Dal mese di ottobre del 2000, dopo insistenti domande, ho ottenuto
dalla Direzione del carcere (allora provvisoria) di poter celebrare
in maniera sobria ed informale due culti settimanali, uno di lunedì
alle 10.30 con i detenuti "per reati sessuali" e l'altro di
mercoledì alle 13.30 con i "comuni". Oltre ai culti
(della durata di circa un'ora) mi fermavo a parlare con i detenuti che
desideravano un colloquio. Non essendomi stata concessa la cappella
del carcere - che io ritenevo parte dell'istituzione civile e laica
- per un veto esplicito del generale dei cappellani, mi è stata
invece assegnata una stanzetta ristretta al piano terra, che io sono
stato ben felice di utilizzare ufficialmente per la celebrazione dei
culti valdesi, allestendo dei poster e una tavola per la santa cena
(vedi l'articolo comparso su Riforma del 13 aprile 2001); perciò
era anche la stanza dei colloqui del ministro valdese. Mi veniva, però,
proibita la celebrazione dei culti di domenica. Ogni lunedì salivo
al piano di sopra (sempre scortato da un agente) per visitare due detenuti
"speciali", accusati di eco terrorismo e altri reati politici.
Oggi le cose sono cambiate. E' mercoledì 20 giugno, sono le
13.30. Per affrettare i tempi d'ingresso, decido di lasciare in macchina
la borsa e portare con me solo la Bibbia, il pane per la Santa Cena
e l'agenda. A differenza del cappellano, che gode di particolari poteri
di mediazione e di trasporto, vengo sempre ispezionato. Devo spesso
giustificare il pane e il vino, ingredienti tanto comuni e poco liturgici
da solleticare un sorriso beffardo sulle labbra di qualche agente. Tempo
fa, prima di poter consegnare una scatola di matite colorate ad un detenuto,
ho dovuto attendere il permesso firmato e timbrato dalla direzione.
Come al solito, mi avvicino alle sbarre interne della casa circondariale
perché, riconoscendomi, le guardie mi aprano il cancello e mi
consegnino la tessera che riporta la foto e qualifica di "ministro
di culto". Con questo pass potrò varcare i vari sbarramenti.
Ma questa volta, dopo qualche istante di attesa che pare un'eternità,
in bilico tra i due cancelli, scrutato da uno dei due agenti con aria
di sufficienza, mi viene comunicato con una soddisfazione mal celata
che non ho più diritto di accesso al carcere. Si rifiuta di darmi
delle spiegazioni e malgrado la mia insistenza, non mi concede di parlare
con il Direttore. Mi invita invece a ritirare quella che chiama "la
mia roba", indicandomi la stanza d'ingresso laterale dove accedono
i familiari dei detenuti. Qui mi trovo circondato da un gruppo di sei
o sette guardie (ovviamente armate, ma evidentemente senza molto da
fare), mentre la prima, che mi aveva rivolta la parola, mi ripete il
divieto perentorio di tornare, indicando un grosso scatolone a terra,
dove presumo siano contenute le mie munizioni pericolose o comunque
offensive: una croce in legno costruita in carcere da un detenuto pentecostale,
piattino e coppa della comunione, vari Nuovi Testamenti dei Gedeoni,
vecchi innari, quaderni di canti, scatolette di vino per la santa cena,
poster che invitano alla speranza e alla gioia della liberazione annunciata
dal laico Gesù di Nazaret, libri della Claudiana, Bibbie e così
via. Visto il peso del carico, chiedo ai presenti di aiutarmi almeno
a spostare lo scatolone, ma mi viene rinfacciato che questo non sarebbe
decisamente il loro lavoro. Ripeto al primo agente che la storia non
finirà qui, che mi rivolgerò tramite i canali legittimi
dell'ordine civile e democratico alle istanze superiori. Dentro, però,
mi sento avvilito e distrutto, forse come mi vogliono loro. Mentre avvicino
l'auto, lo scatolone viene spinto all'esterno, e mi trovo sbattuto fuori
dal carcere. Il clima di insofferenza sa di quell'ottusità gretta
e compiaciuta di epoca fascista che sta tornando di moda almeno dietro
le sbarre di Biella. Anche i giornali locali avevano parlato l'anno
scorso di pestaggi interni, ed era intervenuto lo stesso Onorevole Gardiol,
valdese. Dopo questo impatto inatteso con l'istituzione carceraria,
che mi ha colto senza alcun preavviso né interessamento personale
da parte della direzione, gloriosamente lontana e indifferente, decido
di iniziare una nuova battaglia, forse contro i mulini a vento dell'apatia
burocratica, del pregiudizio e del potere clericale latente. Interpellerò
i politici, membri della Chiesa valdese, ne parlerò con la Comunità,
scriverò ai giornali
poi mi viene in mente che ho una tessera
di riconoscimento ottenuta dopo ripetute domande e una lunga attesa
e una certa spesa in marche da bollo, come assistente volontario; ne
cerco conferma nel portafoglio. Penso di tornare all'assalto con il
tesserino, non più in qualità di ministro di culto, ma
di volontario. Poi mi rendo conto che potrebbero confiscarmi non solo
i diritti di esercitare un ministero pastorale richiesto dai detenuti,
ma anche ogni segno di identità istituzionale, per ridurmi alla
stregua di un intruso, di un fanatico religioso senza patria. Rinuncio
ad un ulteriore tentativo di entrare in comunicazione con l'istituzione.
All'interno del carcere rimane l'altra tessera del ministro di culto.
Mi interrogo sui motivi di questa decisione così caustica e
impersonale, accompagnata quasi con disprezzo dallo smantellamento meticoloso
di ogni segno di presenza valdese nel carcere. Da dove partivano questi
ordini eseguiti a puntino? Ripercorrendo le varie fasi del lavoro in
carcere, mi rendo conto che sin dall'inizio il cammino solitario è
stato controcorrente e in salita. Evidentemente hanno trovato la goccia
impercettibile che ha permesso loro di far traboccare il vaso, il pretesto
formale e tanto atteso per chiudere questo breve capitolo di rispetto
delle diversità e della fede personale sul piano della laicità.
Il poco tempo all'aria aperta concesso ai carcerati coincideva in parte
con l'orario del culto e non ha favorito la partecipazione agli incontri
durante le ultime settimane di sole. Di questa parziale defezione hanno
approfittato forse le autorità. Inoltre, ho dimostrato amicizia
e ospitato in casa i familiari e amici di un detenuto "politico"
ritenuto pericoloso. Questo sabato ci sarà una manifestazione
pacifica di compagni anarchici davanti al carcere; la direzione ha sospeso
le visite dei familiari per quel giorno.
Tranne qualche eccezione, non ho goduto dell'empatia né della
solidarietà degli agenti, degli assistenti sociali ed educatori,
i quali mi hanno percepito come elemento spurio, sospetto e tenuto a
distanza come straniero di seconda classe. Non avendo chiesto favori
al cappellano, non ho goduto di appoggi clericali. Ho inevitabilmente
stretto amicizie con molti detenuti, con i quali ho pregato, cantato,
spezzato il pane della Comunione, parlato di fede, di politica, di religione,
di dignità e di società
e che soprattutto ho ascoltato.
Non che abbia mai preteso privilegi o ossequi. Avrei voluto semplicemente
essere accolto dall'istituzione carceraria "laica" come un
qualsiasi operatore sociale, volontario, psicologo, educatore, che fa
con entusiasmo il proprio lavoro senza pretese di superiorità
o di mediazione religiosa. Certo, non ho chiesto i privilegi davvero
spropositati di cui gode il clero cattolico italiano, e non solo nel
carcere. Mi sarebbe bastata la consapevolezza di essere accolto in carcere
come cittadino laico e responsabile con un mandato pastorale rivolto
a chi, essendo debitamente informato, ne faccia richiesta. In fondo,
a noi valdesi sarebbe sufficiente poter lavorare sul territorio entro
il quadro istituzionale, nel rispetto degli spazi riconosciuti e accanto
ad altri spazi, per creare luoghi (oggi più che mai rari soprattutto
nel carcere) di confronto, di ascolto, di celebrazione della Parola
e di condivisione dell'Evangelo della liberazione - un annuncio che
forse, almeno a Biella, stava diventando eccessivamente rischioso e
che andava fermato in tempo. Ma la storia non finisce qui.
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