I IL NOSTRO IMPEGNO « Nous sommes des hommes libres, non pas soumis, mais engagés ». GUÉHENNO Ci impegnamo noi e non gli altri, unicamente noi e non gli altri, né chi sta in alto né chi sta in basso, né chi crede né chi non crede. Ci impegnamo senza pretendere che altri s‘impegni con noi o per suo conto, come noi o in altro modo. Ci impegnamo senza giudicare chi non s‘impegna, senza accusare chi non s‘impegna, senza condannare chi non s‘impegna, senza cercare perché non s‘impegna, senza disimpegnarci perché altri non s‘impegna. Sappiamo di non poter nulla su alcuno né vogliamo forzar la mano ad alcuno, devoti come siamo e come intendiamo rimanere al libero movimento di ogni spirito. Noi non possiamo nulla su questa realtà che è il nostro mondo di fuori, poveri come siamo e come intendiamo rimanere. Se qualche cosa sentiamo di potere — e lo vogliamo fermamente — è su di noi, soltanto su di noi. Il mondo si muove se noi ci muoviamo, si muta se noi ci mutiamo, si fa nuovo se qualcuno si fa nuova creatura, imbarbarisce se scateniamo la belva che è in ognuno di noi. L‘« ordine nuovo»incomincia se qualcuno si sforza di divenire un «uomo nuovo». La primavera incomincia con il primo fiore, il giorno con il primo barlume, la notte con la prima stella, il torrente con la prima goccia, il fuoco con la prima scintilla, l‘amore con il primo sogno. Ci impegnamo perché non potremmo non impegnarci. C‘è qualcuno o qualche cosa in noi — un istinto, una ragione, una vocazione, una grazia — più forte di noi stessi. Nei momenti più gravi ci si orienta dietro richiami che non si sa di preciso donde vengano, ma che costituiscono la più sicura certezza, l‘unica certezza nel disorientamento generale. Lo spirito può aprirsi un varco, attraverso le resistenze del nostro egoismo, anche in questa maniera, disponendoci a quelle nuove continuate obbedienze che possono venire comandate in ognuno dalla coscienza, dalla ragione, dalla fede. Ci impegnano per trovare un senso alla vita, a questa vita, alla nostra vita, una ragione che non sia una delle tante che ben conosciamo e che non ci prendono il cuore, un utile che non sia una delle solite trappole generosamente offerte ai giovani dalla gente pratica. Si vive una sola volta e non vogliamo essere giocati in nome di nessun piccolo interesse. Non c‘importa della carriera, né del denaro, né delle donne, specie se soltanto femmine; non c‘importa la nostra fortuna né quella delle nostre idee; non c‘interessa di passare alla storia (abbiamo il cuore giovane e ci fa paura il freddo della carta e dei marmi); non c‘interessa di apparire eroi o traditori davanti agli uomini, ma solo la fedeltà a noi stessi. C‘interessa di perderci per Qualcuno che rimane anche dopo che noi siamo passati e che costituisce la ragione del nostro ritrovarci. C‘interessa di portare un destino eterno nel tempo, di sentirci responsabili di tutto e di tutti, di avviarci, sia pure attraverso lunghi erramenti, verso l‘Amore, che diffonde un sorriso di poesia su ogni creatura e che ci fa pensosi davanti a una culla e in attesa davanti a una bara. Ci impegnamo non per riordinare il mondo, non per rifarlo su misura, ma per amarlo. Per amare anche quello che non possiamo accettare, anche quello che non è amabile, anche quello che pare rifiutarsi all‘amore perché dietro ogni volto e sotto ogni cuore c‘è, insieme a una grande sete d‘amore, il volto e il cuore dell‘Amore. Ci impegnamo perché noi crediamo nell‘Amore, la sola certezza che non teme confronti, la sola che basta per impegnarci perdutamente.
IMPEGNO CON CRISTO « Mio Dio, ecco tu sei. E vi sono prove della tua esistenza. Io le ho tutte dimenticate: né più le richiesi, perché qual mai terribile impegno costituirebbe una simile certezza!». RILKE Si parla troppo di Cristo; e avevamo pensato di tenere il suo nome, adorato e bestemmiato, dentro di noi, impegnandoci solo nel segreto. Il vero amore non si dichiara in pubblico senza tradirlo un po’. Ci sono pudori che vogliamo rispettare in noi e negli altri. Oggi più che mai: perché oggi, come in ogni ora sconvolta, le indicazioni e gli appelli verso il Cristo si fanno più insistenti. Di lui c‘è chi dichiara l‘irrimediabile tramonto: chi ne disegna una nuova giornata senza fine: chi l‘invoca nella disperata rovina di ogni cosa e gli s‘avvinghia: chi lo maledice e se ne allontana. Dove s‘avviino costoro che s‘allontanano, non lo sappiamo. Parecchi, sgomenti di un andare senza mèta e senza mandato, credono, voltandosi indietro, di vedere il bagliore della spada dell‘arcangelo che sbarra il ritorno. E davanti non c‘è che l‘ombra della croce. Ci sono troppe croci sul nostro cammino per immaginare che la sua possa essere eliminata come un ingombro. Il dolore, è vero, è un di più, ma non siamo ancora stati capaci di farne senza. Noi raccogliamo con venerazione ogni voce che lo riguarda, ma gli parliamo con la nostra, non importa se povera, non importa se appena un sospiro, un faticoso sospiro del cuore, che appena s‘avvia, e da ogni strada, verso di lui. Noi raccogliamo con scrupolo ogni parola di fede o di negazione, ma lo vogliamo sentire, da presso o da lontano, col nostro cuore, ov‘egli è presente per ogni pena che ci rode, per ogni anelito di bene che ci muove, per ogni fantasia di bellezza e di bontà che ci scalda. Parecchi non vi sanno dire ancora se credono in lui o se vi potranno credere domani; tutti però sappiamo ch‘egli è nel nostro cuore prima di ognuno, ch‘egli è presente più di ognuno, più a casa sua in noi di noi stessi, e che il primo e più fermo impegno nostro è per lui. Per lui, più ancora che per la sua parola: per lui, più ancora di ogni suo esempio: per lui, più di ogni cosa sua che lo riguardi sia in cielo che in terra: per lui, come lo vedono i nostri poveri occhi, anche quando non lo vedono: anche quando non possono vederlo come vorrebbero: anche quando si rifiutano di vederlo come deve essere visto. Non tutti lo possono vedere nell‘ora trasfigurata del Tabor, né tutti arrivare « dov‘egli dimora » e stare con lui. Quando si chiama, non tutti ci sentiamo rispondere: quando si picchia, non a tutti la porta si apre: quando si cerca, non sempre si trova. Se uno ci dice: « Abbiamo trovato il Signore »‚ si sentirà rispondere con Natanaele: « Può forse venire qualcosa di buono da Nazareth? ». E se quegli insiste: « Vieni e vedrai... »‚ ci metteremo in strada, sicuri che il Signore avrà per noi la stessa accoglienza: « Ecco un vero Israelita in cui non c‘è frode ». Proprio così: gente che vuol vedere, che va per vedere, poiché la fede, se è un vedere con l‘occhio che c‘impresta il Signore, è anche questo sincero e continuato desiderio di ricerca che ci fa camminare fino alla fine, quando « può venire la notte come può venire il giorno». Se scenderà la notte, domanderemo di rimanere come le Vergini sapienti, custodendo, nella vigile attesa, più che la debole fiamma della lampada, l‘olio per accenderla all‘apparire dello Sposo. Se comincerà il giorno, scenderemo sulle piazze per essere impegnati, poiché « sul far del giorno il padrone esce sulla piazza per impegnare gli operai al lavoro nella sua vigna ». E così ad ogni ora del giorno, fino all‘ora nona, operai di qualsiasi ora, poìché lavora tanto chi porta il peso del sole, come chi porta il peso dell‘attesa, il peso del non vedere, il peso di non essere chiamato. Molti ci domandano, prima di ogni altra cosa: «E voi che ne pensate del Cristo? Chi dite ch‘egli sia?». Una domanda più che ragionevole in un mondo dove la forma vale più del contenuto e il definirsi ha maggiore importanza dell‘essere. Una definizione, per quanto esatta, non ha nulla di impegnativo. La perfetta risposta di Pietro sulla strada di Cesarea dì Filippo non lo salva dal rinnegare tre volte il Maestro, mentre un generico: « Tu, Signore, sai che ti voglio bene » lo impegna fino alla morte e più oltre. Tutti conosciamo la risposta della fede e molti di noi possono ripeterla, per grazia, davanti a chiunque. Se non lo facciamo, è perché siamo persuasi che un‘ostensione puramente letterale, se scompagnata da una testimonianza di vita, allontana invece di avvicinare il lontano: che camminando in silenzio accänto ai molti che cercano, cercatori anche noi di una realtà ineffabile che non si esaurisce in una formula quantunque esatta e significativa, possiamo meglio aiutare ed essere aiutati. Chi dice di veder meglio non sempre è davanti, non sempre è il servitore più operoso, non sempre il più fedele. Siamo malati con chi è malato: forti coi forti: sapienti coi sapienti: pellegrini con chi cammina: cercatori con quelli che non hanno fede o credono di non averla. La vera gerarchia insegnataci dal Vangelo incomincia dall‘« ultimo ». Una fede che prende il passo di chi non crede, non è qualcosa di perduto o di diminuito. Ci chiedete: « Chi è il Cristo per voi? » e vi accontentate di una risposta che può essere di sola memoria! Chiedeteci (prima o dopo non importa: ciò che è vivo non conosce cerimoniale): «Che cosa voi proponete di essere per Cristo?». E vi risponderemo: «Vogliamo essere qualcuno per lui, come egli è qualcuno per noi». Un ponte vuole due testate. Qualcuno anche di qua e che si offra: come si offre l‘Offerto. Qualcuno che si perda e si ritrovi in un libero continuo donarsi, perduto e redento, « figlio dell‘uomo » che si accetta com‘è e che, dietro ineffabili richiami, cammina verso la manifestazione del « Figlio di Dio »‚ punto di arrivo più che linea di partenza. Come e quando si arrivi, nessuno può saperlo e imporlo. Ci possiamo arrivare come Nicodemo o come Zaccheo, come Pietro o come Paolo, come il Buon ladrone o come il Centurione. Rispetto a lui niente è conclusivo, niente vano, anche il più vuoto camminare, anche il più smarrito. Egli ci attende e ci raggiunge, ci rampogna e ci consola, sta all‘avanguardia e alla retroguardia, a seconda del nostro camminare a ritroso o in armonia con noi stessi. Prendere impegno con lui non vuoi dire: mettere il Cristo dalla nostra parte, adattano al nostro passo, misurano col nostro metro, obbligarlo alle nostre strade. Egli cammina con ognuno su tutte le nostre strade, ma non per questo sono sue le nostre strade. Egli cammina sui campi di battaglia, ma nessuno oserà dire che egli li ha voluti. Impegnandoci con lui, intendiamo prima di tutto impedirci dall‘attribuirgli qualsiasi cosa nostra che lo oscuri e lo diminuisca. Ci impegnamo a seguirlo, non a farci seguire. Se ci tien dietro, è col suo cuore di Buon Pastore che ci tien dietro: siamo degli smarriti ed egli, nella sua carità, viene sulle nostre tracce. Ci impegnamo a seguirlo, costi quello che costi, perché « gli uccelli dell‘aria hanno i loro nidi, le volpi le loro tane, e il Figlio dell‘Uomo non ha dove posare il capo ». Ci impegnamo a seguirlo senza guardare indietro, senza commiati, senza rimpianti, senza nostalgie di cose, senza chiedergli dove sia e se ci può prendere: a seguirlo sino alla fine, senza chiedergli su quale monte né su quale croce potremo dire il nostro « consummatum est »‚ senza chiedergli che ci darà per le cose che abbiamo abbandonate. Se ci prende con sé, se ci fa lavorare, se ci manda come pecore in mezzo ai lupi, col suo nome nel cuore più che sul labbro, noi saremo contenti. Una sola cosa osiamo chiedergli: che ci chiami « amico »‚ anche quando stiamo per tradirlo. Sotto quel nome, il nostro povero cuore trasalirà nella certezza di essere stato portato al di là del limite umano. Conosciamo i nostri limiti: i limiti del nostro slancio, i limiti dei nostro cuore, i limiti della nostra volontà, i limiti della nostra fedeltà. Ci sentiamo uomini e così poveri uomini che non siamo sicuri di niente di ciò che ci riguarda. Ci sentiamo viandanti e vorremmo, prima che cali la sera, godere il nostro breve passaggio. L‘impegno ci spinge più in là: verso Qualcuno che resti anche quando noi passiamo: verso Qualcuno che ci prenda in mano il nostro cuore se il cuore non regge al salire. Seguendolo, non sappiamo di preciso se lo raggiungeremo, né dove lo raggiungeremo: sappiamo solo di camminare sulle orme di colui che per avere preso impegno con la verità segnò di sangue il proprio sentiero. Sappiamo di non essere più soli, qualunque sia la nostra strada. Chi ha qualcuno davanti, non si ferma più e nessuno più lo ferma, neanche la morte, perché lui è più forte della morte. « Et etiam simortuusfuenit, vivet... ». In questa vigilia di «novità »‚ c‘è in molti un sofferto bisogno di non disperdersi, per essere utili a sé e agli altri. Ogni dispersione incomincia ad essere giudicata una colpa verso una comune vocazione temporale. La sabbia che non fa blocco, il vento la rapisce. Il lucignolo che non diventa roveto ardente, il vento lo spegne. Il fiocco di neve che non si fa valanga, il sole lo consuma. La goccia d‘acqua che non si fa ruscello, torrente e fiume, il sole l‘asciuga. Tale necessità segna la ragione e il limite di uno stare insieme che può essere di breve durata, come può continuare oltre il dovere di preparare, negli animi e nei fatti, la « novità ». In altre parole: s‘incomincia a capire come gli uomini, che vogliono essere utili per il domani, devono unirsi e intendersi quanto è necessario, per dare di più, senza spegnere o esaurire le fonti del dare, che sono sempre personali. Chiediamo di essere utili, vogliamo essere utili, ma non pensiamo neanche lontanamente a un‘utilità unicamente produttiva e tecnica. Per noi, utile non può avere e non ha che il significato umano ed evangelico di lasciarsi usare e di usarci. II servo utile è l‘opposto del servo neghittoso, che non traffica il talento consegnatogli. L‘utilità è per noi e per gli altri, poiché la nostra vita e la nostra vocazione di uomini e di cristiani è una responsabilità che abbraccia tutto e tutti. L‘anima non la si salva che perdendola, in obbedienza al precetto evangelico e secondo quella divina esigenza che trova la sua regola e la sua conclusione in queste due altre parole: « Sapevi che avrei domandato di mietere anche dove fu seminato »; « Quando avete fatto tutto quello che dovete fare, dite: sono un servo inutile ». Così s‘annuncia l‘impegno: mi spendo fino a divenire un perduto: mi lascio usare fino all‘inutilità di una cosa spremuta sotto il frantoio. Abbiamo considerato questo nostro mondo, e la conclusione, per ragioni che non sappiamo né vogliamo esporre discorsivamente, eccola: la realtà, che è fuori di noi, questa nostra civiltà, coi suoi diversi volti, cui la guerra ha dato un volto unico, non è accettata dalla realtà che abbiamo dentro di noi. C‘è un‘antimonia, almeno fino ad oggi, tra il nostro spirito e questo presente, che non è più il nostro mondo, che non è più la nostra aria. Non definizione, ma presa di posizione: un atteggiamento sofferto, più che sufficiente per darci una fisionomia e farci riconoscere da quanti soffrono religiosamente di non poter accettare il presente. Il rifiuto non ci viene suggerito da criteri ideologici o dottrinali. Questa realtà io non l‘accetto, non perché non entri in un mio schema o in una mia visione del mondo, ma perché ripugna alla mia umanità, che in una sua interiore esigenza non riesce più a sentirla sua. E siccome tale irriducibilità nasce non da ragionamenti o da concetti, ma da un‘istintiva indisposizione, essa non può essere superata né con la logica né con l‘autorità. Ci vuole una trasformazione vitale, che può effettuarsi tanto nella realtà esteriore che in quella interiore e che si chiama conversione. Nessun processo quindi, nessuna condanna da parte nostra contro questa civiltà. Per noi, più che superata, è inaccettabile, e il suo durare, se può aumentare la nostra angoscia, non potrà cambiare il nostro sentimento. Con questo non vogliamo disconoscere o negare i valori che hanno operato in essa e che vi permangono, i quali, lungi dal perdersi, passeranno nella realtà di domani come patrimonio, ormai acquisito, dell‘uomo. Lo spirito che presiedette al formarsi della civiltà occidentale è già fuori di tale costruzione come ne siamo fuori noi. Ne siamo fuori perché non vi abbiamo più avvertito la presenza cristiana, che, agli inizi, le diede impulso e nome. Il processo e la condanna di una civiltà vengono fatti non dall‘uomo, ma dalla storia, vale a dire dal suo stesso procedere che ogni giorno più ne disvela il volto disumano. Noi siamo quindi anti-niente e anti-nessuno. Di fronte a sistemi sociali e a interessi che nonostante l‘immane sforzo compiuto per occuparci l‘anima non vi sono riusciti, noi ci disponiamo secondo il consiglio evangelico: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti». Credo che basti questa annotazione conclusiva per fissare il carattere inconfondibile di una rivolta ideale, che rifiuta sdegnosamente i motivi delle piccole e subito addomesticate rivolte. Abbiamo dichiarato il nostro atteggiamento: per meglio giudicarlo, vediamo come hanno reagito e reagiscono i giovani. Trascurando le sfumature, fisso le loro principali tendenze. C‘è un conformismo iniziale, non responsabile, né impegnativo. Al principio, ognuno si cobra dell‘ambiente in cui vive, ne assume le idee, i gusti, i sentimenti, il linguaggio. Più tardi, quando uno prende coscienza di sé e si sente spinto verso una forma personale di condotta umana, il conformismo iniziale può essere mantenuto in buona fede o continuato per motivi utilitani o per neghittosità. I primi son degli onesti; gli utilitari e i neghittosi, un po‘ meno. Altri, con lealtà che va subito riconosciuta, rimangono legati a una concezione di vita, che non si sentono di accettare così com‘è, ma che confidano di migliorare, credendo di ravvisare in essa le possibilità di una purificazione e di un perfezionamento. Quanti siano questi riformatori e come si raggruppino, è una statistica che non c‘interessa, come non c‘interessa di contare coloro che si sono staccati dalla corrente per delusione. Non essendo arrivati ai posti su cui avevano puntato, superati nella corsa da concorrenti meglio allenati, si sono messi all‘opposizione. Opposizione negoziata e negoziabile sempre, poiché se si riaprisse la speranza di una prebenda riprenderebbero subito il loro posto. Così non c‘interessano quelli che s‘imbarcano col salvagente, pronti, appena un pericolo è in vista, a buttarsi nelle braccia di una qualsiasi avventura, purché offra una certa garanzia di successo. Numerosissimi sono coloro che si acconten~~ tano della insoddisfazione e s‘ammantano della propria pena, rifiutandosi all‘agonia che prepara la novità. Estranei ad ogni sforzo come ad ogni passione, s‘accontentano di prelevare dalla civiltà che condannano, le « decime » del loro star bene, senza riconoscenza, senza devozione, senza impegno. Parecchi giovani intellettuali, per difendersi da un mondo cui non consentono, s‘abbandonano ad un criticismo sconsolato, che, da difesa naturale quale può essere, diventa tormento e dissolvimento interiore. Non potendo agire sul di fuori, macinano se stessi fino a polverizzarsi: critici improduttivi in letteratura, frammentaristi in arte, scettici in filosofia. In luogo di giudicare e di condannare, mi sforzo di capire anche la nobiltà nascosta sotto questo nullismo e apprezzo una sofferenza che può ritrovarsi nell‘azione se domani qualcuno li aiuterà a sentire che quaggiù c‘è ancora qualche cosa per cui valga la pena di lottare e di soffrire. Noi sentiamo di non poter rimanere né estranei, né indifferenti, né paghi del nostro tormento, come non crediamo alle possibilità di una evoluzione interna della nostra civiltà. Perciò non le chiediamo nulla, né le sputiamo addosso, né le facciamo la corte per ereditare qualche cosa alla sua morte. Non ci domandiamo neppure quando e come finirà questa giornata, se avremo, al tramonto, ancora un po‘ di respiro umano o se saremo inghiottiti dalla barbarie che abbiamo scatenato dentro e fuori di noi. Non aspettiamo nessun crollo, né il sorgere del nuovo con fede avveniristica. Il nostro impegno è decisamente fissato nel limite del tempo e delle forze che ci furono assegnate dalla Provvidenza. Il tempo è l‘oggi: le forze, tutto quello che ci è stato dato per servire da uomini la nostra vocazione temporale ed eterna. Nessuno di noi può né vuole rimanere spettatore passivo e terrorizzato della fine di un mondo, come non può né vuole evadere in nessun modo, o per disgusto o per sbagliata difesa di se stesso. Come Sansone, siamo legati alle sorti di questo mondo fatiscente e rischiamo consapevolmente ogni cosa nostra nell‘avventura di condurlo verso la sua conclusione provvidenziale. Un mondo finisce, quando sull‘orizzonte della storia appaiono uomini nuovi che ne raccolgano vitalmente l‘eredità sciupata da amministratori infingardi o prodighi. «Il Regno dei cieli patisce violenza». I galantuomini d‘ieri credevano di poter salvare il mondo tappandosi in casa al primo rumore di folla; ma la rivoluzione non la si fa dietro le griglie sprangate. Solo chi si misura nella folla col proprio cuore e confronta sulla strada e sulla barricata la propria anima, può sperare di essere ascoltato in un‘ora non lontana, quando il pensar bene, disgiunto dal pagare di persona, non sarà neanche preso in considerazione. Questo, almeno, crediamo di averlo capito, come abbiamo capito che con belle prediche non si fa camminare il mondo. Molti diranno che abbiamo abbandonato un‘illusione per prenderne una più pericolosa. Per molti, infatti, non c‘è che un pericolo, quello di mettersi di traverso agli avvenimenti, con la pretesa di convogliarli verso un meglio che non sia l‘utile immediato di qualcuno. Secondo una maniera comune di pensare, dannarsi e rischiare la vita per una prebenda, è ragionevole: dannarsi e rischiare la vita per vedere se si può trovare un senso al vivere e al soffrire, è supremamente stupido. Il Vangelo però chiama costoro « uomini di buona volontà ». In tale compagnia ci sentiamo abbastanza sicuri di non perdere, qualunque sia la conclusione esteriore del nostro sforzo, né la ragione né la dignità della nostra giornata terrena. Poiché la nostra avventura di « uomini di buona volontà » incomincia proprio da questo punto, è bene indicare anche per quali strade noi intendiamo ordinare il nostro impegno. Due sono le strade che si possono percorrere: quella pagana, irreligiosa e disumana; quella cristiana, religiosa e umana. Si può essere pagani anche sotto insegne cristiane, e irreligiosi anche se tutori di cose di religione. Batte una strada pagana chi accetta le disuguaglianze sociali come fatalità che vanno mantenute con ogni mezzo per il bene comune, con la conseguente supremazia di questi o quegli individui, di questa o quella comunità. Noi riconosciamo una gerarchia di valori personali e collettivi, ove il primo stia come colui che serva. È pagano nell‘anima chi accetta l‘ingiustizia e l‘oppressione col segreto proposito di riuscire a mettersi tra i privilegiati e gli oppressori: chi ha paura di ogni voce libera e di ogni sentimento dì pietà: chi crede nell‘ordine senza chiedersi se l‘ordine non è piuttosto un disordine costituito: chi esalta il dovere per il dovere, senza por mente se sia sorretto o no da un fondamento etico. Di esperienze e tendenze pagane è intessuta questa nostra civiltà cristiana, ove numero, quantità, potenza hanno sostituito le libere forze dello spirito. Tale disumanità ci ha portati d‘istinto verso l‘altra strada, senza lasciarci fermare dallo spettacolo tutt‘altro che edificante di molti cristiani, che, specialmente nei fatti sociali, vanno assumendo tremende responsabilità di fronte alla storia. Perché abbiamo fede nella Provvidenza, che dispone uomini e avvenimenti secondo un ordine che sfugge al nostro corto vedere, noi non ci crediamo dispensati dal lavorare con responsabilità nostra, né ci rifiutiamo di camminare con chiunque ha rettitudine d‘intenti e di opere. È finito il tempo di fare lo spettatore, sotto il pretesto che si è onesti e cristiani. Troppi ancora hanno le mani pulite perché non hanno mai fatto niente. Un cristiano, che non accetta il rischio di perdersi per mantenersi fedele a un impegno di salvezza, non è degno d‘impegnarsi col Cristo.
Mercoledì, 02 giugno 2004
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