La cacciata dal carcere

di Jonathan Terino,
pastore valdese Biella.


Dal mese di ottobre del 2000, dopo insistenti domande, ho ottenuto dalla Direzione del carcere (allora provvisoria) di poter celebrare in maniera sobria ed informale due culti settimanali, uno di lunedì alle 10.30 con i detenuti "per reati sessuali" e l'altro di mercoledì alle 13.30 con i "comuni". Oltre ai culti (della durata di circa un'ora) mi fermavo a parlare con i detenuti che desideravano un colloquio. Non essendomi stata concessa la cappella del carcere - che io ritenevo parte dell'istituzione civile e laica - per un veto esplicito del generale dei cappellani, mi è stata invece assegnata una stanzetta ristretta al piano terra, che io sono stato ben felice di utilizzare ufficialmente per la celebrazione dei culti valdesi, allestendo dei poster e una tavola per la santa cena (vedi l'articolo comparso su Riforma del 13 aprile 2001); perciò era anche la stanza dei colloqui del ministro valdese. Mi veniva, però, proibita la celebrazione dei culti di domenica. Ogni lunedì salivo al piano di sopra (sempre scortato da un agente) per visitare due detenuti "speciali", accusati di eco terrorismo e altri reati politici.

Oggi le cose sono cambiate. E' mercoledì 20 giugno, sono le 13.30. Per affrettare i tempi d'ingresso, decido di lasciare in macchina la borsa e portare con me solo la Bibbia, il pane per la Santa Cena e l'agenda. A differenza del cappellano, che gode di particolari poteri di mediazione e di trasporto, vengo sempre ispezionato. Devo spesso giustificare il pane e il vino, ingredienti tanto comuni e poco liturgici da solleticare un sorriso beffardo sulle labbra di qualche agente. Tempo fa, prima di poter consegnare una scatola di matite colorate ad un detenuto, ho dovuto attendere il permesso firmato e timbrato dalla direzione.

Come al solito, mi avvicino alle sbarre interne della casa circondariale perché, riconoscendomi, le guardie mi aprano il cancello e mi consegnino la tessera che riporta la foto e qualifica di "ministro di culto". Con questo pass potrò varcare i vari sbarramenti. Ma questa volta, dopo qualche istante di attesa che pare un'eternità, in bilico tra i due cancelli, scrutato da uno dei due agenti con aria di sufficienza, mi viene comunicato con una soddisfazione mal celata che non ho più diritto di accesso al carcere. Si rifiuta di darmi delle spiegazioni e malgrado la mia insistenza, non mi concede di parlare con il Direttore. Mi invita invece a ritirare quella che chiama "la mia roba", indicandomi la stanza d'ingresso laterale dove accedono i familiari dei detenuti. Qui mi trovo circondato da un gruppo di sei o sette guardie (ovviamente armate, ma evidentemente senza molto da fare), mentre la prima, che mi aveva rivolta la parola, mi ripete il divieto perentorio di tornare, indicando un grosso scatolone a terra, dove presumo siano contenute le mie munizioni pericolose o comunque offensive: una croce in legno costruita in carcere da un detenuto pentecostale, piattino e coppa della comunione, vari Nuovi Testamenti dei Gedeoni, vecchi innari, quaderni di canti, scatolette di vino per la santa cena, poster che invitano alla speranza e alla gioia della liberazione annunciata dal laico Gesù di Nazaret, libri della Claudiana, Bibbie e così via. Visto il peso del carico, chiedo ai presenti di aiutarmi almeno a spostare lo scatolone, ma mi viene rinfacciato che questo non sarebbe decisamente il loro lavoro. Ripeto al primo agente che la storia non finirà qui, che mi rivolgerò tramite i canali legittimi dell'ordine civile e democratico alle istanze superiori. Dentro, però, mi sento avvilito e distrutto, forse come mi vogliono loro. Mentre avvicino l'auto, lo scatolone viene spinto all'esterno, e mi trovo sbattuto fuori dal carcere. Il clima di insofferenza sa di quell'ottusità gretta e compiaciuta di epoca fascista che sta tornando di moda almeno dietro le sbarre di Biella. Anche i giornali locali avevano parlato l'anno scorso di pestaggi interni, ed era intervenuto lo stesso Onorevole Gardiol, valdese. Dopo questo impatto inatteso con l'istituzione carceraria, che mi ha colto senza alcun preavviso né interessamento personale da parte della direzione, gloriosamente lontana e indifferente, decido di iniziare una nuova battaglia, forse contro i mulini a vento dell'apatia burocratica, del pregiudizio e del potere clericale latente. Interpellerò i politici, membri della Chiesa valdese, ne parlerò con la Comunità, scriverò ai giornali…poi mi viene in mente che ho una tessera di riconoscimento ottenuta dopo ripetute domande e una lunga attesa e una certa spesa in marche da bollo, come assistente volontario; ne cerco conferma nel portafoglio. Penso di tornare all'assalto con il tesserino, non più in qualità di ministro di culto, ma di volontario. Poi mi rendo conto che potrebbero confiscarmi non solo i diritti di esercitare un ministero pastorale richiesto dai detenuti, ma anche ogni segno di identità istituzionale, per ridurmi alla stregua di un intruso, di un fanatico religioso senza patria. Rinuncio ad un ulteriore tentativo di entrare in comunicazione con l'istituzione. All'interno del carcere rimane l'altra tessera del ministro di culto.

Mi interrogo sui motivi di questa decisione così caustica e impersonale, accompagnata quasi con disprezzo dallo smantellamento meticoloso di ogni segno di presenza valdese nel carcere. Da dove partivano questi ordini eseguiti a puntino? Ripercorrendo le varie fasi del lavoro in carcere, mi rendo conto che sin dall'inizio il cammino solitario è stato controcorrente e in salita. Evidentemente hanno trovato la goccia impercettibile che ha permesso loro di far traboccare il vaso, il pretesto formale e tanto atteso per chiudere questo breve capitolo di rispetto delle diversità e della fede personale sul piano della laicità. Il poco tempo all'aria aperta concesso ai carcerati coincideva in parte con l'orario del culto e non ha favorito la partecipazione agli incontri durante le ultime settimane di sole. Di questa parziale defezione hanno approfittato forse le autorità. Inoltre, ho dimostrato amicizia e ospitato in casa i familiari e amici di un detenuto "politico" ritenuto pericoloso. Questo sabato ci sarà una manifestazione pacifica di compagni anarchici davanti al carcere; la direzione ha sospeso le visite dei familiari per quel giorno.

Tranne qualche eccezione, non ho goduto dell'empatia né della solidarietà degli agenti, degli assistenti sociali ed educatori, i quali mi hanno percepito come elemento spurio, sospetto e tenuto a distanza come straniero di seconda classe. Non avendo chiesto favori al cappellano, non ho goduto di appoggi clericali. Ho inevitabilmente stretto amicizie con molti detenuti, con i quali ho pregato, cantato, spezzato il pane della Comunione, parlato di fede, di politica, di religione, di dignità e di società … e che soprattutto ho ascoltato. Non che abbia mai preteso privilegi o ossequi. Avrei voluto semplicemente essere accolto dall'istituzione carceraria "laica" come un qualsiasi operatore sociale, volontario, psicologo, educatore, che fa con entusiasmo il proprio lavoro senza pretese di superiorità o di mediazione religiosa. Certo, non ho chiesto i privilegi davvero spropositati di cui gode il clero cattolico italiano, e non solo nel carcere. Mi sarebbe bastata la consapevolezza di essere accolto in carcere come cittadino laico e responsabile con un mandato pastorale rivolto a chi, essendo debitamente informato, ne faccia richiesta. In fondo, a noi valdesi sarebbe sufficiente poter lavorare sul territorio entro il quadro istituzionale, nel rispetto degli spazi riconosciuti e accanto ad altri spazi, per creare luoghi (oggi più che mai rari soprattutto nel carcere) di confronto, di ascolto, di celebrazione della Parola e di condivisione dell'Evangelo della liberazione - un annuncio che forse, almeno a Biella, stava diventando eccessivamente rischioso e che andava fermato in tempo. Ma la storia non finisce qui.

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