Turchia – Armenia
La parola G

Die Zeit, Hamburg – 14 aprile 2009


Di Michael Thumann

I vicini-nemici Turchia e Armenia vogliono [ri?]conciliarsi. Ma in entrambi i Paesi vi è resistenza: i nazionalisti disputano sulla questione del genocidio. (traduzione dal tedesco di José F. Padova)


 
Dopo l’assassinio, per partecipare al lutto erano venuti molti più di 100.000 turchi. “Siamo tutti armeni”, gridavano – per solidarietà. Un prezzolato nazionalista turco diciassettenne nel gennaio 2007 aveva ucciso il giornalista armeno Hrant Dink davanti alla sua redazione, con due colpi alla testa. In quella strada oggi non vi è più nulla da vedere. Nessuna lapide commemorativa ricorda Dink, sulla facciata ricoperta di stucchi nessuna insegna indica più il suo giornale Agos.
 
Soltanto nei corridoi della redazione il ricordo parla ancora. Hrant Dink è appeso a tutte le pareti, anche in quello che fu il suo ufficio. Lì siede oggi il successore di Dink e caporedattore, Etyen Mahçupyan. Un uomo con barba e frasi tendenti al grigio, che non arrivano mai al bianco e nero. All’inizio di questa settimana è ripreso  il processo contro l’assassino nazionalista e i suoi mandanti. “Il processo”, dice Etyen Mahçupyan, “è il tentativo della Turchia di guardare negli occhi la verità”.
 
La Turchia scopre sulla propria terra un popolo minacciato e un vicino passato sotto silenzio: gli Armeni. Del crimine che l’Impero ottomano commise contro di essi oggi gli intellettuali turchi possono parlare senza essere puniti. Il governo turco tratta con quello armeno sulla ripresa dei rapporti diplomatici. Dopo duri negoziati i due Stati si sono ora accordati perfino su una roadmap per la normalizzazione dei loro rapporti.
 
Sono antichi fronti che si aprono, là sul Caucaso. E allora, nulla rimane della contesa circa il genocidio degli armeni nel 1915, che si ricorda ogni 24 aprile? La diaspora armena in Occidente insiste sempre sul riconoscimento del genocidio da parte dei turchi. Ancora e sempre lo Stato turco nega il crimine. Ma una nuova generazione di armeni e turchi e alcuni coraggiosi politici vogliono cambiare tutto ciò.
 
Il gioco del calcio ha avvicinato i due Paesi ostili
Il presidente americano Obama ha dato il tono quando all’inizio di aprile ha abilmente aggirato la parola genocidio. E poi ha esortato turchi e armeni ad avviare relazioni diplomatiche. “Se il presidente degli Stati Uniti avesse usato quella parola”, dice il caporedattore armeno Mahçupyan, “in Turchia avrebbero trionfato i nazionalisti, qualsiasi concessione all’Armenia sarebbe stata una disfatta”. Così il ministro degli Esteri turco si è recato nella capitale armena Erevan, per accelerare le cose.
 
Si negozia sull’apertura del confine, sigillato da 16 anni. Strade e tratti di ferrovia, chiusi, devono nuovamente tornare a vivere. Secondo il desiderio della Turchia Erevan dovrebbe riconoscere la linea di confine e rinunciare ai sogni di un’ “Armenia occidentale”. Si parla anche di ripresa delle relazioni diplomatiche e della costituzione di una commissione comune ai due governi che deve elaborare la storia comune, la questione del genocidio.

 
Tutto questo sarebbe non meno di una rivoluzione diplomatica. Un primo passo risoluto in questa direzione lo ha fatto il presidente Abdullah Gül, conservatore. Proprio durante una partita di calcio. Per l’incontro Armenia contro Turchia volò a Erevan, primo presidente turco a farlo. Gül si spostò con un corteo di macchine recanti le bandiere turca e armena. Per il pranzo con il presidente armeno Sersch Sarkissjan il musulmano credente Gül interruppe il suo digiuno del Ramadan. Nello stadio si udirono, l’uno dopo l’altro, i due inni nazionali, armeno e turco. Gül e Sarkissjan non si fecero sfuggire l’occasione storica e iniziarono a negoziare seriamente. Ad Ankara urlavano i custodi del secolare Graal nazionalistico: “Tradimento!”, a Erevan abbaiavano i nazionalisti: “Nessuna apertura delle frontiere senza riconoscimento del genocidio!”.
 
Le associazioni nazionalistiche in Armenia e nella diaspora non hanno molta considerazione dell’avvicinamento – esse vogliono fare riconoscere il genocidio da molti Parlamenti nel mondo e costringere la Turchia al pentimento e al pagamento delle riparazioni. Alcuni progettano perfino di spostare il confine orientale turco – nell’ufficio di Washington dell’ Armenian National Committee of America pende sul caminetto una carta della Grande Armenia. Eppure in alcuni Paesi il traguardo del riconoscimento del genocidio è stato raggiunto. Timothy Garton Ash, con altri noti storici, si è opposto a questa sorta di “polizia del ricordo”. In Svizzera si è incriminati se si nega il genocidio, in Turchia puniti, se si indica il genocidio con questo termine. Assurdo, dice.
 
Anche da parte turca vi sono forze che vogliono impedire un avvicinamento. L’establishment kemalista ha condotto per anni una sfrontata campagna anti-genocidio. La loro affermazione dominante era che i turchi sarebbero stati essi stessi vittime di un genocidio da parte degli armeni: pile di documenti dovrebbero consolidare questa loro stravagante tesi. Alla menzogna si eressero perfino monumenti. Politici e diplomatici hanno minacciato gli Stati esteri di rappresaglia, se avessero riconosciuto le richieste degli armeni.
 
Un recente rapporto del Thinktanks European Stability Initiative (ESI) indica che la “diplomazia turca sul genocidio è totalmente fallita”. Tutto il mondo parla ora di genocidio contro gli armeni. Gli storici seri, se mettono a confronto i fatti del 1915 con le Convenzioni dell’ONU, non hanno alcun dubbio che di questo si trattò. I nazionalisti turchi secondo l’ESI si trovano in un vicolo cieco, allo stesso modo dei missionari armeni del genocidio. “Le pressioni dall’estero portano soltanto all’inasprimento”, dice Etyen Mahçupyan nella redazione di Agos. “In Turchia la normalizzazione deve venire dall’interno”.
 
Questo oggi si può toccare con mano. Il giornale armeno Agos adesso è il doppio in spessore di quello ai tempi di Hrant Dink. Molti hanno aiutato perché la redazione potesse aumentare fino a raddoppiare il personale. Ora Agos spera nell’apertura del confine con l’Armenia per espandersi ancor più. In Turchia si restaurano chiese armene, una radio armena è giunta a trasmettere, nelle università possono essere create facoltà armene. Un’esposizione di cartoline postali ottomane, libri e nuovi film muovono il mondo degli armeni alla coscienza di sé. Già nel 2005 uomini di scienza turchi discutevano a Istanbul sui crimini del 1915 – le parole di saluto vennero da Abdullah Gül. “Il riconoscimento della vita armena in Turchia deve molto anche alla buona volontà del governo AKP [ndt.: iniziali del partito di maggioranza]”, dice . "I piccoli passi preparano le persone a quelli grandi”.
 
Ancora due anni fa il premio Nobel Orhan Pamuk e altri scrittori potevano essere condannati per le loro affermazioni sul genocidio. Il procuratore kemalista, che stava dietro ai processi, si trova oggi in carcere per appartenenza al movimento golpista e terrorista Ergenekon. Ciò ha infuso molto coraggio. Nel dicembre 2008 un gruppo di intellettuali turchi ha fatto partire una campagna in Internet. Essi “chiedono perdono per la grande catastrofe del 1915”. Fino ad oggi più di 30.000 turchi hanno sottoscritto, e dagli armeni di tutto il mondo sono giunte parole di ringraziamento.
 
Il vicino minaccia: potrebbe fornire il suo gas anche alla Russia
Che cosa impedisce ancora a turchi e armeni di aprire il confine? Questo territorio con i suoi monti e forre. Il Caucaso è pur sempre il superlativo della complicazione. L’Armenia ha un nemico che tradizionalmente è strettamente amico dei turchi – l’Azerbaijan. Questo Stato turcofono, ricco di petrolio e di gas, pretende di avere indietro dall’Armenia il territorio del Karabak. Nazionalisti armeni, all’inizio degli anni ’90, avevano occupato il Karabak, in seguito a pogrom da entrambe le parti e avevano scacciato gli Azeri dalla zona. Come reazione a questi fatti nel 1993 la Turchia aveva chiuso il confine con l’Armenia. Se ora questo dovesse essere riaperto, l’Azerbaijan sarebbe naturalmente contrario.
 
Il presidente azero Ilham Aljeev minaccia la Turchia da settimane. Potrebbe fare anche altro, per esempio con Mosca. Col Cremlino ha concordato di fornire alla Russia gas che potrebbe anche andare in Europa attraverso la Turchia. Per giunta Aljeev ha mobilitato ad Ankara i nazionalisti, che adesso strillano affermando che il governo AKP vende i fratelli azeri. Già il premier Tayyip Erdoğan si sente sotto pressione. No, niente apertura del confine senza concessioni armene nel Karabak, promette Erdoğan. Immediatamente urlano i nazionalisti armeni: “Noi non ci sposteremo neppure di un millimetro!”. Così stanno le cose nel Caucaso. I confini qui possono essere aperti soltanto in una lotta politica di sopravvivenza contro i nazionalisti. Erdoğan e Sarkissjan non entreranno nei libri di Storia senza coraggio e una paio di ferite.
 
I loro popoli li ringrazieranno. Una relazione dell’International Crisis Group descrive in modo impressionante come la Turchia e l’isolata Armenia approfitterebbero dell’apertura del confine e di un sistema di visti più aperto. Il commercio e il turismo farebbero fiorire le impoverite zone marginali, il potere delle associazioni radicali armene della diaspora e dei nazionalisti turchi verrebbe spezzato. Proprio questo è importante per Etyen Mahçupyan della Agos. „Se gli Stati creano il giusto ambiente, le società si aprirebbero e le persone si incontrerebbero”, egli spera. Di questo fa parte il parlare francamente del passato. “I fatti devono essere raccontati in modo veritiero. La parola genocidio in tutto ciò non è importante”.
 
Quando comincia la rivoluzione dei confini nel Caucaso? Gli ottimisti dicono presto o tardi, ancor prima dell’autunno. Infatti migliaia di Armeni vogliono recarsi da Erevan a Istanbul – per la partita di ritorno della Coppa del mondo di calcio.
 
[Nota del traduttore: il 10 ottobre 2009 Turchia e Armenia hanno sottoscritto un trattato per la riapertura delle relazioni diplomatiche e dei confini, che trova l’approvazione della Russia e la ferma opposizione dell’Azerbaijan – la partita però sembra non essere ancora conclusa – per chi mastica tedesco vedi http://www.euractiv.com/de/erweiterung/trkei-armenien-abkommen-karabach-konflikt-untergraben/article-186281]
 
 
Testo originale:
 
Die Zeit, Hamburg – 23. April 2009
Türkei - Armenien
Das G-Wort
 
Die verfeindeten Nachbarn Türkei und Armenien wollen sich versöhnen. Aber es gibt Widerstand in beiden Ländern: Die Nationalisten streiten über die Frage des Genozids
Von Michael Thumann
 
 
Nach dem Mord waren weit mehr als 100.000 Türken gekommen, um zu trauern. "Wir sind alle Armenier", riefen sie – aus Solidarität. Ein gedungener 17-jähriger türkischer Nationalist hatte im Januar 2007 den armenischen Journalisten Hrant Dink vor seiner Redaktion mit zwei Schüssen in den Kopf ermordet. Auf der Straße ist heute davon nichts zu sehen. Keine Gedenkplatte erinnert an Dink, kein Schild weist hin auf seine Zeitung Agos an dem stucküberladenen Haus im Stadtteil Sisli.
 
Erst in den Redaktionsfluren spricht die Erinnerung. Hrant Dink hängt an allen Wänden, auch in seinem ehemaligen Büro. Dort sitzt heute der Dink-Nachfolger und Chefredakteur Etyen Mahçupyan. Ein Mann mit graumeliertem Bart und Sätzen, die nie schwarzweiß daherkommen. Anfang dieser Woche wurde das Verfahren gegen die nationalistischen Mörder und ihre Hintermänner fortgesetzt. "Der Prozess", sagt Etyen Mahçupyan, "ist der Versuch der Türkei, der Wahrheit ins Auge zu blicken".
 
Die Türkei entdeckt ein bedrängtes Volk im eigenen Land und totgeschwiegene Nachbarn: die Armenier. Über die Verbrechen, die das Osmanische Reich an ihnen beging, können türkische Intellektuelle heute ungestraft reden. Die türkische Regierung verhandelt mit der armenischen Regierung über die Aufnahme diplomatischer Beziehungen. Nach zähen Verhandlungen einigten sich die beiden Staaten heute sogar auf eine Roadmap zur Normalisierung ihrer Beziehungen.
 
Es sind alte Fronten, die da am Kaukasus aufbrechen. Doch bleibt nicht der Streit um den Völkermord an den Armeniern 1915, dem am 24. April gedacht wird? Die armenische Diaspora im Westen pocht weiter auf die Anerkennung des Genozids durch die Türken. Noch immer leugnet der türkische Staat das Verbrechen. Doch eine neue Generation von Armeniern, Türken und einigen mutigen Politikern will das ändern.
 
Der Fußball brachte die verfeindeten Länder zusammen
 
Amerikas Präsident Obama gab den Ton an, als er Anfang April in der Türkei das Wort Genozid geschickt umschiffte. Dann ermunterte er Türken und Armenier, diplomatische Beziehungen aufzunehmen. "Wenn der US-Präsident das Wort benutzt hätte", sagt der armenische Chefredakteur Mahçupyan, "hätten in der Türkei die Nationalisten triumphiert, jedes Zugeständnis an Armenien wäre eine Niederlage gewesen". So aber reiste der türkische Außenminister in die armenische Hauptstadt Jerewan, um die Sache voranzutreiben.
 
Verhandelt wird über die Öffnung der seit 16 Jahren abgeriegelten Grenze. Stillgelegte Straßen und Bahnstrecken sollen belebt werden. Jerewan soll nach dem Wunsch der Türkei die Grenzlinie anerkennen und auf Träume von "Westarmenien" verzichten. Gesprochen wird auch über die Aufnahme diplomatischer Beziehungen und die Einrichtung einer Kommission beider Regierungen, die die gemeinsame Geschichte, die Völkermordfrage, aufarbeiten soll.
 
Das wäre nicht weniger als eine diplomatische Revolution. Einen ersten beherzten Schritt dahin machte der konservative Präsident Abdullah Gül. Ausgerechnet während eines Fußballspiels. Für die Begegnung Armenien gegen die Türkei flog er als erster Präsident der Türkei nach Jerewan. Gül fuhr in einer Autokolonne mit türkischen und armenischen Flaggen. Für das Essen mit dem armenischen Präsidenten Sersch Sarkissjan unterbrach Gül, der gläubige Muslim, sein Fasten im Ramadan. Durchs Fußballstadion wehten hintereinander die Klänge der armenischen und der türkischen Nationalhymne. Gül und Sarkissjan gelobten, sich die historische Chance nicht entgehen zu lassen. Sie begannen ernsthaft zu verhandeln. In Ankara heulten die nationalsäkularen Gralshüter: "Verrat!", in Jerewan bellten die Nationalisten: "Keine Grenzöffnung ohne Anerkennung des Genozids!"
 
Nationalistische Verbände in Armenien und in der Diaspora halten nicht viel von der Annäherung – sie wollen den Genozid durch viele Parlamente der Welt anerkennen lassen und die Türkei zu Reue und Reparationszahlungen zwingen. Einige planen gar, die türkische Ostgrenze zu verschieben – im Washingtoner Büro des Armenian National Committee of America hängt eine Karte von Großarmenien über dem Kamin. Doch nur das Ziel der Genozid-Anerkennung wurde in einigen Ländern erreicht. Timothy Garton Ash hat sich mit anderen namhaften Historikern gegen diese Art "Erinnerungspolizei" verwahrt. In der Schweiz werde man verurteilt, wenn man den Genozid leugne, in der Türkei bestraft, wenn man das Massenmorden so benenne. Absurd, sagt er.
 
Doch auch auf der türkischen Seite gibt es Kräfte, die eine Annäherung verhindern wollen. Das säkular-kemalistische Establishment hat jahrelang eine dreiste Anti-Genozid-Kampagne geführt. Ihre zentrale Behauptung war, die Türken seien selbst Opfer eines Völkermords durch Armenier geworden: Filme und Dokumente sollten ihre abenteuerliche These zementieren. Der Lüge wurden sogar Denkmäler gebaut. Türkische Politiker und Diplomaten drohten dem Ausland mit Rache, sollte es die armenischen Forderungen anerkennen.
 
Nun zeigt ein neuer Bericht des Thinktanks European Stability Initiative (ESI), dass die türkische "Genozid-Diplomatie fast komplett gescheitert ist". Die ganze Welt spreche heute vom Völkermord an den Armeniern. Wenn seriöse Historiker die Fakten von 1915 mit den UN-Konventionen vergleichen, haben sie kaum Zweifel, dass es einer war. Die Nationaltürken laut ESI sind in der Sackgasse, genauso wie die armenischen Genozid-Missionare. "Äußerer Druck führt nur zu Verhärtung", sagt Etyen Mahçupyan in der Agos- Redaktion. "Normalisierung in der Türkei muss von innen kommen."
 
Die ist heute mit Händen zu greifen. Die armenische Zeitung Agos etwa ist jetzt zwei Mal so dick wie noch zu Hrant Dinks Zeiten. Viele haben geholfen, damit die Redaktion aufs Doppelte wachsen konnte. Jetzt hofft Agos auf die Öffnung der Grenze zu Armenien, um weiter zu expandieren. In der Türkei werden armenische Kirchen restauriert, ein armenisches Radio ging auf Sendung, an Universitäten sollen armenische Fakultäten eingerichtet werden. Eine Ausstellung osmanischer Postkarten, Bücher und neue Filme rücken die Welt der Armenier ins Bewusstsein. Schon 2005 diskutierten türkische Wissenschaftler in Istanbul die Verbrechen von 1915 – das Grußwort kam von Abdullah Gül. "Die Anerkennung des armenischen Lebens in der Türkei ist auch dem guten Willen der AKP-Regierung zu verdanken", sagt Etyen Mahçupyan. "Die kleinen Schritte bereiten die Menschen auf Größeres vor."
 
Noch vor zwei Jahren sollten der Nobelpreisträger Orhan Pamuk und andere Schriftsteller für ihre Äußerungen zum Völkermord bestraft werden. Der kemalistische Staatsanwalt, der hinter den Verfahren stand, sitzt heute wegen Zugehörigkeit zur nationalistischen Putsch- und Terrortruppe Ergenekon im Gefängnis. Das hat vielen Mut gemacht. Im Dezember 2008 startete eine Gruppe türkischer Intellektueller eine Kampagne im Internet. Sie "bitten um Entschuldigung für die große Katastrophe von 1915". Bis heute haben mehr als 30.000 Türken unterschrieben, von Armeniern aus aller Welt kamen Worte des Danks.
 
Der Nachbar droht: Er könne sein Gas auch nach Russland liefern
 
Was hindert Türken und Armenier also noch, die Grenze zu öffnen? Diese Region mit ihren Bergen und Schluchten. Der Kaukasus ist schließlich der Superlativ von kompliziert. Armenien hat einen Feind, der traditionell eng mit den Türken befreundet ist – Aserbajdschan. Der an Öl und Gas reiche Turkstaat fordert von Armenien die Region Berg-Karabach zurück. Armenische Nationalisten hatten Karabach und einige Grenzbezirke Anfang der neunziger Jahre nach Pogromen beider Seiten besetzt. Sie vertrieben die Aseris aus der Gegend. Als Reaktion darauf riegelte die Türkei 1993 die Grenze zu Armenien ab. Wenn sich diese nun öffnen soll, ist Aserbajdschan natürlich dagegen.
 
 
© ZEIT GRAFIK
 
 
 
Der aserische Präsident Ilham Alijew droht der Türkei seit Wochen. Er könne auch anders; zum Beispiel mit Moskau. Mit dem Kreml hat er vereinbart, aserisches Gas nach Russland zu liefern, das auch über die Türkei nach Europa gehen könnte. Obendrein hat Alijew in Ankara die Nationalkemalisten mobilisiert. Die zetern nun, dass die AKP-Regierung die aserischen Brüder verkaufe. Schon fühlt sich Premier Tayyip Erdoğan unter Druck. Nein, keine Grenzöffnung ohne armenische Zugeständnisse in Berg-Karabach, verspricht Erdoğan. Prompt schreien die armenischen Nationalisten auf: "Wie werden uns niemals auch nur einen Millimeter bewegen!" So ist das am Kaukasus. Grenzen lassen sich hier nur im politischen Überlebenskampf gegen Nationalisten öffnen. Erdoğan und Sarkissjan werden ohne Mut und ein paar Blessuren nicht ins Geschichtsbuch kommen.
 
Ihre Völker würden es ihnen danken. Ein Bericht der International Crisis Group beschreibt eindrücklich, wie die Türkei und das isolierte Armenien von der Grenzöffnung und einem lockeren Visaregime profitieren würden: Handel und Tourismus würden verarmte Randregionen aufblühen lassen, die Macht radikaler armenischer Diasporaverbände und türkischer Nationalisten würde gebrochen. Gerade das ist Etyen Mahçupyan von Agos wichtig. "Wenn die Staaten den richtigen Rahmen schaffen, werden die Gesellschaften sich öffnen, die Leute zusammenkommen", hofft er. Dazu gehöre, aufrichtig über die Vergangenheit zu sprechen. "Die Ereignisse müssen wahrheitsgemäß erzählt werden. Das Wort Genozid ist dabei nicht wichtig."
 
Wann also beginnt die Grenzrevolution am Kaukasus? Optimisten sagen, irgendwann noch vor dem Herbst. Dann wollen Tausende Armenier aus Jerewan nach Istanbul fahren – zum Rückspiel für die Fußballweltmeisterschaft.


Lunedì 02 Novembre,2009 Ore: 15:42