Domenica 4a Ordinario – C – 31 gennaio 2010 –

di don Paolo Farinella

 Nella 4a domenica del tempo ordinario ci addentriamo un po’ di più nella complessa personalità di Gesù che oggi viene illustrata magistralmente dai testi di due straordinari personaggi: Geremia per l’AT e Paolo nel NT. Dopo i primi successi del suo rabbinato itinerante Gesù si reca al suo paese, Nàzaret, dove sicuramente lo precede la fama della sua attività nella vicina Cafàrnao (km 45 ca.) città cosmopolita di culture nel cuore del territorio della «Galilea delle genti» (Mt 4,15) considerato dagli Ebrei come territorio pagano. Gesù sceglie Cafàrnao come sede del suo ministero in Galilea, sia perché è crocevia di culture sia perché è città periferica, defilata in rapporto a Gerusalemme e a Cesarea Marittima, sedi del potere centrale, religioso e politico. Se può, Gesù non cerca lo scontro con il potere, ma vive e opera in periferia, ai confini di Israele e fuori di essi. I suoi compaesani di Nàzaret, forse gelosi perché non ha scelto la loro città, lo accolgono con curiosità prevenuta e non sono disposti ad essere tolleranti: essi sono severi come solo i parenti sanno esserlo.
Di fronte al muro d’incomprensione di coloro che avrebbero dovuto conoscerlo meglio di ogni altro, Gesù viene a trovarsi nell’impossibilità di agire. Non è esatto dire che Gesù non fece miracoli a Nàzaret come li ha fatti a Cafàrnao. E’ più corretto dire che gli abitanti di Nàzaret hanno escluso i possibili miracoli dal loro orizzonte perché impegnati e distratti a controllare l’ospite. Riescono a meravigliarsi delle cose positive, accadute altrove, ma non sanno stupirsi di fronte alle novità che li travolge. Si scandalizzano delle parole di perdono e se ne tornano a casa a mani vuote e un peccato in più (Lc 18,10-14). Non possono avere miracoli perché non hanno fede e non hanno fede perché credono in un Dio costruito a loro immagine e somiglianza: sono religiosi senza Dio.
A loro si oppone per contrasto il profeta Geremia, che già prima ancora di nascere fa parte del disegno di Dio su di lui: essere profeta delle nazioni, cioè uomo discriminante della verità senza confini. Geremia visse nel sec. VII a.C. e nella vita avrebbe preferito fare tutto, tranne che il profeta. Di natura timido e affabile, egli vede sempre l’aspetto positivo della realtà e non sa dire parole dure o giudizi di condanna. La sua natura è portata alla dolcezza e alla tenerezza, ma la missione lo costringerà a posizioni dure e a scelte pesanti. Egli soffre di questa frattura nella sua anima, ma non può venire meno al suo mandato a costo di opporsi e di contraddire gli uomini che cercano di metterlo a morte. Uomini del tempio e ufficiali del culto con la pretesa di «possedere» Dio condannano il profeta perché dice cose che a loro non piacciono o non rientrano nell’angusto schema che hanno di Dio: se Dio deve stare da qualche parte sicuramente starà dalla loro, altrimenti che Dio è?
Il profeta è superfluo perché a tutto pensa l’istituzione. L’esegesi dice che Geremia è forse l’ispiratore della figura del «Servo di Yhwh» descritto da Isaia (42,1-9; 49,1-6; 50,4-9 [10-11]; 52,13-53,12). Il tempo di Geremia è affine ai nostri giorni perché anche oggi la Chiesa pullula di amministratori e luogotenenti, ma è orfana di profeti. L’apparato e l’istituzione esteriore prevale sull’essere e sulla coerenza nella verità: spesso si vede nettamente e chiaramente che coloro che parlano e sproloquiano di «valori» e per giunta «non negoziabili», usano una doppia morale per raggiungere finalità equivoche con qualsiasi mezzo. Sono i professionisti della religione.
Quando l’uniformità esteriore prende il posto dell’unità interiore, il personale ecclesiastico, ma anche i credenti si adattano e si adeguano alla mondanità di qualsiasi potere anche a costo di compromettere la coscienza a scapito della libertà per la quale sono stati creati, ma che essi trasformano in una nuova forma di schiavitù: sono fedeli al sistema esteriore di potere per garantire se stessi. Dio ha creato gli uomini e le donne liberi ed essi s’impegnano con zelo a diventare sempre più schiavi di qualcuno, riuscendoci anche molto bene. Il criterio dell’opportunità, che spesso diventa opportunismo, sostituisce quello della profezia. Sulla verità e la giustizia prevale la prudenza. Per gli ecclesiastici, la vera idolatria è la ricerca della carriera per la quale molti vendono anche l’anima propria e quella delle persone di cui sono responsabili.
Il segreto del profeta sta tutto in una parola greca intraducibile in italiano, così densa di senso che mentre dice il contenuto ne esprime il metodo e lo stile. La parola è  «agàpe» che esprime il modo proprio di amare di Dio: dimentica se stesso per la felicità e il benessere dell’altro, amato senza chiedere in cambio nulla. Non è solo «amore gratuito» perché è espressione ancora povera. Essa al contrario esprime la «natura» intima di Dio che è amare «a perdere». I Corinzi prediligevano la spettacolarità e le appariscenze alla consistenza della vita: oggi sarebbero sempre in televisione. Paolo fatica a fare capire che ciò che conta è la verità di se stessi e che Dio ama il cuore non le apparenze (cf 1Sa 16,7). Avendo esaurito tutti gli argomenti di convinzione compreso lo scandaloso crocifisso (cf 1Cor 1,18), Paolo obbliga i Corinzi a «guardare» dentro l’anima stessa di Dio per imparare da lui come comportarsi nella vita di tutti i giorni perché Dio non delude. I Corinzi scoprono che nulla vale più dell’amore, che l’amore non ha prezzo e non può essere barattato, ma anche che l’amore è la morte di ogni egoismo e pretesa di essere i primi, i più bravi, i migliori. L’Amore è la vita perché Paolo svela il segreto del Dio della Bibbia: «Agàpe» è il Nome nuovo rivelato perché «Dio è Agape – ho theòs Agàpē estìn» (1 Gv 4,8). Nell’economia della nuova alleanza l’«Agàpe» è una Persona da amare sopra ogni cosa (cf Mt 10,37): l’Agàpe è Gesù (cf Gv 10,30; cf anche, sotto, lettura dopo la comunione), lo stesso che ascoltiamo, condividiamo e celebriamo nell’Eucaristia. Nessuno può «vedere» tutto ciò se non è lo Spirito a rivelargli la Gloria del Mistero di Cristo. Lasciamoci sedurre dall’amore a perdere di Dio, facendo nostre le parole del salmista (Sal 106/105,47): «Salvaci, Signore Dio nostro, radunaci dalle genti, perché ringraziamo il tuo nome santo: lodarti sarà la nostra gloria».
 
Spirito Santo, tu sei la parola che il Signore ha rivolto a Geremia prima che nascesse,         Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu tessesti la consacrazione del profeta nel grembo materno,              Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu hai stabilito sulle nazioni il profeta che ascoltò la tua voce,                        Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu fosti la fortezza e il baluardo del profeta contro ogni avversità,                 Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu ci consacri profeti nel ministero pasquale dell’Eucaristia,               Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu ci consacri profeti nel ministero pasquale dell’Eucaristia,               Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei il rifugio che ci ripara dalle confusioni dell’ingiustizia,             Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei la rupe di difesa e il baluardo che ci protegge ovunque,                        Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei il sostegno della nostra speranza fin dal grembo materno,                     Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei l’Agàpe dato a noi senza condizioni di reciprocità,                               Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei l’Agàpe che dà senso e significato a tutto ciò che siamo,                      Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei l’Agàpe che non avrà mai fine perché sei il Volto di Dio,                     Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei l’Agàpe senza del quale la fede e la speranza sono nulla,                     Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu sei l’«Oggi» di Cristo che si compie nella nostra vita e nella Storia,            Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu guidasti i passi di Gesù perché annunciasse un anno di grazia,                   Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu ispirasti il Figlio a rivelare ai figli il progetto di misericordia del Padre,      Veni, Sancte Spiritus!
Spirito Santo, tu guidi coloro che vogliono lasciarsi incontrare dal Signore che viene,         Veni, Sancte Spiritus!
 
Una caratteristica dei nostri tempi è la frammentazione o la supremazia della frammentarietà: si vede il «particolare», ma si fa fatica a vedere l’insieme, l’universale, eppure tutti parlano di globalizzazione e di interdipendenza mondiale. Si è frantumata la conoscenza per cui tutto si riduce alla propria esperienza individuale assunta come criterio di universalità. La liturgia ci può aiutare a pensare. I compaesani di Gesù non sanno andare oltre le loro convinzioni e gelosie, il profeta Geremia è costretto ad agire contro la sua natura per essere se stesso e Paolo deve richiamare al fondamento originario che è Dio, principio del pensiero e della volontà. Entriamo nel mistero dell’Amore per imparare alla scuola di Dio ad amare oltre gli angusti confini del nostro limite. Lo facciamo guardando con occhi e cuore accoglienti quel mondo che Gesù è venuto a salvare (Gv 12,47).
 
(ebraico)
Beshèm
ha’av
vehaBèn
veRuàch
haKodèsh.
Amen.
(italiano)
Nel Nome
del Padre
e del Figlio
e dello Spirito
Santo.
 
Esaminiamo la nostra coscienza per verificare il livello dell’amore che coltiviamo in noi: verificandoci specialmente sul fatto che spesso forse abbiamo amato gli altri per egoismo e tornaconto. Mentre chiediamo perdono per tutti i nostri tradimenti dell’Amore, imploriamo la forza e la grazia di amare come Dio ci ama: senza misura e senza attese di ricompense, perché cui ama vive sempre nella luce
 
[congruo esame di coscienza]
 
Signore, per tutte le volte che dimentichiamo che tu ci pensi prima di nascere,                   Kyrie, elèison!
Cristo, per tutte le volte che dimentichiamo che tu sei il modello di Agàpe,             Christe, elèison!
Signore, per tutte le volte che viviamo imprigionati nel rancore della gelosia,                       Kyrie, elèison!
Cristo, per tutte le volte che ricerchiamo e alimentiamo la nostra vanagloria,                       Christe, elèison!
 
Prete. Dio onnipotente che ci nutre dell’Agàpe che è Cristo e ci libera dalle forme palesi o occulte di schiavitù per i meriti del profeta Geremia, precursore della vita e della morte del Signore nostro Gesù Cristo, abbia misericordia di noi, perdoni i nostri peccati e ci conduca alla vita eterna. Amen.
 
GLORIA A DIO
nell’alto dei cieli e pace in terra agli uomini di buona volontà. Noi ti lodiamo, ti benediciamo, ti adoriamo,
ti glorifichiamo, ti rendiamo grazie per la tua gloria immensa, Signore Dio, Re del cielo, Dio Padre onnipotente.
 
Signore, Figlio Unigenito, Gesù Cristo, Signore Dio, Agnello di Dio, Figlio del padre: tu che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi; tu che togli i peccati del mondo, accogli la nostra supplica; tu che siedi alla destra del Padre, abbi pietà di noi.
 
[breve pausa 1-2-3]
 
Perché tu solo il Santo,
tu solo il Signore, tu solo l’Altissimo:
 
[breve pausa 1-2-3]
 
Gesù Cristo con lo Spirito Santo, nella gloria di Dio Padre. Amen.
 
Preghiamo (colletta). O Dio, che nel profeta accolto dai pagani e rifiutato in patria manifesti il dramma dell’umanità che accetta o respinge la tua salvezza, fa’ che nella tua Chiesa non venga meno il coraggio dell’annunzio missionario del Vangelo. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio che è Dio e vive e regna con te nell’unità dello Spirito Santo per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
Mensa della Parola
Prima lettura Ger 1,4-5.17-19. Del racconto di vocazione del profeta Geremia vissuto nel sec. VII a.C., la liturgia ne propone solo una parte, quella che descrive la predestinazione della vocazione del profeta prima ancora che nasca. Predestinazione non è da intendere in senso stretto e letterale, quasi che si realizzi indipendentemente dalla volontà del chiamato. La chiamata prima della nascita esprime l’intimità oltre il tempo che il profeta ha con Dio in nome del quale parlerà: il profeta, infatti, può annunciare solo ciò che sperimenta nella propria vita e Geremia è già in Dio prima ancora di essere figlio del tempo. In questa «precedenza» si radica la «forza» del profeta che non conta sulla sua resistenza, ma solo nella presenza di Dio divenuto la ragione della sua vita e della sua parola. Il profeta è la Parola che annuncia.
 
Dal libro del profeta Geremia Ger 1,4-5.17-19
Nei giorni del re Giosìa, mi fu rivolta questa parola del Signore: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni. 17 Tu, dunque, stringi la veste ai fianchi, àlzati e di’ loro tutto ciò che ti ordinerò; non spaventarti di fronte a loro, altrimenti sarò io a farti paura davanti a loro. 18 Ed ecco, oggi io faccio di te come una città fortificata, una colonna di ferro e un muro di bronzo contro tutto il paese, contro i re di Giuda e i suoi capi, contro i suoi sacerdoti e il popolo del paese. 19 Ti faranno guerra, ma non ti vinceranno, perché io sono con te per salvarti». - Parola di Dio.
 
Salmo responsoriale 71/70, 1-2; 3-4; 5-6; 16-17. Un uomo anziano e provato esprime motivi di lode e di speranza per essere stato assistito da Dio in una prova superata. Il salmo ha un andamento antologico che richiama altri salmi, ma è stato scelto per il v. 6 che riprende il tema della 1a lettura: «Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno, dal seno di mia madre tu sei il mio sostegno». Al v. 3 si trova il termine «rupe/roccia» (in ebraico: metsudàh) che era uno dei Nomi alternativi che sostituiscono il Nome Yhwh. Anche Gesù paragona la sua Parola alla roccia (Lc 6,47-48) e ogni volta che pronunciamo «Amen» noi facciamo una professione di fede sulla roccia della «stabilità fedele» di Dio.
 
Rit.La mia bocca, Signore, racconterà la tua salvezza.

 

1. 1 In te, Signore, mi sono rifugiato,
mai sarò deluso.
2 Per la tua giustizia, liberami e difendimi,
tendi a me il tuo orecchio e salvami. Rit.
2. 3 Sii tu la mia roccia,
una dimora sempre accessibile;
hai deciso di darmi salvezza:
davvero mia rupe e mia fortezza tu sei!
4 Mio Dio, liberami dalle mani del malvagio. Rit.
3. 5 Sei tu, mio Signore, la mia speranza,
la mia fiducia, Signore, fin dalla mia giovinezza.
6 Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno,
dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno. Rit.
4. 16 La mia bocca racconterà la tua giustizia,
ogni giorno la tua salvezza.
17 Fin dalla giovinezza, o Dio, mi hai istruito
e oggi ancora proclamo le tue meraviglie. Rit.

 Seconda lettura 1Cor 12,31-13,13 (lett. breve 13,4-13). Il brano proclamato è uno dei vertici più sublimi di tutta la Scrittura che qui fa da perno unificante a tutta la 1a lettera ai Corinzi con gli innumerevoli problemi che affronta. Si può essere sommersi nei problemi, si può soccombere per problematicità, alla fine resta una sola soluzione, l’unica che può risolvere ogni difficoltà nelle relazioni, nell’economia, nella politica, nelle dinamiche di gruppo o di comunità, nei ruoli in famiglia e nella società: la soluzione della «carità» che è «agàpe» cioè l’amore donato gratuitamente e senza nulla richiedere in cambio. Per nove volte questo termine risuona nel brano liturgico, quasi un invito a fissarlo definitivamente come criterio unico e assoluto della vita di relazione. Nella nuova alleanza, la «Carità/Agàpe» ha un Nome proprio perché è una Persona: «Cristo Gesù». Impariamo da lui per essere coerenti in noi. Basta sostituire il termine «Agàpe/Carità» con il Nome «Cristo» per scoprire «la larghezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità» del mistero di Dio (Ef 3,18).

 
Dalla prima lettera di Paolo apostolo ai Corinzi 1Cor 12,31-13,13
Fratelli, 31desiderate intensamente i carismi più grandi. E allora, vi mostro la via più sublime.
13,1 Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cimbalo che strepita. 2 E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi la carità, non sarei nulla. 3 E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo, per averne vanto, ma non avessi la carità, a nulla mi servirebbe. 4 La carità è magnanima, benevola è la carità; non è invidiosa, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, 5 non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6 non gode dell’ingiustizia ma si rallegra della verità. 7 Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. 8 La carità non avrà mai fine. Le profezie scompariranno, il dono delle lingue cesserà e la conoscenza svanirà. 9 Infatti, in modo imperfetto noi conosciamo e in modo imperfetto profetizziamo. 10 Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. 11 Quand’ero bambino, parlavo da bambino, pensavo da bambino, ragionavo da bambino. Divenuto uomo, ho eliminato ciò che è da bambino. 12 Adesso noi vediamo in modo confuso, come in uno specchio; allora invece vedremo faccia a faccia. Adesso conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto. 13 Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e la carità. Ma la più grande di tutte è la carità! - Parola di Dio.
 
Vangelo Lc 4,21-30. Il brano segue immediatamente quello di domenica scorsa, per cui il contesto è lo stesso: la liturgia nella sinagoga di Nàzaret (Lc 4,16-21), dopo lomelia di Gesù sulla 2a lettura (Is 61,1-2) con la quale ha annunciato e definito la sua missione. I frequentatori della religione contestano le «parole di grazia che uscivano dalla sua bocca» (Lc 4,22) perché il Dio che essi si sono costruiti su misura è la proiezione della loro giustizia:  «se Dio è giusto» non può non giudicare le nazioni e condannarle al giudizio definitivo. Lo stesso Gesù che sta con i peccatori di Cafarnao (Lc 4,23) piuttosto che con i giusti di Nàzaret (Lc,4,24) cessa di essere un inviato di Dio e resta solo «figlio di Giuseppe» (Lc 4,22), cioè un anonimo tra anonimi che bisogna spazzare via con disprezzo (Lc 4,28-29). Quando pretendiamo di avere Dio dalla nostra parte, forse è allora che dobbiamo capire che lo abbiamo smarrito da molto tempo. LEucaristia è la scuola che ci obbliga a purificare le idee, le immagini e il concetto che abbiamo di Dio, il quale sfugge alla prigionia del nostro limite.
 
Canto al Vangelo Mt 11,25. Alleluia, alleluia. Il Signore mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio, / a proclamare ai prigionieri la liberazione. Alleluia.
 
Dal Vangelo secondo Luca Lc 4,21-30
In quel tempo, 21 Gesù cominciò a dire nella sinagoga: «Oggi si è compiuta questa Scrittura che voi avete ascoltato». 22 Tutti gli davano testimonianza ed erano meravigliati delle parole di grazia che uscivano dalla sua bocca e dicevano: «Non è costui il figlio di Giuseppe?». 23 Ma egli rispose loro: «Certamente voi mi citerete questo proverbio: “Medico, cura te stesso. Quanto abbiamo udito che accadde a Cafàrnao, fallo anche qui, nella tua patria!”». 24 Poi aggiunse: «In verità io vi dico: nessun profeta è bene accetto nella sua patria. 25 Anzi, in verità io vi dico: c’erano molte vedove in Israele al tempo di Elìa, quando il cielo fu chiuso per tre anni e sei mesi e ci fu una grande carestia in tutto il paese; 26 ma a nessuna di esse fu mandato Elìa, se non a una vedova a Sarèpta di Sidòne. 27 C’erano molti lebbrosi in Israele al tempo del profeta Eliseo; ma nessuno di loro fu purificato, se non Naamàn, il Siro». 28 All’udire queste cose, tutti nella sinagoga si riempirono di sdegno. 29 Si alzarono e lo cacciarono fuori della città e lo condussero fin sul ciglio del monte, sul quale era costruita la loro città, per gettarlo giù. 30 Ma egli, passando in mezzo a loro, si mise in cammino. - Parola del Signore.
 
Sentieri della Parola
Il brano del vangelo di oggi è il seguito di domenica scorsa. Purtroppo ci troviamo ancora una volta con una divisione del testo aberrante perché spezza l’unità della narrazione e obbliga a fare salti mortali. Spessevolte abbiamo detto che questo metodo di dividere i brani a «peso» è un servizio poco serio alla Parola di Dio perché a volte si finisce per fare dire al testo quello che il testo non dice. Domenica scorsa abbiamo lasciato Gesù in sinagoga che applicava a se stesso il brano del profeta Isaia 61,1-2. Abbiamo anche individuato che Gesù non legge il passo come è prescritto dalla liturgia, ma si prende la libertà di interrompere il testo prima della conclusione ufficiale, omettendo il versetto sul «giorno di vendetta del nostro Dio» (Is 61,2). E’ straordinario se si considera che Gesù è un laico. Di fronte a questa figura così autorevole che dice parole nuove attualizzando la Scrittura, le reazioni sono inevitabili. Il nuovo è sempre destabilizzante per gli spiriti poveri, ripiegati su stessi e sulle proprie paure. La liturgia di oggi riporta queste reazioni.
Il racconto di Nàzaret è un racconto anticipato di fatti ed eventi accaduti dopo (v. sotto, nota 3). I versetti finali del brano (Lc 4,28-30) che descrivono tutta l’ostilità dei presenti contro Gesù sono della mano di Lc che così anticipa un atteggiamento che si verificherà dopo, storicamente. Ci troviamo di fronte ad una trasposizione letteraria e alla testimonianza concreta di come realmente si formarono i vangeli che sono scritti definitivamente dopo la Pasqua che riflette tutta la sua luce e la sua forza sugli avvenimenti precedenti.
Il fatto narrato è storico e il discorso è sicuramente pronunciato da Gesù, anche perché è pieno di echi aramaizzanti[1], ma di certo non è stato pronunciato all’inizio del suo ministero, ma qualche tempo dopo e in un altro contesto. Noi sappiamo che Lc scegliendo lo schema del viaggio per narrare il suo vangelo, è costretto a collocare il materiale in modo logico-catechistico, non cronologico: tutto ciò che Gesù dice e fa nel 3° vangelo è quasi sempre fuori dal proprio contesto storico e/o geografico. Oggi ne abbiamo un’ampia documentazione.  
Lc 4,23-27 riporta parole molto violente, inusuali in una sinagoga e che stride anche con la reazione tiepidamente incuriosita della gente (cf Lc 4, 22). Il v. 23 fa riferimento a ciò che Gesù ha fatto a Cafarnao, eppure è Lc stesso ad avvertirci che Gesù deve ancora recarsi in quella città (Lc 4,31). La stessa contrapposizione tra Giudei increduli e Pagani credenti presuppone la crisi della chiesa primitiva per l’accoglienza dei Pagani dietro la predicazione di Paolo che certamente non avviene durante la vita di Gesù. Gli abitanti di Nàzaret mettono la loro città a confronto con la pagana Cafàrnao da cui si distinguono, nonostante anche Nàzaret sia nel distretto della «Galilea delle genti» vicino Cafàrnao (Km 25 ca.). Gesù risponde mettendo a confronto Giudei e Pagani senza un nesso logico.
 
Nota. Quando Lc scrive (come gli altri evangelisti) la Chiesa è già organizzata e diffusa oltre i confini della Palestina (Turchia, Grecia, Italia, ecc.) con problemi di convivenza gravi. Gli evangelisti rileggono la vita di Gesù, la sua infanzia, il suo ministero alla luce della Pasqua e quindi nel raccontare ciò che è stato anticipano parole e fatti che cronologicamente sarebbero venuti dopo. Specialmente Lc che adottando lo schema letterario del vangelo, organizza tutto il materiale che ha ricevuto dalla tradizione orale e dalle sue ricerche personali in un contesto che non ha più alcun riferimento al vero contesto storico. Sicuramente Gesù è andato più volte nella sinagoga del suo sicuramente ha fatto il discorso riportato da Lc, ma certamente non lo ha fatto nella prima visita. Noi però abbiamo ricevuto il vangelo così come lo abbiamo letto per cui dobbiamo capirlo nella forma attuale, anche perché per noi il vangelo non è un testo di storia, ma un «vangelo» cioè l’annuncio della nuova alleanza che ci convoca «oggi» per entrare nella dimensione e nella prospettiva di Dio.
 
Con un semplice «Oggi si è adempiuta questa scrittura» (Lc 4,21), Gesù dà subito «compimento» attualizzante alla Parola che ha appena letto. Egli  non dà una indicazione temporale, ma esprime l’anima dell’alleanza perché nel dire «oggi» prende il posto di Mosè che convoca l’assemblea di Israele per trasmetterle la Parola di Dio (traduzione letterale ): «Mosè convocò tutto Israele e disse loro: «Ascolta, Israele, le leggi e le norme che io dico/comando nei vostri orecchi, oggi» (Dt 5,1)[2].  Peccato che anche la nuova traduzione della Bibbia-Cei (2008) non metta in evidenza come fanno il testo ebraico e il testo greco della LXX, la pregnanza di quell’«oggi», posto a conclusione della frase per dargli una importanza più marcata[3].
Nella sinagoga si rinnova la convocazione densa di ascolto dell’assemblea di Israele perché «gli occhi di tutti nella sinagoga stavano fissi sopra di lui» (Lc 4, 20). In Dt la Parola di Dio è detta negli orecchi, cioè esige l’ascolto e Mosè lo dice espressamente «Ascolta, Israele» (Dt 5,1) fino ad identificare nel capitolo successivo l’ascolto con l’amore unico e indissolubile, espresso nella professione di fede per eccellenza: «Ascolta, Israele!... Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutta le forze» (Dt 6,4). Nella nuova alleanza la Parola di Gesù deve essere «vista» e contemplata con gli occhi prima di diventare «ascoltata». E’ giunto a noi il tempo della visione e della contemplazione: il Dio che si può ascoltare ora si può anche vedere e sperimentare.
 
E’ ciò che accade ogni volta che celebriamo l’Eucaristia perché in essa noi facciamo due volte la «comunione eucaristica»: la prima volta con le orecchie ascoltando la Parola che diventerà Pane e la seconda volta con la bocca mangiando il Pane che è la Parola che abbiamo ascoltato: «Il Lògos carne/fragilità fu fatto» (Gv 1,14). Ascoltare e vedere però secondo 1Gv 1,1 sono sinonimi di «toccare» cioè di sperimentare fisicamente: «Ciò che era fin da principio, ciò che noi abbiamo udito, ciò che noi abbiamo veduto con i nostri occhi, ciò che noi abbiamo contemplato e ciò che le nostre mani hanno toccato, ossia il Verbo della vita». Credere è toccare Dio mentre ci parla.
 
Abbiamo già visto domenica scorsa che Gesù interrompe la lettura di Isaia e si ferma all’espressione «a proclamare l’anno di grazia del Signore», mentre tralascia le parole che seguono «il giorno di vendetta del nostro Dio» (Is 61,2), annunciando così «il vangelo della nuova alleanza» che non condanna le nazioni e i popoli diversi da Israele, il popolo eletto, ma mette in evidenza l’anelito missionario ed universale del nuovo rabbi che viene a realizzare la profezia del profeta: il raduno universale di tutti i popoli sul monte della Parola di Dio (cf Is 2,2-5). Tutti nella sinagoga capiscono che qualcosa di totalmente nuovo sta accadendo e lo dimostra la meraviglia che le parole di misericordia di Gesù suscitano. Strano come la gente istintivamente si scandalizza per le parole di misericordia che non per gli atteggiamenti di condanna!
Lc usa il verbo «martyrèō –io testimonio» per esprimere la prima reazione dei suoi compaesani e subito siamo coinvolti in un sentimento negativo perché immediatamente essi «si meravigliavano» che in una sinagoga si potesse parlare di «perdono di Dio» (cf Lc 4,1-2). Gesù non fa nulla per stemperare la situazione, anzi usa parole che sembrano scelte accuratamente per irritare e portare allo scontro. Certamente non cerca il dialogo e in cambio riceve una «testimonianza» che è ostilità. In questo contesto sia la testimonianza che la meraviglia sono espressione di ostilità (cf Mt 23,31). Le parole di Gesù sono così intolleranti per gli orecchi dei pii e religiosi osservanti della religione del dovere che cercano di sminuirne non solo il senso, ma anche di declassare la persona stessa di Gesù, richiamando la sua origine comune e, per loro, insignificante: «Non è il figlio di Giuseppe?», come a dire: chi si crede di essere, sappiamo bene chi è suo padre e quali sono le sue origini[4]. In questa espressione si hanno due realtà: la conoscenza di Giuseppe da parte dei suoi conterranei e la qualifica di «figlio» data a Gesù. Dal contesto si evince che Giuseppe era uno conosciuto e anche stimato, «uno di loro» con le stesse idee e le stesse preoccupazioni (cf anche Mc 3,21.31-35, dove addirittura i parenti carnali di Gesù [anche sua madre?] lo prendo per pazzo). Il termine «figlio» indica la distanza che c’è tra questi e il padre che è un cittadino rispettabile della comunità, da cui il «figlio» si differenzia e si allontana. Di fronte al tradimento di un «figlio» che non è come suo padre gli uditori accecati dalla gelosia sono sordi. Non possono accettare che i pagani siano trattati come loro: sarebbe come dire che agli immigrati di altri paesi debbono essere riconosciuti gli stessi diritti dei residenti.
 Gli abitanti di Nàzaret conoscono la fama di Gesù per le voci che giungono da «quella» Cafàrnao, città famosa per essere cosmopolita e piena di Pagani, gente di altre culture e paesi. L’evangelista usa l’articolo per indicare Cafàrnao, dando così una forma e un senso di disprezzo, quasi a dire che loro non hanno nulla da spartire con «la Cafàrnao». Per non essere meno importanti, reclamano una sorta di diritto di primogenitura: noi veniamo prima di quelli là. Essi giocano al «meraviglioso» e forse vorrebbero assistere a qualche gioco di prestigio da raccontare nelle serate d’inverno. Non sono diversi da Erode che vuole divertirsi con un mago da circo: «Vedendo Gesù, Erode si rallegrò molto. Da molto tempo infatti desiderava vederlo, per averne sentito parlare, e sperava di vedere qualche miracolo fatto da lui» (Lc 23,8). I compaesani di Gesù come Erode non sono interessati dalla persona di Gesù e dal suo insegnamento, ma sono solo curiosi mondani.
Gesù non si adegua alla mentalità della sua gente che aspettava un Messia esclusivo per Israele, ma attualizzando la Parola di Dio, ne svela la portata universale, superando ogni particolarismo. Non rinnega Israele come popolo di Dio, anche perché non potrebbe farlo, ma ne dichiara la non esclusività: Israele appartiene a Dio, ma Dio non è proprietà privata di Israele. I presenti in sinagoga reagiscono in modo contraddittorio e non accettano che Gesù possa allargare l’orizzonte di Dio. Gli abitanti di Nàzaret di fatto rifiutano l’autorità della Scrittura perché essi «sanno/conoscono» già tutto: non hanno bisogno di verificare la consistenza della loro fede perché sono certi di avere Dio dalla loro parte. Gesù citando l’episodio di Elia e la vedova (1Re 17,10-16)[5] e quello di Eliseo e il lebbroso (2Re 5,14-17) svela una dimensione della Scrittura che i suoi contemporanei hanno dimenticato: anche nella storia d’Israele i grandi profeti non sempre hanno operato interventi a esclusivo favore di Israele, ma si sono rivolti anche ai pagani (Lc 4,25-27): Gesù quindi afferma di essere nel solco della tradizione biblica che ora vuole riprendere e realizzare come infatti poi farà[6]. Attribuire a Dio l’etichette di «cattolico», o «ortodosso» o «protestante» o «musulmano» o altro è solo una bestemmia e la negazione della persona stessa di Dio che è uno e uno solo. Siamo noi che storicamente ci accostiamo a lui con i nostri limiti, le nostre fobìe e la nostra incoerenza.
Lc mette in evidenza che Gesù rompe con il suo ambiente sociale e religioso per dedicarsi alla missione tra gli esclusi/pagani, fatto che fa emergere l’incredulità dei Giudei che avrebbero dovuto capire meglio degli altri[7]. A ben vedere, il testo di Lc anticipa (v. sopra nota 3). già quello che succederà dopo perché la missione di Gesù non è ancora iniziata che già riceve una minaccia di morte (Lc 4,29; cf Lc 19,47; 20,19; 22,2). Lo stesso proverbio citato da Gesù «medico cura te stesso» (Lc 4,23) è già un anticipo della passione, quando sulla croce sarà schernito e deriso per tre volte con parole simili: dai capi del popolo: «Ha salvato gli altri! Salvi se stesso» (Lc 23,35); dai soldati: «Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso» (Lc 23,37); dal ladrone cattivo: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!» (Lc 23,39).
Il mondo intero è rappresentato in questo triplice scherno, frutto dell’alleanza tra mondo religioso e mondo pagano coalizzati insieme per eliminare dalla propria coscienza le esigenze della Parola di Dio. Gesù però passa illeso e indenne in mezzo a loro, come avverrà con la risurrezione perché neanche la morte potrà contenere e trattenere il creatore della vita. Per Lc a Nàzaret Gesù sperimenta in anticipo la morte e l’avversione del mondo opposto a Dio: i loro occhi erano fissi su di lui, ma non sanno vedere oltre le apparenze del «figlio di Giuseppe». Gesù è venuto a dare la vista ai ciechi, ma non c’è peggior cieco di chi non vuole vedere perché pieno della presunzione di essere nel giusto. Ben diversa sarà la sorte di discepoli di Emmaus, appesantiti dalla tristezza e dalla delusione: essi si aprono all’ascolto attento e libero delle Scritture e sentono il cuore riscaldarsi fino al punto che «si aprirono i loro occhi e lo riconobbero» (Lc 24,16-32). Per conoscere bisogna vedere, per vedere bisogna ascoltare, per ascoltare bisogna essere liberi da se stessi e da ogni atteggiamento prevenuto. Per essere pienamente se stessi bisogna essere totalmente di Dio e diventare la sua Parola.
Gesù è come Abramo che deve lasciare la sua patria, il suo paese e suo padre, cioè tutti i legami affettivi e culturali per avventurarsi verso la terra di Dio (cf Gen 12,1-4): «nessun profeta è bene accetto nella sua patri» (Lc 4,24) è la con stazione che la patria non è un paese geografico, ma il «luogo» della condivisione ideale, spirituale e umana. Giovanni dirà amaramente che «venne fra i suoi, e i suoi non l’hanno accolto» (Gv 1,11). Partecipare ai riti della stessa religione non significa accogliere automaticamente l’uomo e il messaggio di Dio, se non si finisce per identificarli con le proprie chiusure e piccolezze mentali. Per noi credenti, la nostra patria è l’Eucaristia che ci educa al senso, ai pensieri e alle vie di Dio (cf Is 55,8). Per illustrare il suo pensiero Gesù si appella alla Scrittura, secondo il metodo ebraico: egli poggia il suo atteggiamento e il suo insegnamento sotto la potestà della Parola di Dio. A testimonianza a suo favore egli cita due profeti: Elia che durante una carestia, fu inviato da Dio non a «alle molte vedove in Israele» (Lc 4,25), ma ad  una di Sarèpta di Sidone (nell’attuale Libano meridionale), cioè ad una pagana (1Re 17,1-16); ed Eliseo, successore di Elia, non guarì «i molti lebbrosi in Israele» (Lc 427), ma solo Naamàn, il Siro (2Re 5,1-27), cioè un altro pagano. Il Libano e la Siria erano stati spesso nemici di Israele, eppure di essi si prende cura il Dio d’Israele perché «viene l’ora in cui né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre. Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,21-23). Il Dio di Gesù «non fa preferenze di persone» (At 10,34; Rm 2,11; Ef 6,9). In sostanza Gesù non porta alcuna novità straordinaria perché le figure dei profeti Elia ed Eliseo stanno lì a dimostrare che il Dio della rivelazione ha sempre agito in modo coerente, amando i Pagani allo stesso modo dei figli di Israele.
A tutto ciò si aggiunga l’accusa amare che i Nazaretani non conoscono nemmeno la Scrittura di cui tanto si vantano, perché se la conoscessero non si scandalizzerebbero di Gesù che si colloca nella più pura tradizione profetica, come dimostrano Elia ed Eliseo. A questo punto, la misura è colma e i presenti in sinagoga (letteralmente): «implosero di sdegno» (Lc 4,22) perché ora l’avversione è totale senza alcuna possibilità di mediazione. Il testo aggiunge che «si alzarono, lo cacciarono fuori della città e lo portarono/guidarono sul ciglio del monte dove era costruita la loro città, per gettarlo giù» (Lc 4,29).
L’espressione «fuori della città» è una indicazione di morte perché indica il luogo dove si svolgevano le esecuzioni a morte. La morte violenta non poteva compiersi nella Città santa di Gerusalemme, ma tutti i condannati venivno portati «fuori della città»; l’espressione comporta anche una forma di scomunica come sperimenterà il cieco nato di cui parla il IV vangelo (cf Gv 9,34: «lo cacciarono fuori», cioè lo scomunicarono)[8].
E’ un dramma che si compie e che Lc sta descrivendo con passione e sconcerto. Nella pericope precedente, pochi versetti prima, nel riportare l’episodio delle tentazioni (Lc 4,1-13), nella terza tentazione, il diavolo «lo condusse a Gerusalemme, lo pose sul punto più alto del tempio e gli disse: “Se tu sei il Figlio di Dio, gèttati giù di qui» (Lc 4,9); ora a distanza di diciannove versetti, sono i compaesani di Nàzaret che vogliono «gettarlo giù» (Lc 4,29). E’ evidente che per l’autore c’è un nesso tra le due città di Nàzaret e di Gerusalemme: la prima è un anticipo (una prolessi) di ciò che ancora deve accadere, ma che accadrà. Nàzaret è la prefigurazione anticipata di ciò che sarà la fine. Il diavolo che aspetta a Gerusalemme per distogliere Gesù dalla sua obbedienza, non nasce a caso, ma comincia a Nàzaret, personificato negli abitanti della cittadina di Nàzaret che si rifiutano di accogliere un loro figlio perché viene a destabilizzare la loro religione per purificarla e renderla adeguata alla Parola di Dio.
Gesù però non impressiona e «passando in mezzo a loro, si mise in cammino» (Lc 4,30). Non è ancora giunta la sua ora e quindi è necessario mettersi in cammino per andare incontro a chi non si scandalizzerà a causa del Figlio dell’uomo (cf Mt 11,6). In Luca, Gesù ha appena iniziato il suo ministero di rabbi itinerante e pubblico e già sappiamo come andrà a finire: parte dal suo paese dove tentano di ammazzarlo per le parole di misericordia che ha pronunciato in nome di Dio e arriva nella Città santa dove sarà ammazzato perché si è fatto Figlio di Dio (cf Gv 19,7). Se il buongiorno si vede dal mattino, non c’è che dire Gesù ha fatto una straordinaria carriera.
Tutto ciò accade di Sabato, cioè al cospetto di Dio e nel giorno della pienezza della creazione. Per noi è il giorno di Domenica, giorno che segna il confine della comunione tra Dio e il suo popolo, il tempo in cui l’eternità di Dio si rende accessibile e la Parola si lascia toccare e mangiare, di Sabato/Domenica nel giorno in cui prendiamo coscienza della nostra dignità di essere liberi perché creati a immagine del Figlio, di Sabato/Domenica nel giorno in cui Dio ci concede, come afferma la tradizione giudaica, un supplemento d’anima per essere in grado di vedere, contemplare e toccare il «Verbo della Vita» (1Gv 1,1-4).
 
Professione di fede
Credo in un solo Dio, Padre onnipotente, creatore del cielo e della terra, di tutte le cose visibili e invisibili.
[Pausa: 1-2-3]

Credo in un solo Signore, Gesù Cristo, unigenito Figlio di Dio, nato dal Padre prima di tutti i secoli. Dio da Dio, Luce da Luce, Dio vero da Dio vero; generato, non creato; della stessa sostanza del Padre; per mezzo di lui tutte le cose sono state create. Per noi uomini e per la nostra salvezza discese dal cielo; e per opera dello Spirito Santo si é incarnato nel seno della Vergine Maria e si é fatto uomo. Fu crocifisso per noi sotto Ponzio Pilato, morì e fu sepolto. Il terzo giorno é risuscitato, secondo le Scritture; é salito al cielo, siede alla destra del Padre. E di nuovo verrà, nella gloria, per giudicare i vivi e i morti, e il suo regno non avrà fine. [Pausa: 1-2-3]
 
Credo nello Spirito Santo, che é Signore e da la vita, e procede dal Padre e dal Figlio e con il Padre e il Figlio é adorato e glorificato e ha parlato per mezzo dei profeti. [Pausa: 1-2-3]
 
Credo la Chiesa, una, santa, cattolica e apostolica. Professo un solo battesimo per il perdono dei peccati. Aspetto la risurrezione dei morti e la vita del mondo che verrà. Amen.
Preghiera universale [intenzioni libere]
 
LITURGIA EUCARISTICA
Presentazione delle offerte e pace. Entriamo nel Santo dei Santi presentando i doni, ma prima, lasciamo la nostra offerta e offriamo la nostra riconciliazione e concediamo il nostro perdono, senza condizioni, senza ragionamenti, senza nulla in cambio: lasciamo che questa notte trasformi il nostro cuore, fidandoci e affidandoci reciprocamente come insegna il vangelo:
«Se dunque tu presenti la tua offerta all’altare e lì ti ricordi che tuo fratello ha qualche cosa contro di te, lascia lì il tuo dono davanti all’altare, va’ prima a riconciliarti con il tuo fratello e poi torna a offrire il tuo dono» (Mt 5,23-24).
 
Solo così possiamo essere degni di presentare le offerte e fare un’offerta di condivisione. Riconciliamoci tra di noi con un gesto o un bacio di Pace perché l’annuncio degli angeli non sia vano.
Scambiamoci un vero e autentico gesto di pace nel Nome del Dio della Pace.
 
[La benedizione sul pane e sul vino è tratta dal rituale ebraico]
 
Benedetto sei tu, Signore, Dio dell’universo; dalla tua bontà abbiamo ricevuto questo pane e questo vino, frutto della terra, della vite e del lavoro dell’uomo e della donna; lo presentiamo a te, perché diventi per noi cibo di vita eterna.                         Benedetto nei secoli il Signore.
 
Preghiamo perché il nostro sacrificio sia gradito a Dio, Padre onnipotente.
Il Signore riceva il sacrificio a lode e gloria del suo nome, per il bene nostro e di tutta la sua santa Chiesa.
 
Preghiamo (sulle offerte).Accogli con bontà, o Signore, questi doni che noi, tuo popolo santo, deponiamo sull’altare, e trasformali in sacramento di salvezza. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
PREGHIERA EUCARISTICA II
(detta di Ippolito, prete romano del sec. II)
Prefazio del Tempo Ordinario VI: Il pegno della Pasqua eterna
 
Il Signore sia con voi.             E con il tuo spirito.   In alto i nostri cuori.    Sono rivolti al Signore.
Rendiamo grazie al Signore, nostro Dio.        E’ cosa buona e giusta.
 
E’ veramente cosa buona e giusta renderti grazie e innalzare a te l’inno di benedizione e di lode, Dio onnipotente ed eterno, dal quale tutto l’universo riceve esistenza, energia e vita.
 
Santo, Santo, Santo, il Signore Dio di Geremia e dei Profeti d’Israele. Kyrie, eleison, Christe, elèison. I cieli e la terra sono pieni della tua gloria. Christe, elèison, Pnèuma, elèison!
 
Ogni giorno del nostro pellegrinaggio sulla terra è un dono sempre nuovo del tuo amore per noi e un pegno della vita immortale, poiché possediamo fin da ora le primizie del tuo Spirito, nel quale hai risuscitato Gesù Cristo dai morte,
Hai consacrato Geremia prima di formarlo nel grembo materno e lo hai stabilito profeta delle nazioni (cf Ger 1,5).
 
e così noi  viviamo nell’attesa che si compia la beata speranza nella Pasqua eterna del tuo regno.
Tu hai detto al profeta: «Oggi io faccio di te una fortezza» perché tu, Signore, sei sempre con noi per salvarci da ogni pericolo (Ger 1,18-19).
 
Per questo mistero di salvezza, con gli angeli, i santi e le sante del cielo e della terra proclamiamo a una sola voce l’inno della tua gloria:
Osanna nell’alto dei cieli. Benedetto colui che viene, nel Nome del Signore. Kyrie, eleison, Christe, elèison, Pnèuma, elèison!

Padre veramente santo, fonte di ogni santità, santifica questi doni con l’effusione del tuo Spirito perché diventino per noi il corpo e il sangue di Gesù Cristo nostro Signore.
In te, Signore, ci rifugiamo, mai saremo confusi: tu tendi l’orecchio al nostro cuore (cf Sal 71/70,1-2).
 
Egli, offrendosi alla sua passione, prese il pane e rese grazie, lo spezzò, lo diede ai suoi discepoli, e disse:  PRENDETE, E MANGIATENE TUTTI: QUESTO É IL MIO CORPO OFFERTO IN SACRIFICIO PER VOI.
Tu sei per noi la roccia, la rupe della nostra difesa e baluardo inaccessibile (cf Sal 71/70,3).
 
Dopo la cena, allo stesso modo, prese il calice e rese grazie, lo diede ai suoi discepoli, e disse: PRENDETE, E BEVETENE TUTTI: QUESTO É IL CALICE DEL MIO SANGUE PER LA NUOVA ED ETERNA ALLEANZA, VERSATO PER VOI E PER TUTTI IN REMISSIONE DEI PECCATI.
Tu, o Padre, ci fa aspirare al carisma dell’«Agàpē» perché ci hai dissetati allo Spirito del Figlio (cf 1Cor 12,31.13).
 
FATE QUESTO IN MEMORIA DI ME.
L’Agàpe è Cristo e non avrà mai fine (cf 1Cor 13,8).
 
MISTERO DELLA FEDE.
Celebriamo la tua morte e risurrezione, attendiamo il tuo ritorno, vieni, Carità che genera!
 
Celebrando il memoriale della morte e risurrezione del tuo Figlio, ti offriamo, Padre, il pane della vita e il calice della salvezza, e ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale.
Oggi si è adempiuta questa scrittura che noi abbiamo ascoltato(cf. Lc 4,21).
 
Ti preghiamo umilmente: per la comunione al corpo e al sangue di Cristo lo Spirito Santo ci riunisca in un solo corpo.
Benedetto sei tu, Padre, Signore del cielo e della terra, perché ai piccoli hai rivelato i misteri del regno dei cieli (Mt 11,25)
 
Ricordati, Padre, della tua Chiesa diffusa su tutta la terra: rendila perfetta nell'amore in unione con il Papa …, il Vescovo …, le persone che amiamo e che vogliamo ricordare … e tutto l’ordine sacerdotale che è il popolo dei battezzati.
Se anche parlassimo le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessimo Cristo che è Agàpē, saremo come un bronzo che rimbomba o un cembalo che strepita (cf 1Cor 13,1).
 
Ricordati dei nostri fratelli, che si sono addormentati nella speranza della risurrezione e di tutti i defunti che affidiamo alla tua clemenza…. ammettili a godere la luce del tuo volto.
 
Se anche dessimo in cibo tutti i nostri averi , ma non avessimo Cristo che è Agàpē, a nulla ci servirebbe (1Cor 13,3).
 
Di noi tutti abbi misericordia: donaci di aver parte alla vita eterna, insieme con la beata Maria, Vergine e Madre di Dio, con gli apostoli e tutti i santi, che in ogni tempo ti furono graditi: e in Gesù Cristo tuo Figlio canteremo la tua gloria.
Cristo è magnanimo, benevolo è Cristo; non è invidioso, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità  (cf 1Cor 13,4-6)).
 
Dossologia[è il momento culminante dell’Eucaristia: il vero offertorio]
 
Per Cristo, con Cristo e in Cristo,  a te, Dio Padre onnipotente,  nell’unità dello Spirito Santo,  ogni onore e gloria per tutti i secoli dei secoli. Amen.
 
Padre nostro in aramaico: Idealmente riuniti con gli Apostoli sul Monte degli Ulivi, preghiamo, dicendo:
 

Padre nostro che sei nei cieli

Avunà di bishmaià
sia santificato il tuo nome
itkaddàsh shemàch
venga il tuo regno
tettè malkuttàch
sia fatta la tua volontà
tit‛abed re‛utach
come in cielo così in terra
kedì bishmaià ken bear‛a.
Dacci oggi il nostro pane quotidiano
Lachmàna av làna sekùm iom beiomàh
e rimetti a noi i nostri debiti
ushevùk làna chobaienà
come anche noi li rimettiamo ai nostri debitori
kedì af anachnà shevaknà lechayabaienà
e non abbandonarci alla tentazione
veal ta‛alìna lenisiòn
ma liberaci dal male.
ellà pezèna min beishià. Amen!

 
Antifona alla comunione Lc 4,21: «Oggi si è compiuta questa Scrittura nelle vostre orecchie».
 


Dopo la comunione

1° lettore
2° lettore
Dalla Lettera di san Paolo ai Corinzi 13,1-8
1 Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’Agàpe, sono come un bronzo che rimbomba o un cembalo che strepita.
1 Se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi Cristo, sono come un bronzo che rimbomba o un cembalo che strepita.
2 E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi l’Agàpe, non sarei nulla.
2 E se avessi il dono della profezia, se conoscessi tutti i misteri e avessi tutta la conoscenza, se possedessi tanta fede da trasportare le montagne, ma non avessi Cristo, non sarei nulla.
3 E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi l’Agàpe, a nulla mi servirebbe.
3 E se anche dessi in cibo tutti i miei beni e consegnassi il mio corpo per averne vanto, ma non avessi Cristo, a nulla mi servirebbe.
4 L’Agàpe è magnanima, benevola è l’Agàpe; non è invidiosa l’Agàpe, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, 5 non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6 non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità.
4 Cristo è magnanima, benevola è Cristo; non è invidiosa Cristo, non si vanta, non si gonfia d’orgoglio, 5 non manca di rispetto, non cerca il proprio interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, 6 non gode dell’ingiustizia, ma si rallegra della verità.
7 Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. 8 L’Agàpe non avrà mai fine…
7 Tutto scusa, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. 8 Cristo non avrà mai fine…
13 Ora dunque rimangono queste  tre cose: la fede, la speranza e l’Agape. Ma la più grande di tutte è l’Agape
13 Ora dunque rimangono queste tre cose: la fede, la speranza e Cristo. Ma la più grande di tutte è Cristo!»

 
G. Bessière, Il fuoco che rinfresca
I libri più antichi della Bibbia già ce lo mostrano: i profeti non sono uomini del tempio, né servitori del palazzo. Sono uomini liberi, radicati in Dio e nell’umanità. Pastori dell’umana transumanza, vivono negli spazi aperti e respirano il soffio dello Spirito. Questi esseri incandescenti vedono così profondamente nel loro tempo che sembrano a volte mettere a nudo l’avvenire. Sono uomini che strappano l’orizzonte. Disturbano, con un’insopportabile lucidità, gli uomini che vivono alla superficie, irretiti nei loro sogni o nelle loro illusioni, e le istituzioni che si impantanano in se stesse... Gesù appartiene alla razza vibrante e disturbatrice dei profeti.
 
Preghiamo. O Dio, che ci hai nutriti alla tua mensa, fa’ che per la forza di questo sacramento, sorgente inesauribile di salvezza, la vera fede si estenda sino ai confini della terra. Per Cristo nostro Signore. Amen.
 
Benedizione e saluto finale
Il Signore Lògos fatto Pane è con voi.                        E con il tuo spirito.
Il Signore che chiama Geremia fin dal grembo materno, ci consoli con la sua benedizione.
Il Signore che compie in noi il vangelo della misericordia, ci apre alla testimonianza del perdono.
Il Signore che è l’Agàpē senza fine, ci aiuti ad essere testimoni di amore senza riserve.
Il Signore rivolga su di noi il suo sguardo e ci doni il Cristo, Agàpē che si spezza.         
Il Signore rivolga su di noi il suo Volto e ci manifesti la sua misericordia.
Il Signore sia sempre davanti a voi per guidarvi.
Il Signore sia sempre dietro di noi per difenderci dal male.
Il Signore sia sempre accanto a voi per confortarvi e consolarvi.
 
E la benedizione dell’onnipotente tenerezza del Padre e del Figlio
e dello Spirito Santo, discenda su di voi e con voi rimanga sempre.                                     Amen!
 
La messa finisce come rito nella testimonianza della vita. Andiamo incontro al Signore nella storia.
Nella forza dello Spirito Santo rendiamo grazie a Dio e viviamo nella sua Pace.
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© Supplemento a Domenica 4a del Tempo Ordinario –C, Parrocchia di S. Maria Immacolata e San Torpete – Genova
L’uso di questo materiale è libero purché senza lucro e a condizione che se ne citi la fonte bibliografica
Parrocchia di S. M. Immacolata e S. Torpete – Genova Paolo Farinella, prete 31/01/2010
 


[1] A. Gorge, «La prédication inaugurale dans la synagogue de Nazareth», in Bi.Vi. Chr. 59 (1964) 17-19.
[2] Lc non riporta il contenuto del commento di Gesù, ma dà la regola di ogni «omelia» che non è una esortazione, non è una rilettura morale, non è una applicazione spirituale: l’omelia è «l’oggi» dell’alleanza che si compi qui e ora per chi partecipa alla «convocazione» e attraverso di essi per tutto il mondo in attesa di sperimentare l’irruzione di Dio nella vita di ciascuno e dei sistemi che reggono il mondo. Per questo, sia chi proclama la Parola nella Liturgia sia chi la commenta devono avere coscienza di esercitare il ministero profetico che no può essere banalizzato con l’improvvisazione. Chi legge deve sapere ciò che legge e deve leggere in modo che tutti comprendano (deve sapere leggere) e chi commenta ha il dovere di prepararsi e mai il diritto di improvvisare. Chi improvvisa l’omelia è colpevole di «sacrilegio».
[3] Quando una parola o una frase è messa in evidenza al principio di frase o di discorso, mentre la sua collocazione logica andrebbe dopo si usa la figura retorica detta «prolessi» dal greco «prolambànō – prendo prima», quindi anticipo: «; il suo contrario di «analambànō –  prendo dopo», quindi pospongo. Es. di frase logica: Mangiai il pane perché avevo fame. La stessa frase in forma prolettica: Per la fame che avevo, mangiai il pane che trovai. E’ analessi il racconto di un romanzo che comincia con la morte del protagonista di cui si parlerà nel libro: così avviene in La morte di Ivan Il'ič di Lev Tolstoj. L’intero brano di oggi si può considerare una «prolessi» perché il ministero di Gesù non è ancora iniziato che vi troviamo gli elementi che caratterizzeranno la sua vita, compresa la morte (cf Lc 4,29; cf Lc 19,47; 20,19; 22,2).
[4] Per il significato di «figlio di Giuseppe» che Marco rende con «figlio di Maria» e Lc con «figlio del falegname» cf Omelia della domenica 14a del Tempo Ordinario-B che valuta in sinossi i testi di Mc 6,1-6, di Mt 13,53-58 e il brano di Lc riportato nel vangelo di oggi, dove ognuno riflette una sensibilità particolare di fronte alla identificazione di Gesù come «figlio di Maria» o «figlio di Giuseppe». Anche Natanaèle, uno dei primi discepoli non ha grande stima di Gesù: «Da Nàzaret può mai venire qualcosa di buono?» (Gv 1,46).
[5] Per la figura di Elia e il racconto della vedova cf Domenica 32a del Tempo Ordinario-B.
[6] Cf Lc 7,1-10; 17, 11-19; Mc 5,1-20; 7,24-20.
[7] J. Bayard, «La Péricope de Nazareth», in Eph.Th.Lov., 1964, 165-171.
[8] Nell’AT, due falsi testimoni accusano Nabot di alto tradimento: «Lo condussero fuori della città e lo lapidarono ed egli morì» (1Re 21,13); il re di Giuda, Manasse, dopo la conversione: «15Rimosse gli dèi degli stranieri e l'idolo dal tempio del Signore, insieme con tutti gli altari che egli aveva costruito sul monte del tempio del Signore e a Gerusalemme, e gettò tutto fuori della città» (2Cr 33,15). Anche Gesù sarà giustiziato «fuori della porta della città» (Eb 13,12) e la sua morte è paragonata al e] fu pigiato fuori della città» (Ap 14,20); lo stesso avverrà per la lapidazione di Stefano (At 7,58) e di Paolo (At 14,19).


Giovedě 28 Gennaio,2010 Ore: 14:15