un maggiore spessore da dare alla figura paterna, io sostengo che nel periodo di transizione, in una versione ideale, viene a crearsi uno spazio di gioco tra tutti i componenti della famiglia: madre e padre (una madre che è anche paterna e un padre che è anche materno) si vengono incontro e costruiscono tra la "Scilla" della femminilità e il "Cariddi" della mascolinità un ponte levatoio, acché i loro figli, esentati da scelte masochistiche, possano muoversi verso il loro futuro di persone.

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Venerdì, 10 giugno 2005