”Tu vivrai, figlio mio”

(ediz. L’Archipel, ottobre 2000, 301 pagg.)


di Pin Yathay (traduzione dal francese di José F. Padova)

http://www.diploweb.com/p9yath01.htm

Ecco l’agghiacciante racconto di un cambogiano scampato all’inferno dei khmer rossi. Fra l’aprile 1975 e il gennaio 1979 quella piccola fazione di rivoltosi diretti da “intellettuali”, molti dei quali hanno studiato in Francia, mette in atto un genocidio contro la popolazione della Cambogia. L’autore racconta, in modo al tempo stesso dettagliato e sobrio l’assassinio organizzato di 1,7 fino a 2 milioni di cambogiani, su una popolazione di circa 7,5 milioni di abitanti.

Il Paese diventa un grande campo di concentramento

Dopo aver pubblicato nel 1979 “L’utopie meurtrière” (“L’utopia assassina”), ediz. Robert Laffonte, Pin Yathay presenta in questo secondo libro la sua testimonianza con la collaborazione di John Man. «Alla fine della guerra civile, nell’aprile 1975, la Cambogia della mia infanzia, invece di ritrovare la pace attesa, divenne un inferno. La ruota della rivoluzione dei khmer rossi, che vedevano nemici dappertutto, cercò di schiacciare il paese, i suoi abitanti, la sua cultura – individui, famiglie, società, sapere, fedi, e tutti i sentimenti, perfino l’amore. Sotto molti aspetti essa ci riuscì. La Cambogia costituì un terreno di sperimentazione dell’ideologia totalitaria su scala nazionale. Odio e terrore regnavano. Erano condannati città, beni materiali, denaro, mercato, educazione e arte. Milioni di persone subirono deportazioni, lavori forzati, fame e morte. Il Paese divenne un immenso campo di concentramento. In ventisette mesi ho perduto coloro che amavo – diciassette membri della mia famiglia e innumerevoli amici – e tutto ciò che mi era caro. Non mi restano altro che dei ricordi. Il mio desiderio è che, attraverso questo libro, questi ricordi rimangano vividi. Volgio che il mondo intero sappia come i miei figli, mia moglie, i miei genitori, i miei fratelli, i miei nipoti e cugini furono uccisi. Ma desidero anche che le mie sofferenze e quelle della mia famiglia ricordino quello che è successo a milioni di persone. Volgio che ognuno constati come ideali seducenti di giustizia e di uguaglianza generino, quando sono pervertiti da fanatici, l’oppressione più crudele e la generale miseria» (p. 9).

I Khmer svuotano Phnom Penh

Il racconto si svolge al livello di una famiglia i cui membri muoiono, uno a uno, durante l’adeguamento della popolazione.

Qualche giorno dopo la partenza degli americani il progetto ha inizio il 17 aprile 1975, con la presa della capitale. Vestiti di nero, con copricapo pure neri e sfoggiando un foulard a scacchi, i giovani khmer rossi rimangono di sasso di fronte all’accoglienza della folla. Bemn presto i vincitori danno l’ordine di evacuare la capitale, fingendo che sia per tre giorni soltanto. Tuttavia, trascorso questo termine, l’esodo continua. L’autore racconta: «Diventavamo consapevoli di ciò che significa realmente l’evacuazione di una città. Le persone erano ripiegate su loro stesse, estenuate, prostrate, e non pensavano più ad altro che ad andare avanti. Più ci allontanavamo dalla capitale e più l’esaurimento si impadroniva dei malati, dei feriti, degli storpi e dei vecchi. Se ne restavano seduti, fissando coloro che passavano loro accanto con uno sguardo vuoto, sembravano rassegnati alla loro sorte. Scorgevamo un numero sempre più grande di corpi abbandonati ai lati della strada e questo spettacolo finì per non più emozionarci. Bene al riparo nelle nostre auto parlavamo appena con le altre famiglie. Ciononostante fui scioccato quando, per due volte, vedemmo donne pendere da un albero. suicide» (pg. 49-50).

Perché questo esodo?

Un khmer rosso dice: «Sapevamo che è pericoloso lasciare le città intatte, abitate. Sono centri di opposizione che danno riparo a gruppuscoli. È difficile localizzarvi i nuclei della controrivoluzione. Se non modifichiamo la vita urbana un’organizzazione nemica vi si può stabilire e cospirare contro di noi. Il controllo di una città è del tutto impossibile. Le abbiamo fatti evacuare per distruggere ogni resistenza, per distruggere la culla del capitalismo reazionario e mercantile» (p. 91).

L’Angkar, nome dell’organizzazione dei khmer rossi, decide quindi che il denaro non ha più valore e abolisce la proprietà individuale. Tuttavia l’organizzazione requisisce con la forza ciò di cui necessita: moto, auto, berretti, orologi… i deportati apprendono presto di costituire il “popolo nuovo”, una categoria inferiore e disprezzata che deve obbedire al “popolo antico” già formato dai khmer rossi. I soldati confiscano tutto ciò che è stampato perché contiene “il pensiero imperialista”, poi procedono a una specie dic censimento per meglio rinsaldare il loro controllo sui cambogiani.

”L’autorità dell’Angkar veglia su di voi…”

Due o tre volte ogni settimana sedute d’indottrinamento appioppano questa litania: «Siete uomini liberi. Gli imperialisti sono dei codardi. Questi vigliacchi si sono dati alla fuga. Quelli che non sono fuggiti dal paese sono stati sterminati.gli imperialisti vi hanno abbandonati, ma l’Angkar è clemente. Malgrado la vostra collaborazione con il vecchio regime, l’Angkar vi perdona. Adesso, spogliati di tutto, vi site rivolti all’Angkar. L’Angkar è generoso. Promette di nutrirvi, darvi una casa, se abbandonate le vostre vecchie abitudini, i vostri vestiti occidentali. Dovete eliminare ogni traccia d’imperialismo, di feudalità, di colonialismo. I ragazzi hanno capelli lunghi come quelli delle ragazze. Ecco ancora un’influenza imperialista. Dovete rinunciare a tutto questo e pensare al lavoro politico da intraprendere nei giorni a venire. Se avete qualcosa da dire all’Angkar, ditelo. Non dovete nascondere nulla all’Angkar. L’Angkar non dice nulla, non parla, ma ha occhi e orecchi dappertutto. L’autorità dell’Angkar veglia su di voi…» (p. 66).

L’assurdo eretto a sistema

Costretti a lavorare nei campi, i deportati dissodano, scavano canali, irrigano, arano e seminano, in un “costante e immutabile purgatorio” (p. 68). I lavori che hanno soprattutto un obiettivo politico sconfinano sovente nell’assurdo, per esempio per quanto riguarda il tracciato dei canali. “I khmer rossi sembravano pensare che il fervore rivoluzionario potesse sostituire le leggi della fisica. Per ogni tratta migliaia di uomini e donne scavavano, obbedendo agli ordini dei loro dirigenti locali, ma nessuno verificava che i canali che scavavamo avessero pendenza discendente” (p. 86).

Poiché le riserve di viveri venivano a mancare, occorre ben presto sviluppare un sistema di baratti per procurarsi di che mangiare, mentre i più deboli cominciano a soffrire la fame, vittime di un disprezzo metodico, istituzionalizzato, perfino sistematico.

Quando il fine giustifica i mezzi

Arrivati in un angolo sperduto della giungla, l’autore e i suoi parenti devono installare un campo di fortuna e creare la loro risaia. Vittima della fame uno dei figli di Pin Yathai, Staud, muore. Ogni giorno la morte si porta via da quattro dieci persone, per malnutrizione, sfinimento o avvelenamento causato dall’ingestione di funghi velenosi. “La speranza morì, sotterrata con i cadaveri. Il lutto finì per fare parte della nostra schiavitù” (p. 116). Nel frattempo i khmer si arricchiscono col mercato nero e senza alcuna forma di processo applicano l’esecuzione sommaria con una pallottola nella schiena a coloro che non obbediscono loro in tutto e per tutto. Perché “il fine giustificava i mezzi. Gli ideali legittimavano ogni crimine. Il potere assoluto aveva generato la corruzione assoluta” (p. 220).

Cannibalismo

Ognuno deve fare regolarmente la sua autocritica, secondo la formula che segue: “Mi inchino davanti al supremo Angkar. Mi umilio davanti a coloro che sono qui riuniti perché mi possano vedere, posso vedere davanti a me il fango che mi macchia, ma soltanto i miei compagni vedono il fango che stadietro a me. Compagni, ho bisogno del vostro aiuto per prendere coscienza dei miei errori e delle mie colpe. Mo prostro davanti all’Angkar” (p. 147). L’ideologia comunista giunge perfino a volgere a suo vantaggio la carestia organizzata: “Non mangio molto bene. L’Angkar non ha viveri a sufficienza, ma questo mi permette di abiturami alla fame e diventare più resistente. L’Angkar mi aiuta a indurirmi e io lo ringrazio” (p. 157). Tuttavia la fame spinge alcuni al cannibalismo (p. 180) e i khmer li puniscono… con la morte.

Si legge, infine, il racconto strabiliante dell’evasione di Pin Yathai verso la Thailandia, al prezzo dell’ “abbandono” del suo figli più piccolo – Nawath – e della perdita di sua moglie, Any.

Anche se quest’opera manca di una visuale prospettica dei fatti dei decenni precedenti – ma per questo esistono lavori universitari, vedi la selezione bibliografica che segue – la testimonianza di Pin Yathai rappresenta un elemento dei dossier della storia. Scritto in modo piano e senza spirito morboso, può essere diffuso fra studenti di tutte le classi.

Quale giustizia?

All’inizio del XXI secolo, più di vent’anni dopo i loro crimini, gran parte dei khmer rossi vivono in Cambogia del tutto liberi, senza essere stati mai giudicati per i crimini perpetrati. L’autore si interroga: “Quando mai le Nazioni Unite e il governo cambogiano formeranno un tribunale speciale internazionale, come raccomandano gli esperti legali dell’ONU?” (p. 11). La riconciliazione nazionale ne uscirebbe rafforzata e la pace più duratura.

Il genocidio dei cambogiani si aggiunge quindi a quello dei polacchi sulla lunga lista dei crimini del comunismo, sfuggendo ancora alla condanna di un Tribunale internazionale. I crimini del nazismo sono stati – a buon diritto – giudicati a Norimberga. Perché il comunismo – con quasi 100 milioni di vittime nel XX secolo in tutto il mondo (1) – sfuggirebbe a una simile procedura?

Pierre Verluise

(1) A questo proposito leggere “Le livre noir du communisme” diretto da S. Courtois, ediz. Laffont, 1997.

Bibliografia

. "Le "déminage des archives communistes soviétiques", par Alexandra Viatteau.
. "Staline assassine la Pologne. 1939 - 1947", par Alexandra Viatteau.
."Comment voir le monde ?", par Alexandra Viatteau.
. "Souvenirs de la dissidence", par Irina Alberti, Directrice de la Pensée russe.. "Le Cambodge. Une tragédie de notre temps", par Philippe Richer, Presses de Sciences Po, 2001.
. "Le portail", par François Bizot, préf. John Le Carré, éd. Table ronde,2000. Le témoignage d’un occidental détenu par les khmers rouges.
. "Cambodge, au pays du crime déconcertant", pp.631-695, in "Le livre noir du communisme. Crimes, terreur, répression", par Stéphane Courtois (et al. ), éd. Robert Laffont, 1997.
. "Le Génocide Khmer rouge : une analyse démographique", par Marek Sliwinski, éd. Harmattan, 1995.
. "Pol Pot : Frère Numéro Un", par David P. Chandler, Plon, 1993.
. "The Tragedy of Cambodgian History : Politics, War and Revolution since 1945", par David P. Chandler, Yale University Press, 1991.
. "Cambodgia 1975-1978 : Rendez-vous with Death", par Karl D. Jackson, éd. Princeton University Press, 1989.
. "Le mur de bambou. Le Cambodge après Pol Pot", par Esmeralda Luciolli, éd. Médecins sans frontières/Régine Deforges, 1988.
. "Les Larmes du Cambodge - l’histoire d’un auto-génocide",par Elizabeth Becker, éd. Presses de la Cité, 1986.
. "Le Poids de la pitié", par William Shawcross, éd. Balland, 1985.
. "Cambodge année zéro, par François Ponchaud, éd. Julliard, 1977.
. Sources pour l’étude de l’Asie

 

Testo originale :

 

"Tu vivras, mon fils",
par Pin Yathay
http://www.diploweb.com/p9yath01.htm

éd. L’Archipel, octobre 2000. 301 p.
Voici le récit sidérant d’un cambodgien rescapé de l’enfer khmer rouge. Entre avril 1975 et janvier 1979, cette petite faction de révoltés dirigés par des "intellectuels" ayant souvent étudié en France, met en œuvre un génocide contre la population du Cambodge. L’auteur raconte d’une manière à la fois détaillée et contenue le meurtre organisé de 1, 7 à 2 millions de cambodgiens, sur une population d’environ 7, 5 millions d’habitants.
Le pays devient un vaste camp de concentration
Après avoir publié en 1979 "L’utopie meurtrière"(éd. Robert Laffont), Pin Yathay présente dans ce deuxième livre son témoignage, avec la collaboration de John Man. "A la fin de la guerre civile, en avril 1975, le Cambodge de mon enfance, au lieu de retrouver la paix attendue, devint un enfer. La roue de la révolution khmère rouge, voyant des ennemis partout, chercha à écraser le pays, ses habitants, sa culture - individus, familles, société, savoir, croyances, et tous les sentiments, même l’amour. A bien des égards, elle y parvint. Le Cambodge constitua un terrain d’expérimentation de l’idéologie totalitaire à l’échelle d’une nation. Haine et peur régnaient. Villes, biens matériels, argent, marchés, éducation et art étaient condamnés. Des millions de gens subirent la déportation, les travaux forcés, la faim et la mort. Le pays devint un vaste camp de concentration. En vingt sept mois, j’ai perdu ceux que j’aimais - dix-sept membres de ma famille et d’innombrables amis - et tout ce qui m’était cher. Il ne me reste que des souvenirs. Mon désir est que, par ce livre, ces souvenirs demeurent vivaces. Je veux que le monde entier sache comment mes enfants, ma femme, mes parents, mes frères, mes neveux et mes cousins furent tués. Mais je souhaite aussi que mes souffrances et celles de ma famille rappellent ce qui est arrivé à des millions de personnes. Je veux que chacun constate comment des idéaux séduisants de justice et d’égalité engendrent, lorsqu’ils sont pervertis par des fanatiques, l’oppression la plus cruelle et la misère générale". (p.9)
Les Khmers vident Phnom Penh
Le récit se situe au niveau d’une famille, dont les membres meurent, un à un, durant la mise au pas de la population.
Quelques jours après le départ des Américains, le propos débute le 17 avril 1975, par la prise de la capitale. Vêtus de noir, portant des casquettes noires et arborant un foulard a damier, les jeunes Khmers rouges restent de marbre devant l’accueil de la foule. Bientôt les vainqueurs donnent l’ordre d’évacuer la capitale… soit disant pour trois jours. Cependant, passé ce délai, l’exode se poursuit. L’auteur raconte :"Nous prenions conscience de ce que signifiait réellement l’évacuation d’une ville. Les gens étaient repliés sur eux-mêmes, exténués, accablés, ne pensant plus qu’à avancer. Plus nous nous éloignions de la capitale, plus l’épuisement s’emparait des malades, des blessés, des estropiés et des vieillards. Ils restaient assis, fixant ceux qui passaient d’un regard vide, semblant résignés à leur sort. Nous apercevions de plus en plus de corps abandonnés sur le bas-côté de la route et ce spectacle finit par ne plus nous émouvoir. Bien à l’abri dans nos voitures, nous parlions à peine aux autres familles. Cependant, je fus choqué quand, à deux reprises, nous vîmes des femmes pendues à un arbre. Des suicides."(pp. 49-50)
Pourquoi cet exode ?
Un Khmer rouge dit : "Nous savons qu’il est dangereux de les (villes) laisser intactes, habitées. Elles sont des centres d’opposition qui abritent des groupuscules. Il est difficile d’y localiser les noyaux de la contre-révolution. Si nous ne modifions pas la vie urbaine, une organisation ennemie peut s’y établir et conspirer contre nous. Il est tout à fait impossible de contrôler une ville. Nous les avons évacuées pour détruire toute résistance, pour détruire les berceaux du capitalisme réactionnaire et mercantile." (p. 91)
L’Angkar, nom de l’organisation des Khmers rouges, décide donc que l’argent n’a plus de valeur et abolit la propriété individuelle. Cependant, l’organisation réquisitionne de force ce dont elle a besoin : moto, voiture, casquette, montre… Les déportés apprennent bientôt qu’ils constituent le "peuple nouveau", une catégorie inférieure et méprisée qui doit obéir en tout au "peuple ancien" déjà formé par les Khmers rouges. Les soldats confisquent les imprimés parce qu’ils contiennent "la pensée impérialiste" puis procèdent à une sorte de recensement pour mieux assurer leur contrôle sur les Cambodgiens.
"L’autorité de l’Angkar veille sur vous..."
Des séances d’endoctrinement idéologique assènent deux à trois fois par semaine cette litanie :"Vous êtes des hommes libres. Les impérialistes sont des lâches. Ces couards se sont enfuis. Ceux qui n’ont pas fui le pays ont été exterminés. Les impérialistes vous ont abandonnés, mais l’Angkar est clémente. Malgré votre collaboration avec l’ancien régime, l’Angkar vous pardonne. Maintenant dénués de tout, vous vous êtes tournés vers l’Angkar. L’Angkar est généreuse. Elle promet de vous nourrir, de vous loger, si vous abandonnez vos anciennes coutumes, vos vêtements occidentaux. Vous devez éliminer toute trace d’impérialisme, de féodalité, de colonialisme. Les garçons ont les cheveux aussi longs que les filles. Voilà encore une influence impérialiste. Vous devez renoncer à tout cela et penser au travail politique à entreprendre dans les jours à venir. Si vous avez quelque chose à dire à l’Angkar, dites-le. Vous ne devez rien cacher à l’Angkar. L’Angkar ne dit rien, ne parle pas, mais elle a des yeux et des oreilles partout. L’autorité de l’Angkar veille sur vous…" (p. 66)
L’absurde érigé en système
Obligés de travailler aux champs, les déportés défrichent, creusent des canaux, irriguent, labourent et plantent, en un "purgatoire constant et immuable" (p. 68) Les travaux ayant avant tout un objectif politique confinent souvent à l’absurdité, par exemple en ce qui concerne le tracé des canaux. "Les Khmers rouges semblaient penser que la ferveur révolutionnaire pouvaient remplacer les lois de la physique. Pour chaque tronçon, des milliers d’hommes et de femmes creusaient, obéissant aux ordres de leurs dirigeants locaux, mais personne ne vérifiait que les canaux que nous tracions étaient en pente descendante."(p. 86)
Les réserves venant à manquer, il faut bientôt développer un système de troc pour se procurer de quoi manger, alors que les plus faibles commencent à souffrir de la faim, victimes d’un mépris méthodique, institutionnalisé, voire systémique.
Quand la fin justifie les moyens
Arrivés dans un coin perdu de la jungle, l’auteur et ses proches doivent installer un camp de fortune et créer leur rizière. Victime de la faim, l’un des enfants de Pin Yathay, Staud, meurt. Chaque jour, la mort emporte quatre à dix personnes, par malnutrition, épuisement ou empoisonnement à cause de l’ingestion accidentelle de champignons vénéneux. "L’espoir mourut, enterré avec les cadavres. Le deuil finit par faire partie de notre servitude". (p. 116) Pendant ce temps, les Khmers s’enrichissent par le marché noir et exécutent sans la moindre forme de procès d’une balle dans le dos ceux qui n’obéissent pas en tout. Parce que "la fin justifiait les moyens. Les idéaux légitimaient tous les crimes. Le pouvoir absolu avait engendré la corruption absolue". (p. 220)
Cannibalisme
Chacun doit régulièrement faire son autocritique, suivant la formule suivante :"Je m’abaisse devant la suprême Angkar. Je m’abaisse devant ceux qui sont rassemblés ici afin qu’ils puissent me voir. Je peux voir devant moi la boue qui me tache, mais seuls mes camarades voient la boue qui est derrière moi. Camarades, j’ai besoin de votre aide pour prendre conscience de mes fautes et de mes erreurs. Je m’abaisse devant l’Angkar." (p. 147) L’idéologie communiste arrive même à retourner à son avantage la famine organisée :"Je ne mange pas très bien. L’Angkar ne possède pas assez de vivres, mais cela me permet de m’habituer à la faim et de devenir plus résistant. L’Angkar m’aide à m’endurcir et je l’en remercie". (p. 157) Cependant, la faim pousse certains au cannibalisme. (p. 180) et les Khmers les punissent… par la mort.
Vous lirez, enfin, le récit époustouflant de l’évasion de Pin Yathay vers la Thaïlande, au prix de "l’abandon" de son dernier fils - Nawath - et de la perte de son épouse, Any.
Même si cet ouvrage manque d’une mise en perspective des faits évoqués au regard des décennies précédentes - mais il existe pour cela des travaux universitaires, comme en témoigne la sélection bibliographique ci-dessous - le témoignage de Pin Yathay représente une pièce aux dossiers de l’histoire. Ecrit lisiblement et sans esprit morbide, il peut être mis entre les mains de collégiens comme de lycéens.
Quelle justice ?
Au début du XXI e siècle, plus de vingt ans après leurs crimes, la plupart des chefs khmers rouges vivent en toute liberté au Cambodge, sans avoir jamais été jugés pour les crimes qu’ils ont commis. L’auteur s’interroge :"Quand donc les Nations unies et le gouvernement cambodgien formeront-ils un tribunal spécial international, comme le préconisent les experts judiciaires de l’ONU ?" (p. 11) La réconciliation nationale en sortirait renforcée et la paix plus durable.
Le génocide des Cambodgiens s’ajoute donc à celui des Polonais sur la longue liste des crimes du communisme échappant encore à la condamnation d’un tribunal international. Les crimes du nazisme ont été - avec juste raison - jugés à Nuremberg. Pourquoi le communisme - avec près de 100 millions de victimes au XX e siècle de par le monde (1) - échapperait-il à une telle procédure ?
Pierre Verluise
NDLR:Ce livre a été publié en anglais sous le titre "Stay Alive, My Son", Cornell University Press, 2000. Pour toute autre traduction, les droits mondiaux appartiennent aux éditions de l’Archipel.
(1) Lire à ce sujet le "Livre noir du communisme" dirigé par S. Courtois, éd. Robert Laffont, 1997.
 
 
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. "Le "déminage des archives communistes soviétiques", par Alexandra Viatteau.
. "Staline assassine la Pologne. 1939 - 1947", par Alexandra Viatteau.
."Comment voir le monde ?", par Alexandra Viatteau.
. "Souvenirs de la dissidence", par Irina Alberti, Directrice de la Pensée russe.
Sélection bibliographique
. "Le Cambodge. Une tragédie de notre temps", par Philippe Richer, Presses de Sciences Po, 2001.
. "Le portail", par François Bizot, préf. John Le Carré, éd. Table ronde,2000. Le témoignage d’un occidental détenu par les khmers rouges.
. "Cambodge, au pays du crime déconcertant", pp.631-695, in "Le livre noir du communisme. Crimes, terreur, répression", par Stéphane Courtois (et al. ), éd. Robert Laffont, 1997.
. "Le Génocide Khmer rouge : une analyse démographique", par Marek Sliwinski, éd. Harmattan, 1995.
. "Pol Pot : Frère Numéro Un", par David P. Chandler, Plon, 1993.
. "The Tragedy of Cambodgian History : Politics, War and Revolution since 1945", par David P. Chandler, Yale University Press, 1991.
. "Cambodgia 1975-1978 : Rendez-vous with Death", par Karl D. Jackson, éd. Princeton University Press, 1989.
. "Le mur de bambou. Le Cambodge après Pol Pot", par Esmeralda Luciolli, éd. Médecins sans frontières/Régine Deforges, 1988.
. "Les Larmes du Cambodge - l’histoire d’un auto-génocide",par Elizabeth Becker, éd. Presses de la Cité, 1986.
. "Le Poids de la pitié", par William Shawcross, éd. Balland, 1985.
. "Cambodge année zéro, par François Ponchaud, éd. Julliard, 1977.
. Sources pour l’étude de l’Asie





Venerdì, 21 luglio 2006