L’omosessualità tra ipotesi di vizio e programmazione biologica

di Giuseppe P. Fazio

Qualche tempo fa il biologo omosessuale americano Simon LeVay, fondatore dell’Institute of Gay and Lesbian Education, ha elaborato una teoria secondo la quale il comportamento omosessuale non sarebbe da imputare ad una tendenza frutto di abitudini apprese ma ad una condizione biologica innata nella specie umana. Tra i vari oppositori a questa “tesi”, uno in particolare, William Byne, psichiatra al New York State Psychiatric Institute e ricercatore all’Albert Einstein College of Medicine della Yeshiva University di New York, ha evidenziato, tra le altre cose, il fatto che il lavoro di LeVay non è stato, in alcun modo, riprodotto sperimentalmente.

Il Prof. Byne, studioso della struttura cerebrale dell’uomo e degli altri primati e del modo in cui i fattori biologici e sociali interagiscono nell’influenzare il comportamento, ha sottolineato come delle molte presunte differenze sessuali nel cervello umano riferite negli ultimi cento anni, solo una è risultata sistematicamente riscontrabile: la variazione della dimensione del cervello e delle sue strutture in base alla variazione della taglia corporea.

“Inoltre l’ipotesi di Simon LeVay sui meccanismi biologici proposti per spiegare il comportamento omosessuale nel maschio, non è assolutamente in grado di spiegare il comportamento sessuale delle lesbiche né, tantomeno, quello degli adulti bisessuali e certo non può in alcun modo essere generalizzata ed estesa per dare giustificazione del comportamento nelle varie forme di deviazione e di perversione sessuale”.

Tale ipotesi, inoltre, non può spiegare un altro fatto alla luce del quale la sua logica deterministica risulta totalmente infondata: se la persona omosessuale vuole sottoporsi a opportune terapie psicologiche, essa può giungere a guarigione completa? Secondo l’esperienza clinica dello psichiatra olandese Gerard J. M. Van Den Aardweg, oggigiorno uno dei massimi studiosi dell’omosessualità, la guarigione è totale in una percentuale del 30% e negli altri casi, dov’è maggiore un’assuefazione ai contatti omosessuali di tipo nevrotico-ossessivo, è possibile solo attenuare e controllare gli impulsi emotivi.

Ancora, Byne fa notare che il lavoro di LeVay è praticamente inattendibile in quanto tutti i cervelli di maschi omosessuali, utilizzati per lo studio condotto, provengono da pazienti colpiti da AIDS e che, all’epoca del decesso, tutti i soggetti presentavano bassi livelli di testosterone in conseguenza della malattia stessa.

Ovviamente, come al solito, il problema è un altro. Come al solito per affrontare il problema si utilizzano le argomentazioni sbagliate cercando, quando non se ne può più, di tagliare la testa al toro portando verità pseudo scientifiche alle questioni. Il problema non è l’omosessualità in quanto tale, non sono le condotte dei singoli che, fortunatamente, non spetta a noi giudicare: il problema, come sempre più spesso accade, è l’esasperazione di un fenomeno per fini puramente demagogici. La sfortuna vuole che per una larga parte di omosessuali che vive la propria condizione in modo naturale ed “anonimo”, vi sia una minoranza “esibizionista” che pone, erroneamente, l’accento sul gusto sessuale come vincolante per ogni scelta di vita.



03 giugno 2008