ARTE E FILOSOFIA. AL DI LA' DEL PLATONISMO...
PITTURA E SPECULAZIONE: L'INGANNEVOLE SPECCHIO DI NARCISO. LA LEZIONE DI MAGRITTE
Il falso specchio. L’opera che condanna la verità dell’immagine. Le nuvole dell’illusione. Così un grande occhio mette in crisi il mondo - di Francesca Bonazzoli (Corriere della Sera, 22.11.2008)
a cura di Federico La Sala
«Dimmi, Damide, esiste una cosa chiamata pittura?» «Certo», risponde Damide. «E perché si fa?». «Per l’imitazione, per ottenere una figura somigliante di un cane o un cavallo o un uomo, o una nave, o di qualsiasi altra cosa sotto il sole». «Allora la pittura è imitazione, mimesi?». «Certo, che cos’altro dovrebbe essere, se non fosse così sarebbe un ridicolo trastullarsi con i colori », ribatte Damide. «Già, ma che dire delle cose che vediamo in cielo quando le nubi corrono portate dal vento, di quei centauri e antilopi, di quei lupi e cavalli? Sono anch’esse opere di imitazione? Dio è forse un pittore che occupa le sue ore libere in questo divertimento?», chiede ancora il filosofo pitagorico Apollonio di Tiana al suo discepolo con il quale, all’epoca di Cristo, arrivò fino in India. E poiché, procedendo nel dialogo, i due concordano che le nubi si formano per caso e che siamo noi a attribuire loro una forma somigliante a quelle che già conosciamo, Apollonio conclude che due sono le possibili imitazioni: «Una è quella che porta a utilizzare le mani e la mente per realizzare imitazioni, l’altra è quella che realizza la somiglianza unicamente con la mente».
Quasi mille anni di storia dell’arte dopo, nel primo ventennio del XX secolo il pensiero estetico torna da capo su questo tema e, dopo aver compiuto l’intero giro della mimesi passando attraverso l’illusione e i cieli sfondati barocchi di Correggio, Padre Pozzo o Tiepolo, Magritte dipinge un quadro che riporta la speculazione filosofica al punto dove l’aveva lasciata Apollonio di Tiana.
Quel quadro si intitola «Il falso specchio» ed è un enorme occhio che ci guarda, ma dentro il quale non vediamo riflessi noi stessi, bensì un cielo attraversato da nubi. L’immagine più semplice del mondo, eppure quanto mai ambigua, a partire dalla pupilla che, al centro di quel cielo azzurro, appare come un inspiegabile sole nero. Ma non solo: che cosa è quel cielo? Quello reale riprodotto dalla superficie specchiante della pupilla, oppure un «falso specchio » che non rappresenta ciò che l’occhio vede, bensì ciò che ci illudiamo di vedere? È una finestra sul mondo o il nostro mondo interiore che diventa una finestra?
La stessa riflessione verrà sviluppata da Magritte in molti altri quadri e soprattutto ne «I due misteri», dove dipinge un’enorme pipa e, sotto, un cavalletto con un altro quadro che riproduce a sua volta una pipa, ma con la scritta: «Ceci n’est pas une pipe». Ancora una volta Magritte spiazza colui che guarda: ci sono due pipe oppure due disegni di pipe? O una pipa e il suo dipinto o due dipinti di una pipa vera, oppure due disegni che non sono e non rappresentano né l’uno né l’altra e a che cosa dunque si riferisce la frase scritta sul quadro nel quadro? Insomma, Magritte vuole spostare il valore della pittura dalla sua funzione mimetica, che l’arte occidentale gli ha riconosciuto fin dai tempi dei Greci, a quella concettuale.
La qualità dell’opera d’arte, dice, non sta nell’abilità esecutiva (egli stesso parlava di peinture vache, di bassa qualità), bensì nella capacità di innescare una riflessione sul mondo e la realtà. È lo stesso spostamento dal manufatto alla sua dimensione mentale che aveva già sperimentato Duchamp e che porterà all’arte concettuale, ma Magritte lo attua attraverso gli strumenti del Surrealismo, ovvero l’accostamento incongruo di oggetti, indipendente dalle leggi della logica, come in sogno, per sancire l’irrealtà dell’apparenza. Così la riflessione, e la visione, trasferiscono il loro centro dall’esterno all’interno, come suggerito anche nella celebre scena di «Un chien andalou » in quello stesso anno girato da Buñuel (e sceneggiato da Dalì) dove una nube affilata che attraversa la luna si trasforma nella lama di un rasoio che taglia l’occhio di una donna come a negare la possibilità della visione e dell’interpretazione della realtà attraverso la vista.
Alla pittura viene quindi negato ogni valore naturalistico: come aveva intuito Apollonio di Tiana, nella visione c’è sempre una componente soggettiva, la tendenza a proiettare nelle forme immagini di cose che già abbiamo nella testa. Con Magritte arriviamo dunque al punto di rottura più radicale della storia della mimesi, messa già in crisi dal trompe l’oeil fin dall’epoca rinascimentale e barocca anche se tale esercizio virtuosistico rimaneva ancora nell’ambito dell’imitazione (del cielo, del soffitto sfondato, delle architetture, delle nubi) e non metteva veramente in discussione la verità dell’immagine che restava sempre uno strumento di conoscenza della realtà. Ecco perché nel XX secolo Magritte si accanisce proprio contro la pittura: perché negare le immagini è un modo di negare finalmente l’oggettività del mondo. E dopo le guerre virtuali che abbiamo visto in tv seduti sul divano, sappiamo quanto questo sia vero.
___ Magritte, Il falso specchio (1928), cfr.: http://www.nicolalalli.it/images/solitudini/pages/84.%20R.%20Magritte%20'Falso%20specchio'%20.html Magritte, L'inganno delle immagini ( «Ceci n’est pas une pipe»), cfr.: http://www.liceolocarno.ch/Liceo_di_Locarno/materie/storia_arte/magritte/opere/lingannodelleimmagini2.html Per ulteriori approfondimenti e note, si cfr. anche:
Domenica 23 Novembre,2008 Ore: 00:15 |