PROFILI
PAOLO PEGORARO: PAR LAGERKVIST

[Dal mensile "Letture", n. 645, marzo 2008 col titolo "Par Lagerkvist" e il sommario "Umanista ateo avverso a ogni nichilismo, il Nobel svedese pose al centro della sua opera le questioni fondamentali dell'uomo. Nelle forme dimesse della sua narrativa erompe il fuoco di un 'posseduto' da Dio"]
Quando un corteo di milioni di morti parte per interrogare Dio sul senso delle loro sofferte esistenze e, dopo secoli di cammino, lo incontra sotto le spoglie di un robusto anziano intento a segare legna, si sente rispondere: "Mi sono soltanto proposto questo: che voi mai non doveste sentirvi contenti di qualsiasi cosa". Quarantadue anni dopo, Par Lagerkvist confessava per bocca di un suo personaggio: "In realta' non volevo ne' la pace, ne' la luce, ne' il riposo sicuro nel grembo di Dio. Volevo ardere nel fuoco dell'amore" (Pellegrino sul mare). Proprio l'inquietudine, compresa come desiderio vivo soltanto finche' inesaudito, e' lo stigma impresso sulla sua intera produzione, scorticata da un infinito desiderio di vita nonostante l'inconciliabile certezza del niente dopo la morte.
Lagerkvist e' un essenzialista: cresce nei paesaggi spogli dello Smaland, e' plasmato prima dall'epica poderosa quanto elementare del folklore e degli onnipresenti racconti biblici, poi dalla scansione meccanica del teatro religioso tradizionale, infine dalla scomposizione geometrica dell'immagine che Cezanne Matisse e Picasso andavano inaugurando in quegli anni. Il suo sguardo e' obbligato a spogliare, denudare e scarnificare fino a non scorgere altro che l'arida ossatura dell'esistenza. Eppure qualcosa d'indomito continua a scalpitare entro lo steccato della sua scrittura scabra, un fastidioso pungolo ne accresce l'irrequietezza fino a scalciare via ogni ordinata costruzione. E mentre simmetrie e antitesi saltano per aria, risuona un galoppo furente lungo spazi incolmabili, deserti e tenebrosi, trafitti dalla gelida luce delle stelle. E' il panorama etimologico del desiderio, immagine frequentissima nelle sue pagine.
Lagerkvist intitolo' la prima parte della propria autobiografia Ospite della realta' (1925) esplicando immediatamente questa appercezione di se' come straniero, viaggiatore e infine pellegrino dell'infinito. Anders - il protagonista dietro cui si cela Lagerkvist - e' un bambino che vive un'infanzia pregna di amore familiare e non esente da momenti di idilliaca spensieratezza, ma su questo sfondo sereno si moltiplicano i presagi di morte. Anders e' un bambino precocemente sconvolto dal fatto che le cose belle sono destinate a sparire. Un innocuo commento a un gioco scatena l'angosciosa domanda su chi morira' per primo nella sua famiglia. Il bambino non puo' venire a patti con la "mostruosita'" della morte e si rifugia nel bosco, dove sfoga una preghiera accorata e istintiva perche' tutti possano vivere. Quest'invocazione panica gli e' imposta dal suo stesso corpo, mentre il rappacificante fatalismo che impregna il pietismo tradizionale appreso in casa, a scuola, in una sede dell'Esercito della Salvezza - tutti luoghi chiusi - gli provoca un permanente senso di soffocamento e oppressione sul petto. Anders, kafkianamente, e' attratto dalla calda religiosita' di quel vivere uniti, ma non puo' sopportarne la pesante immobilita', i sospiri, l'implicita repressione. Il suo slancio vitalistico si combina alla ribellione individuale, ma la morte della nonna frustra ogni progetto: d'improvviso e' "come se la vita non esistesse piu'".
Ne' la fede istituzionale ne' la religiosita' naturale del bosco possono rettificare il corso degli eventi, proprio come gli conferma la "nuova dottrina" che ha appreso a scuola: il darwinismo. La sconfitta della nonna/madre - capofila di una lunga serie d'incantevoli personaggi femminili che placano gli irrequieti protagonisti di Lagerkvist - presenta il dramma della vita innocente ineluttabilmente sopraffatta dalla morte. Le donne di Lagerkvist saranno sempre incarnazioni o messaggeri della vita stessa, piuttosto che semplici "generatrici" di vita, esseri di un'antica stirpe che si aggirano in questo mondo "come se esse fossero la realta' piu' piena, e insieme quasi non si fanno scorgere. Sembrano sapere gia' con certezza che non saranno cancellate, che esisteranno per sempre, che non accadra' loro alcunche' di male". Tanto piu' inaccettabile la loro scomparsa, perche' aumenta la desolazione del mondo.
Il processo di apprendimento della tragedia che presiede a Ospite della realta' e' ora completo: Anders comprende che non solo non si e' liberi di vivere come individui, ma non si e' neppure liberi di vivere, semplicemente.
Il suo insopprimibile bisogno di piu' vita e di vita autentica rimane doppiamente inevaso, ma proprio per questo arde ancora con forza ulteriore in quel buio che tutto gli pare ingoiare. Se l'orrore della morte fisica sara' retaggio soltanto di alcuni personaggi - come Erode e Barabba -, il tratto comune a tutti sara' il pungente anelito a un'ulteriorita'.
Fuori dal regno della morte In un significativo cammeo posto nelle prime pagine di Ospite della realta' il vecchio Jonsson, che sega legna da una vita, lamenta che nessuno lo abbia mai ringraziato di non essere morto. Se non fosse per il suo mestiere in apparenza tanto umile, spiega poi, chi avrebbe salvato i compaesani dall'impietoso gelo scandinavo? La singolare immagine si ricollega a Il sorriso eterno (1920), dove nientemeno che Dio compare nelle stesse singolari vesti di garante della vita biologica, se non del suo senso. Il dramma della morte appare dalla prima riga: l'ambientazione e' un oltretomba vuoto e buio, simile all'Ade o allo sheol, dove le anime hanno pero' conservato almeno una parte dei propri ricordi. Questa immagine dell'aldila' - un deserto buio e sterminato - rimarra' invariata anche nell'ultima produzione (La Terra Santa), testimonio della permanente incredulita' dell'autore in una nuova vita, pure avvertendone la necessita'.
Il sorriso eterno rappresenta, inoltre, un primo tentativo di ricomporre la dicotomia individuo/comunita'.
La prima parte dell'opera consiste - almeno in apparenza - in un susseguirsi di monologhi tra loro slegati, rendendo il romanzo molto simile a un copione teatrale. Ma se da un lato gli "interlocutori" non si rivolgono la parola, dall'altro i racconti si rilanciano l'un l'altro mediante corrispondenze e antitesi, suscitando un "effetto eco" ripreso nell'atto unico Fate vivere l'uomo (1949). La scelta risponde a un'esigenza metafisica prima che stilistica. Il grido della rivolta che convince i defunti a cercare Dio per interrogarlo adopera come grimaldello della coscienza la solitudine: "Cerchiamo e cerchiamo, ma ognuno non trova che se stesso [...] Non posso sopportare la mia solitudine in uno spazio che non ha fine. Voglio cercare dio, cio' che e' sempre vero".
Tuttavia, mentre le schiere di defunti si radunano e s'incamminano, le insufficienze dei singoli caratteri sembrano compensarsi e conciliarsi nell'unico corpo dell'umanita'. Poiche' "nessuno era cosi' complicato o bizzarro che non esistessero alcuni milioni di esseri simili a lui" scompaiono lo sconforto e la disperazione. Improvvisamente l'umanita' li' convenuta da tutte le epoche si avvede che "tutto era in ordine, tutto era come doveva. Rimasero sbalorditi. Poi li riempi' una profonda soddisfazione, una gioia mista a riconoscenza. [...] Tutto somigliava troppo a cio' che essi avevano bramato durante l'intera vita". A convincere i defunti dell'esistenza di un senso ultimo e' quest'esperienza, piuttosto che le smilze risposte del dio-taglialegna, concrezione dell'infinito desiderio di vita che l'umanita' tutta condivide ("Un uomo unico non puo' desiderare di aver un dio; ma per noi milioni bisogna che dio esista"). Alla fine ognuno trova in se' "qualcosa di luminoso" e, come tante stelle, si separano nella tenebra vuota; pero' non piu' all'insegna della morte, come nell'incipit, ma paradossalmente per "continuare a vivere".
Oltre questa vita che non basta Si tratta di una breve e felice parentesi. Lagerkvist sperimenta in questi anni il dissidio tra realizzazione personale e compromessi necessari con la vita. Nel 1918 ha sposato Karen Sorensen - "l'essere spaventoso che io amo" - e ha avuto una figlia, Elin, ma gli allestimenti scenici, i contatti editoriali e la febbrile ricerca d'ispirazione nelle capitali della cultura europea lo costringono a viaggi continui. I ricavati dalla pubblicazione delle sue opere sperimentali e dai suoi articoli di critica sono irregolari, e la famiglia e' costretta a traslocare di albergo in albergo, tra gravi stenti e continue richieste di prestiti al fratello Gunnar. La piccola Elin stenta a riconoscere il padre, che nell'autunno del 1923 propone pacatamente il divorzio. La separazione avviene due anni dopo, in concomitanza con la storia con l'insegnante Elaine Sandels e l'inizio di una fase piu' stabile della sua vita. Il precedente fallimento matrimoniale e il senso di colpa verso la giovane figlia segneranno pero' fortemente le opere successive. La mia parola e' no (1927) e' il fiammeggiante proclama di Lagerkvist in difesa dell'eternita' che ha preso dimora nell'uomo. La polemica, parzialmente antifreudiana, e' verso quanti riducono il patrimonio spirituale a lucidita' di sguardo, impietosa intelligenza, capacita' di analisi e dissezione: gli scettici, in altre parole, parassiti dell'esistenza, maestri del sospetto e meschini denunciatori delle altrui colpe su cui Lagerkvist plasmera' personaggi dal volto vizzo, anonimi e universali, come il nano dell'omonimo romanzo, la vecchia serva della Sibilla o il piccolo guercio che accusa Barabba. Speculari a loro vi sono i puri di cuore, coloro che vedono soltanto il bene, personaggi altrettanto anonimi e universali come il piccolo servo dell'oracolo che aiuta la Sibilla o il converso che soccorre Assuero: sono questi ingenui e coraggiosi credenti "i grandi forzieri su cui noi tutti contiamo".
Ma il secondo e piu' grande avversario dell'uomo e' la vita stessa, sempre insufficiente e castrante rispetto all'esigenza d'infinito che lo abita, poiche' "essere uomo e' avere fame", "fame di perfezione", davanti alla quale la felicita' terrena si rivela nostalgia. Perfetta concrezione di questo dissidio e' il vecchio Boman in Colui che pote' rivivere la sua vita (1928), la cui gamba di legno reifica l'amputazione dei desideri personali e il necessario adattarsi ai limiti dell'esistenza. Boman zoppica ogni mattina al mercato per vendere qualcosa, poi rammenta la propria intima verita': il vero Boman non e' quello, "perche' il vecchio Boman e' sogni, lui e' sogni
[...] Lo siamo tutti".
L'umanesimo di Lagerkvist si nutre qui di una potente dimensione prometeica: se da un lato e' necessario credere con fervore nell'altissima dignita' dell'uomo e nella sua superiorita' sulla vita, dall'altro e' solo da se stesso che puo' giungergli un qualche divino riscatto. E se l'uomo e' tutto questo, da dove viene il male?
Male senza nome e senza tempo Nel 1933, di ritorno da un lungo viaggio presso le civilta' fondatrici dell'Europa, Palestina e Grecia, Lagerkvist attraversa un'Italia e una Germania eccitate dall'ebbra ascesa al potere dei nazionalismi fascisti, da lui prontamente bollati come totalitarismi "barbarici". Nasce cosi' Il boia, opera apertamente politica trasfigurata pero' su un piu' ampio sfondo, come avverra' per lo stalinismo ne L'uomo senz'anima. Il boia e' un dittico dove l'eterna figura del carnefice e' guardata prima con superstizioso rispetto in un'osteria medioevale, poi con untuosa piaggeria in un club nazista, per concludersi infine con la durissima requisitoria del boia, colui che ha sulla fronte il marchio di Caino ed e' strumento del male nel mondo.
Lagerkvist precisa qui il proprio pensiero sulla redenzione. Da un lato vi e' il Crocifisso, modello di amore per l'umanita' che, perdonando il suo aguzzino, dicono abbia fatto scomparire per un istante il marchio dalla sua fronte; dall'altro vi e' la donna senza nome che ama incondizionatamente il boia, lo tratta come un essere umano, lo carezza e gli dice che il marchio e' scomparso. Se mai esiste salvezza, pertanto, essa e' nel perdono e nell'amore. Tuttavia, prescindendo dalla divinita' del Crocifisso, Lagerkvist non riesce a districarsi dalla spirale di sangue del sacrificio e il suo boia, dopo aver proclamato il fallimento della redenzione, si nomina vero Cristo, antimessia inviato "perche' sia guerra sulla terra agli uomini di cattiva volonta'". L'episodio e' una perfetta verifica dell'assioma di Joseph Ratzinger secondo cui "soltanto l'amore da' un senso e un indirizzo al dolore. Se cosi' non fosse, i veri sacerdoti dinanzi all'ara della croce sarebbero stati i carnefici". L'amore si affaccia pero' nell'ultima pagina del racconto: la donna ricorda al boia che lo aspetta ogni sera per farlo riposare. Qui come altrove, nella narrativa di Lagerkvist, si polarizzano due insiemi semantici: la donna e' colei che crede, l'angelo del focolare che dona conforto, ma allo stesso tempo vincola a se' e vive in spazi chiusi, che provocano un senso di soffocamento; l'uomo e' colui che desidera, il ribelle senza pace costretto al vagabondaggio in lande deserte e buie, flagellate da un vento furioso e confitte dalla luce delle stelle.
La frequenza con cui i personaggi maschili - siano Daniel, Barabba, Tobias, Giovanni o Erode - si macchiano di gravi delitti contro la donna amata risente dei sensi di colpa dell'autore verso la prima moglie, ma ci si puo' domandare se la rappresentazione stessa di queste donne angelicate non sia frutto, almeno in parte, della proiezione di un rapporto d'amore intimo e assoluto con l'Altro che Lagerkvist vuole e nega con pari fermezza. I suoi personaggi, infatti, vivono relazioni che di rado - e mai in maniera significativa - si aprono alla generazione: l'unica dimensione comunitaria rilevante e' la nozione, necessariamente astratta, di "umanita'". Di fronte alla drammatica solitudine dell'uomo, l'esclusivita' speculare dell'appagamento io-tu (Giovanni e Angelica ne Il nano, Paolo e Francesca in Fate vivere l'uomo) assume i contorni dell'unione mistica: nei vertici dell'amore innocente il senso d'incompletezza e l'infinito desiderio dell'uomo possono lambire, anche se per un solo istante, la pienezza di vita che esigono. Quindi anche l'amore, come la felicita', e' una forma di nostalgia.
L'enigma del male s'impone con prepotenza ne Il nano (1944), uno dei massimi capolavori di Lagerkvist, partorito dopo un'angosciosa crisi creativa. Il nano e' l'unico personaggio del romanzo a non avere nome: egli e' il diabolus ex machina, il cuore di tenebra che catalizza e attua i sentimenti piu' antiumani covati dal Potere, anche quando indossa le vesti umaniste del principe rinascimentale Leone, uomo che s'interessa a tutto ma non aderisce a nulla. Il nano e' un'appendice del principe, l'ombra perpetuamente assisa alle sue spalle, la bassezza morale cui egli e' disposto a ricorrere quando i mezzi leciti non sortiscono effetto. "Credono che sia io a spaventarli - afferma il nano, riferendosi agli uomini che lo evitano -, e invece e' il nano nascosto dentro di loro, quell'essere simile all'uomo, dal volto di scimmia, che leva la testa dal profondo della loro anima [...] E sono deformi senza che ne traspaia nulla". Ed e' nelle profondita' dell'anima, metaforizzate nelle segrete del castello, che il principe Leone rinchiudera' il nano dopo averne sfruttato la perfidia: rimozione inutile, egli lo sa bene, perche' il signore non potra' governare a lungo senza ricorrere al suo nano. Essere completo perche' appartiene perfettamente a se stesso, esecratore universale che arde di odio e sprezza quell'"orribile peccato" che e' l'amore, il nano e' "inattaccabile, indistruttibile, incrollabile" come il nichilismo di cui e' sacerdote. Celebra due sinistre antieucaristie: la prima e' una parodia carnevalesca, dove tutti i partecipanti sono aspersi con l'amaro vino dell'odio, mentre la seconda e' un banchetto di "riappacificazione" con il casato vicino che si concludera' in carneficina.
Infallibile conoscitore delle miserie umane, il nano e' pero' inabile a scorgere le stelle o a stupirsi o a partecipare ad alcunche': sua nemesi e' il falstaffiano don Riccardo, un volgare "buffone che ama la vita" in tutte le sue forme, pericoloso destabilizzatore da eliminare appena se ne presenta l'occasione. C'e' solo un personaggio che il nano apprezza sempre, incondizionatamente, ed e' il mercenario Boccarossa, brutale monolito d'istinti che non ha la debolezza di un'anima ne' il rallentante tormento di un pensiero: piu' appetibile del potere, in altre parole, vi e' solo la tirannica imposizione del potere.
La saga dei perseguitati da Dio Il secondo conflitto mondiale e la meditazione sul male focalizzano ancora di piu' Lagerkvist, se possibile, su un'interrogazione esclusiva e ossessiva attorno il mistero di Dio. La nuova fase lo accompagnera' per oltre un decennio, durante la stesura di cinque romanzi che proseguono una lunga riflessione, quasi fossero una medesima, tortuosa saga dei destini umani.
Barabba (1953), come la Sibilla (1956), l'ebreo errante Assuero (1960), l'anomalo pellegrino Tobias (1962) o l'ex prete Giovanni (1964) sono personaggi che subiscono il tocco bruciante della divinita' e ne hanno la vita irrevocabilmente stravolta. "E' pericoloso incontrare un dio" ricorda la Sibilla, perche' - che sia per la luce o per le tenebre, che venga intesa come elezione o come maledizione - la svolta impressa all'esistenza umana da quell'incontro arbitrariamente imposto dall'alto e' un fatto incontrovertibile. Lagerkvist, che nel pamphlet Il pugno chiuso (1934) si e' definito "credente senza fede" e "ateo religioso", ne e' convinto: proprio come il cristiano porta nel suo il nome di colui al quale crede, cosi' l'a-teo e' identificato attraverso il suo avversario. Tale e' Barabba, colui che sul rovescio della propria piastra di schiavo reca inciso il nome di Dio sbarrato da una croce. Il nome di Dio e' negato, non assente, perche' Barabba desidera credere nonostante non abbia un dio: tra la sua incapacita' di credere e la volonta' nullificatrice del nano c'e' un'abissale differenza.
Barabba ha ricevuto la sua rivelazione nelle tenebre che avvolgono il Golgota come un nuovo Sinai: cio' che e' luce per gli uni e' buio per gli altri (Es 14,20), ma paradossalmente questa oscurita' puo' essere vista e, spirando, egli pare dialogare con essa. Sahak, lo schiavo cristiano, dira' al guercio che il suo Dio e' anche nel buio (Sal 138,11-12). Egli se ne ammanta e colma ogni cosa della sua presenza/assenza, come scrivera' Lagerkvist quello stesso anno, nella sua ultima raccolta di poesie. Dopo il 1953, infatti, Lagerkvist si dedica soltanto alla prosa. Sono romanzi poveri di azione che si reggono su grandi blocchi di monologhi, dilatando quella tecnica gia' adoperata ne Il sorriso eterno, a dire che le esistenze umane sono talmente incommensurabili da poter essere solamente giustapposte. Ne La sibilla (1956) conosciamo altri due "perseguitati da Dio": la Pizia di Delfi, una Madonna pagana che ha respinto il passionale furor della divinita' per sperimentare l'amore terreno, e l'ebreo errante Assuero, colui che rifiuto' il riposo al Crocifisso e per questo non avra' il riposo della morte. In quest'opera a essere sottolineata e' soprattutto l'imperscrutabilita' del dio, accentuata dall'ambientazione pagana: egli e' la conciliazione degli opposti, "futile e insieme pieno di un significato"; egli punisce e offre riparo, "e' un enigma che non deve essere risolto, ma deve esistere [...] per affliggerci sempre". La Pizia spiega ad Assuero che anche il suo odio per Dio "e' esperienza del divino". Cosi', ne La morte di Assuero (1960), solo quando l'ebreo errante ripone il proprio risentimento contro il rabbi di Nazaret e riconosce di aver appreso da lui che la fede nella vita e' piu' importante della vita stessa, puo' finalmente morire. E sebbene Assuero respinga la divinita' di Gesu', egli spira con una fulminante professione di fede sulle labbra: oltre "tutte le apparenze di santita', ci deve pur essere cio' che e' realmente santo. Io lo credo, ne sono convinto". Nello stesso romanzo, l'eterno e insensato vagabondare di Assuero s'incrocia con il pellegrinaggio di Tobias, calco grottesco del Tobia biblico (Tb 6,1), anch'egli accompagnato da un cane e, invece che da un angelo, da una fanciulla in tutto simile a una ninfa dei boschi. La staffetta del desiderio prosegue con Pellegrino sul mare (1962), dove si aggiunge il corsaro Giovanni, ex prete sedotto dall'irrequietezza senza posa del mare.
Il medaglione vuoto Gia' ne Il nano era apparsa l'immagine di un medaglione, portato al collo dall'innocente principe Giovanni e contenente il ritratto della madre, donna di leggendaria bonta' "che dicono sia in paradiso"; morto il principino, il medaglione passa all'amata Angelica e le ispira "un immenso desiderio di abbandonare questo mondo". In Pellegrino sul mare il medaglione torna in scena al collo di un altro Giovanni, il corsaro, dopo averlo sottratto a una donna che lo riteneva indispensabile perche' contiene il volto del suo amante. Invece e' vuoto: dunque "il suo vero amore non esisteva"? Ne La Terra Santa (1964), il capitolo piu' allegorico della saga, Giovanni e Tobias sono sbarcati in una plaga crepuscolare dove tutto e' gia' avvenuto e rimangono solo rovine e cose senza nome, un deserto sempre piu' irreale e simile a un Ade a cielo aperto. Giovanni, sfinito, ha al collo il medaglione, ma quando una misteriosa donna - un'allegoria della Disperazione? - glielo sfila, egli muore. Nelle ultime pagine Tobias s'imbatte in una piccola cappella mariana: l'immagine sacra si anima e si trasfigura nella giovane amata da Tobias in gioventu', di cui ha inconsapevolmente causato la morte. La ragazza lo conforta, gli sfila il medaglione e anche il pacificato Tobias spira. Il medaglione vuoto, oggetto inutile ma indispensabile per vivere, e' la bussola del desiderio che accompagna i pellegrini di Lagerkvist verso la patria lontana, una terra "che non si e' certi che esista", ne' si puo' raggiungere, ma "soltanto desiderare". La trilogia del Pellegrino culmina in quest'ambivalenza: da un lato, come fa notare la piccola Madonna a Tobias, desiderare soltanto non basta; dall'altro, egli afferma, si puo' desiderare solo cio' che e' sconosciuto. Il medaglione pertanto e' necessariamente vuoto, altrimenti non vi sarebbe ragione di avviare l'incerto pellegrinaggio. E d'altra parte quale immagine potrebbe mai saziare il sanguinante bisogno umano di una vita piena ed eterna? A vivificare tutte le opere di Lagerkvist sara' sempre questa personale fedelta' a un grido, forse inascoltato ma comunque invincibile, che si leva dal cuore di ogni uomo. Quel grido che e' l'invocazione conclusiva di Paolo e Francesca in Fate vivere l'uomo (1949): "E' la vita che e' grande e infinita. Vieni, diletta, viviamo! Per sempre! Attraversiamo le porte delle stelle! Attraverso le porte delle galassie! Che tutto sia senza limiti. Tutto e' senza limiti. Che l'uomo sia felice senza limiti. Fate vivere l'uomo. Senza limiti".
Riscoprire l'atavica modernita' del classico Nel nostro Paese il successo di Barabba - riedito ininterrottamente dal 1951 - ha offuscato la conoscenza della restante produzione di Lagerkvist, varia e altrettanto valida.
Per quanto riguarda la poesia, ricordiamo: Il pino (Scheiwiller, 1939), antologia di testi precedenti al 1926; Barabba e altre opere (Fabbri, 1967), contiene tre raccolte integrali: Canti del cuore, Il genio tutelare, Il paese della sera; Poesie (Rusconi, 1969, ora Guaraldi/Nce, 1991), antologia di testi fino al 1940; La terra della sera. Scritti di Par Lagerkvist (Edizioni di Pagina, 2007), nuova traduzione completa di alcune liriche espunte dall'autore, dell'atto unico Fate vivere l'uomo e degli inediti Appunti per il dio solitario.
Per la narrativa si segnala il volume Le opere (Utet, 1968) e il romanzo Barabba (Jaca Book, 2004). All'editore milanese Iperborea va il merito di diffondere tutt'oggi la conoscenza dell'autore attraverso nuove traduzioni arricchite di prefazioni penetranti: Pellegrino sul mare (Iperborea, 1989); Il sorriso eterno (Iperborea, 1990); Il nano (Iperborea, 1991); Il boia (Iperborea, 1997); La mia parola e' no (Iperborea, 1998); Mariamne (Iperborea/Lampi di stampa, 1999); Barabba. Dramma in due atti (Iperborea, 2004).
Al momento l'unico, prezioso studio monografico e' Par Lagerkvist. Un ospite della realta', di Franco Perrelli (Iperborea, 1998). Per una interpretazione piu' specificatamente religiosa si rimanda a: Enrico Tiozzo, Inquietudine religiosa e ricerca di Dio in Par Lagerkvist (Bulzoni, 1970); Ferdinando Castelli, Volti di Gesu' nella letteratura moderna (San Paolo, 1995); Luigi Giussani, Le mie letture (Bur, 1996).
Giovinezza bohemienne e maturita' appartata 1891 Par Fabian Lagerkvist nasce il 23 maggio a Vaxjo, nello Smaland, regione pietrosa della Svezia meridionale.
1908 Esordisce come poeta con un inno allo scrittore Verner von Heidenstam e gli scrive per sottoporgli alcuni suoi racconti; trent'anni dopo Lagerkvist occupera' il suo seggio tra gli Accademici di Svezia.
1911 Si iscrive all'Universita' di Uppsala. L'anno seguente pubblica il primo libro.
1913 A Parigi, conosce il pittore cubista John Sten e il critico August Brunius che lo introducono a Matisse, Picasso, Cezanne. Nel saggio Ordkonst och Bildkonst (Arte della parola e arte dell'immagine) propone l'uso di una scrittura semplificata, elementare, che abbia per modello i grandi poemi religiosi dell'antichita'.
1916 Conosce l'artista espressionista Henrik Sorensen. Pubblica Angest (Angoscia), prima raccolta poetica di rilievo. Si fidanza con Karen Sorensen e viaggia tra Norvegia, Stoccolma e Copenaghen.
1918 Sposa Karen e nasce la figlia Elin. Nel manifesto Modern teater (Il teatro moderno) attacca il naturalismo ibseniano e ripropone la tradizione dei morality play medioevali, prolungatasi in Shakespeare e Strindberg.
1920 Raggiunge Londra, Parigi e Firenze, lasciando la famiglia sull'orlo della miseria. Sul lago di Como scrive Det eviga leendet (Il sorriso eterno); scende a Roma, Napoli, in Sicilia e in Tunisia.
1925 Esce il volume autobiografico Gast hos verkligheten (Ospite della realta'). Pacifica accettazione del divorzio, consapevole delle proprie mancate responsabilita'. Sposa l'insegnante Elaine Sandels; l'anno dopo nascono i gemelli Bengt e Ulf.
1927 Esce il manifesto del suo "umanesimo di rivolta", Det besegrade livet (La mia parola e' no).
1933 Viaggio alle sorgenti della cultura occidentale - Medio Oriente e Grecia - da cui trarra' Den knutna naven (Il pugno chiuso). L'adattamento teatrale di Bodeln (Il boia) riscuote grande successo come denuncia antinazista.
1940 Eletto Accademico di Svezia. Crisi creativa.
1944 Dvargen (Il nano) lo fa conoscere al grande pubblico. Nuova crisi creativa.
1950 La lettera di Andre' Gide posta come prefazione a Barabbas (Barabba) ne garantisce il successo internazionale. Dal romanzo vengono tratti un film diretto da Alf Sjoberg (1953) e il kolossal di Richard Fleischer (1961) con Anthony Quinn, Vittorio Gassman e Silvana Mangano: alla sua proiezione Par ride e la moglie dorme.
1951 Assegnazione del Premio Nobel per la letteratura.
1953 Aftonlandet (La terra della sera), ultima opera di poesia.
1956 Sibyllan (La sibilla). Lagerkvist vive in estremo ritiro.
1960-64 Escono i volumi della "trilogia del Pellegrino": Ahasverus dod (La morte di Assuero), Pilgrim pa havet (Pellegrino sul mare), Det heliga landet (La Terra Santa).
1967 Morte della moglie Elaine, colpita da emorragia cerebrale l'anno prima.
Esce Mariamne.
1974 Muore l'11 luglio per gravi scompensi cardiaci.

Tratto da
Notizie minime de
La nonviolenza è in cammino


proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza

Direttore responsabile: Peppe Sini.
Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it

Arretrati in:
http://lists.peacelink.it/

Numero 719 del 2 febbraio 2009



Luned́ 02 Febbraio,2009 Ore: 14:39