UN DIO CONTROVERSO: per una teologia del Mediterraneo
Il dibattito

di Forum Koinonia

Interventi di Daniele Garota, Ernesto Borghi, Bruno Antonello, Giovanni Benzoni


1- Da Daniele Garota

Isola del Piano, agosto 2008

Carissimo,
sono stato fuori e solo ieri sera ho potuto leggere questa tua richiesta di "aiuto". Perdonami. Ho tuttavia letto e riletto il tuo testo di proposta e direi che va bene così. Speriamo che vi siano risposte e proposte ulteriori. Da parte mia hai la piena disponibilità, sono tra quelli a cui sta a cuore la conoscenza di Dio e solo a contatto coi fratelli e le sorelle, nel reciproco ascolto, questo può essere dato.
Sono stato, insieme a Ornella e Filippo, a parlare di "comunione" alle famiglie dell’Azione Cattolica della diocesi di Vicenza riunite in un albergo in Val di Fassa. Un centinaio di persone con bambini di ogni età, tre incontri, con loro, qualche camminata tra i sentieri, un po’ di riposo. E, devo dire, tante domande su Dio. Parlaci ancora, dicevano alcuni prendendomi in disparte, di questo Dio che soffre, che ha bisogno di noi, e che ha la forza di far risorgere i morti, nessuno ce ne aveva mai parlato prima così.
Sì, caro Alberto, la parola Dio ormai vuol dire così tante cose da non dire più nulla di significativo ai più, e questo proprio mentre tutti ne hanno in fondo più bisogno che mai. Forse si potrebbe dire: mai l’umanità ha così bisogno di Dio come quando crede di non averne più bisogno, come quando pensa di poter benissimo vivere senza. E forse pochi dietro la parola Dio riescono a intravedere una persona. Non è forse per questo in fondo che Dio si è fatto uomo? Non è forse per dirci: vedete?, io vi assomiglio molto, io sono uno che patisce, che prova gioia durante i banchetti, che scoppia a piangere vedendo i suoi amici soffrire e morire, sì, io sono vostro amico.
Io credo che la gente abbia bisogno di scoprire questo Dio che ci assomiglia, che ha bisogno di noi, più di quanto immaginiamo. E non sempre i migliori sono quelli che ci ritroviamo fianco a fianco in chiesa, spesso i migliori sono fuori, ai margini, ed è a quelli che dobbiamo aprire il cuore soprattutto, iniziando ad ascoltarli prima ancora che ad evangelizzarli.
Se puoi leggiti "Pervertimento del cristianesimo" di Ivan Illich, ed. Quodlibet: sono conversazioni interessanti, a tratti profetiche. Di quest’uomo ho fatto appena in tempo a sfiorarne la bellezza del volto, la vitalità e il calore umano 27 anni fa, in occasione del convegno "Tempo e apocalisse" a Montebello. La foto che ti allego mi ritrare a giocare con lui proprio in quella occasione.

Per ottobre sono disponibile a venire a Pistoia. Comunicami, appena puoi, la data, tenendo conto però che sabato 4 ottobre parlerò con Paolo Ricca, sempre a Montebello, della seconda parte del mio libro, quella che ha per tema: "Quale salvezza?". Sarebbe bello se anche tu potessi venire. E ci sarà, nello stesso giorno, anche Piero Stefani a parlare di Quinzio.
E tieni pure conto che anche domenica 12 avrei già un piccolo impegno qui, essendo il decimo anniversario della morte di mia madre, che vorrei ricordare insieme ai miei cari.
Pe il resto hai la mia piena disponibilità.
Ti abbraccio, insieme a un caro saluto da parte di Ornella e tutta la tribù,
Daniele


2 - Da Ernesto Borghi

Milano, 16 agosto 2008

Caro Alberto,

ho letto con grande interesse quanto scritto nel documento "UN DIO CONTROVERSO: per una teologia del Mediterraneo" e nell’altro testo stilato a Pozzallo.
Da alcuni anni io stesso mi chiedo, dopo la "grande" discussione sulle radici ebraico-cristiane dell’Europa e alla ricerca di strade culturali e pastorali che davvero facciano dell’evangelizzazione in senso etimologico, che cosa sia opportuno fare e come sia opportuno muoversi per non fare accademismo o indottrinamento, cercando di parlare, il più possibile, a persone eterogenee e tentando di valorizzare la straordinaria rendita di posizione che il nostro Paese ha proprio nelal sua centralità geografica mediterranea.

Ritengo che, nell’interesse delle popolazioni che si affacciano variamente sul Mediterraneo, un’istituzione che valorizzi, dall’università alla formazione culturale tra la gente, le tre radici culturali mediterranee più profonde - quella greco-latina, quella ebraico-cristiana, quella islamica - darebbe un importante contributo verso un umanesimo aperto al trascendente che non sia ideologico, ma si fondi sulla rilettura della produzione letteraria, filosofica ed artistica dei filoni culturali prima menzionati e possa contribuire a delineare scenari spirituali e sociali costruttivi per tutti, dalla teologia all’antropologia e viceversa, nel rispetto delle peculiarità di tutti e in un dialogo che non sia irenismo.

Praticamente che cosa occorrerebbe fare?

- individuare un’istituzione accademica interessata ad attivare, presso di sé, una cattedra/un istituto che si occupi di questi temi;

- reperire almeno 100000 euro annui per costituire qualcosa di accettabilmente serio e duraturo, anzitutto a cominciare dal personale scelto e da un minimo di strutture necessarie;

- scegliere un responsabile di questa costituenda istituzione a cui dare ragionevole libertà d’azione e una retribuzione adeguata e a cui chiedere di ideare un piano di azione quadriennale, da verificare ano per anno.

Molto altro potrei dirti in proposito, ma attendo un tuo cenno di interesse...

Per ora ti saluto con vivissima cordialità allegandoti un’idea simile, che mi piacerebbe realizzare...
Ernesto


L’allegato:

PROGETTO
“alle radici della cultura europea”


Premessa
Quali sono le radici spirituali e sociali dell’identità europea? Il dibattito in proposito è particolarmente vivace. Vi sono alcuni grandi valori che in parte si sono perduti oppure hanno conosciuto dei grandi processi di trasformazione. D’altra parte il filone greco-latino e il filone giudaico-cristiano rappresentato dalla Bibbia restano i punti di riferimento originari per chiunque sia nato in Europa e viva il fatto di essere europeo non come un bastione da difendere, ma come una ricchezza da condividere seriamente con altre persone di diversa provenienza, che oggi abitano nelle nostre città e nei nostri paesi.
A questo proposito potrebbe risultare assai costruttivo il varo di un progetto di ricerca e di formazione, che cerchi di mettere in relazione alcuni capisaldi della cultura umanistica dell’Occidente con le esigenze e le questioni più significative della società contemporanea italiana ed europea. La logica di fondo sarebbe quella di contribuire ad un’umanizzazione effettiva del processo di globalizzazione socio-culturale e socio-economica palesemente in atto.
Il varo di un progetto di ricerca scientifica e di formazione culturale intitolato “Alle radici dell’identità culturale europea” tende ad offrire opportunità di aggiornamento ed approfondimento culturale (corsi, seminari, pubblicazioni) inerenti all’approfondimento dei valori etici ed estetici della cultura occidentale, in una prospettiva di dialogo intereuropeo, interculturale ed interreligioso, a giovani e adulti coinvolti nella formazione scolastico-universitaria e nella società civile nel suo complesso.

Finalità del progetto
Il progetto sovracitato, di cui sarebbe coordinatore il Prof. Ernesto Borghi, dovrebbe trovare la sua collocazione in un’istituzione accademica italiana, che sia interessata all’interdisciplinarità scientifico-umanistica e a guardare agli scenari dello sviluppo socio-economico secondo prospettive culturali di ampio respiro anche etico.

Il progetto in questione dovrebbe muovere lungo le seguenti direttrici:
• garantire corsi e seminari centrati sui nuclei fondamentali della cultura greco-latina ed ebraico-cristiana e sulle loro ricadute nei campi del sapere umanistico e scientifico antico e odierno;
• stimolare eventi interculturali che facciano comprendere, a livello ampio, nella società lombarda ed italiana gli elementi umanizzanti delle radici greco-latina ed ebraico-cristiana in rapporto alla vita della società contemporanea;
• offrire consulenze e contributi scientifici alle istituzioni sociali e culturali eventualmente interessate ai temi trattati;
• redigere testi e sussidi atti a favorire la focalizzazione degli aspetti qualificanti dell’identità culturale europea sempre in una prospettiva di dialogo interculturale ed interreligioso;
• sviluppare forme di collaborazione con istituzioni accademiche italiane ed internazionali in genere al fine di redigere progetti multilaterali di ricerca negli ambiti menzionati.


3 - Da Bruno Antonello

Cittadella, 2 agosto 2008

Caro Alberto,
… che devo dirti della teologia del Mediterraneo?
Sono discorsi "alti" che, a mio avviso, interessano una piccola casta teologico-culturale. Dove possono incidere? A chi può interessare? Che fine ha fatto la teologia della liberazione?

Noi siamo quotidianamente a contatto con una realtà più terrena, che non ci permette di fare teologici voli pindarici. Siamo abituati ormai ad assistere a messe domenicali che sono fiere di banalità. Nelle omelie si cerca accuratamente di evitare la concretezza del vangelo, troppo scomoda anche per colui che dovrebbe proclamarla. E si parla del nulla. Che delusione! E c’è un silenzio assordante anche da parte di chi dovrebbe levare alta una voce di protesta.

E allora, non sarebbe meglio parlare di una teologia del potere, o anche di una teologia della comunicazione o meglio ancora di una teologia del fallimento (cristiano)?
Scusami Alberto se parlo così, ma questo è quello che oggi sento.
Domani forse cambierò idea.
Un abbraccio.
Bruno
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Bruno carissimo,
quello che mi dici è tutt’altro che sgradito, ma mi sollecita a sciogliere perplessità e diffidenze, che ho ben presenti e a cui tu dai opportunamente voce. E te ne ringrazio. Ma son dispiacerà neanche a te se le prendo in considerazione più aperta, a chiarimento e beneficio comune e non solo come replica personale.
Ti interroghi giustamente sulla “teologia del Mediterraneo”: ma forse è bene non fermarsi alla carta con cui la questione è presentata: e la questione - per il mondo, per la chiesa, per la spiritualità, per la pastorale ecc…per la vita concreta di ogni giorno e di tutti - è quella di un Dio unico, vivo e vero, quanto mai controverso. Ricordi il titolo del libro di Turoldo che voi avete curato: “Il Dio di Turoldo”? Sempre di Turoldo possiamo ricordare “Anche Dio è infelice” e soprattutto “Il dramma di Dio”. in cui leggo (p.12) queste parole:
Unico male l’abitudine
e la scelta tragica:
discorrere invece di intuire.

E la mente si popola di idoli
e il cuore è un deserto lunare:
solo la Meraviglia ci potrà salvare,
aprendo il varco verso la Sostanza

allora il medesimo silenzio dell’origine
nuovamente fascerà le cose
o irromperà - uguale
evento - il canto

Questo per dirti che prima di ogni teologia intesa negativamente come “un discorrere invece che intuire” e cioè come razionalità senza intelligenza, la questione Dio è all’ordine del giorno e attraversa ogni coscienza, forse più in ambito laico che religioso, in cui si dà troppo per scontata e dove si impone l’immagine di un Dio-patrone funzionale a sistemi di potere.
Se tutto questo è vero - e se può essere condiviso - ne consegue che la questione non riguarda “una piccola casta teologico-culturale” ma coinvolge tutti, e forse la prima rivendicazione e riappropriazione da fare (dopo quella biblica, ecclesiale, liturgica degli anni trascorsi) è quella di Dio e del nostro libero rapporto con lui, se non si vuole che rimanga riserva privata di alcuni e quindi strumento di dominio perfino sulle coscienze.
Ma posso spiegarmi con le tue stesse parole. Quando dici - per non fare teologici voli pindarici - che “siamo abituati ormai ad assistere a messe domenicali che sono fiere di banalità”, fai capire che questo avviene perché “si cerca accuratamente di evitare la concretezza del vangelo, troppo scomoda anche per colui che dovrebbe proclamarla”.
In sostanza ci ricordi che il Dio in nome del quale si parla non è lo stesso che vive cuore dei credenti che ascoltano; e che il sale ha perso il suo sapore, in quanto il punto di forza del vangelo è il regno di Dio e la sua giustizia, mentre tutto segue il proprio corso come giurisdizione, amministrazione, organizzazione, devozione, spiritualismo, moralismo, estetismo, misticismo, benedizionismo ecc.. Forse il nome di Dio è pronunciato troppo invano e a vuoto!
Come si spiega questa frattura e come risanarla? Sì, forse sarebbe un discorso “alto”, caro Bruno, ma possiamo farne a meno? Anche perché a comprenderlo sono proprio i “semplici”. Semplificando direi che sì, al Popolo di Dio è stata riconsegnata la Parola, ma per ruminarla nel silenzio e per gustarla insieme ad altri: ma a questo Popolo non è stata “data la parola”: certamente si è ripreso tante cose e si sente protagonista, ma non si è “ripresa la parola”, per cui tu dici che “si parla del nulla. Che delusione! E c’è un silenzio assordante anche da parte di chi dovrebbe levare alta una voce di protesta”.
Dunque, abbiamo la Parola da tradurre in buoni sentimenti e buone azioni, ma non abbiamo diritto ad una parola che sia “profetica” per il mondo; abbiamo licenza di pensare la Parola a sfondo personale o comunitario, ma non abbiamo facoltà e responsabilità di pensare la fede in chiave socio-culturale.
Corretto o meno che sia, questo diritto di parola e libertà di pensiero per le cose che riguardano Dio io li chiamo “teologia”, un farsi pensiero e parola d’uomo della Parola di Dio nel corso dei tempi e nella varietà dei luoghi. Se posso sbilanciarmi ancora di più, ripeto quello che ho sempre pensato: e cioè che il Concilio, preparato e fatto da teologi e teologie varie, è stato poi tradito proprio dalla teologia e dai teologi, che sono tornati ad essere una casta e cinghia di trasmissione dall’alto in basso, piuttosto che interpreti e coscientizzatori dal basso. Salvo le note eccezioni.
A questo proposito, ti chiedi “che fine ha fatto la teologia della liberazione?”, lasciando intendere la fine a cui sarebbe destinata ogni teologia! Ma questo tuo richiamo io lo prenderei diversamente: quasi una conferma che là dove una comprensione della fede - e quindi di Dio - è radicata nelle reali situazioni storiche e personali del Popolo di Dio, diventa teologia, e cioè modo di vedere, di pensare e di agire condiviso e in qualche modo “scientificamente” elaborato per una comunicazione aperta e significativa.
Ma con tutta la gratitudine per i teologi della liberazione e il gradimento della teologia della liberazione (che a suo modo è figlia di certa teologia europea), e tenendo conto che altre zone geografiche hanno espresso una loro teologia, mi sono chiesto se anche il “Mediterraneo” - per quel che presenta di situazioni, di problemi politici, di drammi umani e sociali, di tradizioni culturali e religiose ecc… - non abbia già o non possa avere una sua dimensione teologica da enucleare come specifico “luogo teologico” o se proprio la storica culla del pensiero debba prendere a prestito qua e là un modo di pensare la fede nato in altri contesti. Ed ecco allora un’area in cui la religione persiste ed è dominante, in cui le religioni hanno avuto origine e si confrontano, in cui i vari “monoteismi” coincidono e fanno problema, in cui metodologie e strategie pastorali sono di un certo tipo e non possono essere omologate, per esempio, con quelle dell’Europa del nord o comunque del nord.
Mentre accettiamo il radicamento locale di tante altre teologie, ci fa difficoltà pensare ad una teologia del Mediterraneo come quadro di riferimento o laboratorio di fede, forse perché siamo assuefatti ad una concezione generalistica e funzionale di questa forma di sapere. Ma quando ancora tu dici che ci vorrebbe una “teologia del fallimento cristiano” non dai indicazioni precise di lavoro in questo senso? Io parlerei di una teologia del fallimento e della permanenza del cristianesimo. E Daniele Garota, proprio in questo Forum, suggerisce di leggere “Pervertimento del cristianesimo” di I.Illich: ne potremo riparlare!.
Come vedi, caro Bruno, c’è da saltare il muro delle parole e anche del proprio modo abituale di prenderle, per ritrovarsi a ridosso dei problemi reali, che sono insieme quotidiani e storici, di ciascuno e di tutti! Un pensiero comune maturato insieme è ciò che consente di coordinare quanto di più personale e soggettivo ci sia (“io la penso così!”) con le istanze stesse del pensare che mirano al reale, e quindi - nel nostro caso - alla realtà stessa di Dio, “essendo lui che dà a tutti la vita e il respiro e ogni cosa. Egli creò da uno solo tutte le nazioni degli uomini, perché abitassero su tutta la faccia della terra. Per essi ha stabilito l’ordine dei tempi e i confini del loro spazio, perché cercassero Dio, se mai arrivino a trovarlo andando come a tentoni, benché non sia lontano da ciascuno di noi. In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,25-28). Stando a queste parole, verrebbe da dire che siamo teologi senza saperlo e anche non volendolo!

Con questo non voglio sottovalutare le tue osservazioni ed obiezioni, con le quali continuerò anzi a confrontarmi.

Accetta per ora queste parole in libertà, ma non escludiamo di poter riprendere il discorso tra di noi e insieme ad altri.

Alberto



4 - Da Giovanni Benzoni

Venezia, 22 agosto 2008

Caro Alberto,

quanto tu sei stato tempestivo, tanto io sono lento nel risponderti avendo la presunzione di leggere e riflettere sui documenti mandati poi non succede mi quasi mai così: in questo caso è che solo ora ho terminato di leggere i documenti che mi hai mandato, mentre ho scorso solo Koinonia , tanto per essere contento di iniziare a seguirla con regolarità e quindi ti sono grato se mi hai già inserito nell’indirizzario degli abbonati.
La lettura dei due documenti mi ha provocato due osservazioni che ti giro (anche se non so niente del metodo e delle forme di coinvolgimento degli incontri cui ti riferisci).

1. la prima la traggo dall’ultimo libro di Raniero (p.290) in cui c’è un riferimento alle vittime; a partire dal bimbo impiccato immortalato dal racconto di Wiesel non possiamo non domandarci dovì’è Dio e soprattutto dobbiamo declinare risposte per quanto provvisorie ( e poi cè quella prospettiva di teologia a partire dalle vittime di cui Massimo Toschi ha scritto anni fa delle cose stimolanti ;

2. nel mediterraneo, mi pare, più che altrove ci sono le professioni di fede e le testimonianze dei movimenti che per quanto conosco mi paiono dei palliativi (ed anche scadenti) però è tempo per poterci confrontare con serenità e forse il tipo di itineraio che tu proponi potrebbe trovare nell’apporto non strumentale di questi nostri fratelli nella fede un necessario terreno di confronto, di aiuto fraterno. Per farmi capire ti allego un file dove ho riscritto il testo di una domanda che ho fatto in un recente incontro che annualmente organizzo (quest’anno era sulla Resurrezione con Aldo Bodrato). Grazie e a presto.
Giovanni Benzoni

L’allegato:

La conversazione che ho sentito mi affascina e mi persuade, ma a metà e perciò voglio rendere evidente in modo grossolano ciò che non mi persuade e che mi parte tocchi in radice l’impianto di quanto hai sostenuto risolvendo il problema della storicità in quello della testimonianza e della sua credibilità. La testimonianza che tu hai presentato non mi pare differisca da quella cui siamo quotidianamente abituati . E se è così ritorna il problema non riguarda la credibilità del testimone, ma il contenuto della testimonianza.
Proprio domenica 6 aprile qui a sant’Erasmo alla messa delle 11 il parroco invece di tenere l’omelia ha lasciato la parola a due neocatecumenali di una comunità parrocchiale di Venezia: marito e moglie sui quarant’anni studiati, e con quattro figli , non per un’omelia, ma per dare testimonianza. Siccome era la terza domenica di Pasqua il vangelo di Luca sull’apparizione di Gesù ai discepoli di Emmaus (cfr. Lc.24, 13-35) ho pensato che il parroco avesse operato una scelta non casuale. Ed in effetti non lo era per motivi del tutto diversi da quelli da me ipotizzati, tant’è che la cosa si è ripetuta la domenica successiva, evidenziando una logica programmata di “espansione” del movimento neocatecumenale. Aggiungo, anche se questo non centra con la domanda che ti voglio porre, che l’ascolto di queste omelie-prediche ha messo a dura prova non tanto la mia fede, ma certo la mia pazienza. Per la fede la prova è stata: - di fastidio per l’immiserimento del messaggio evangelico ad un buon tonico per reggere con serenità nella trama delle relazioni familiari: - di simpatia condiscendente per la buona volontà e sincerità dei testimoni. Niente di diverso di quando provo a parlare con molti pellegrini di Medjugore.
In tutti e due i casi gli omileti/testimoni non hanno fatto rifermento ai testi della liturgia della parola, né in termini formali, né in termini sostanziali. Ed hanno dato testimonianza del Signore che ci ama secondo uno stesso schema, in cui le uniche variabili si riferivano alle loro soggettività di partenza (studiato o meno, di formazione cristiana o meno) sino a quando hanno percepito che il Signore li ama.
Una volta partecipi di questa certezza tutta la loro normale e quotidiana vita famigliare è motivo di testimonianza che il Signore ci ama. E allora le crisi matrimoniali si superano e basta guardarsi attorno per capire il fatto eccezionale, per la maledizione dell’essere senza figli, questi vengono anche quando i medici disperano; il cancro di un famigliare e la sua morte si affrontano e si superano con serenità.
Ecco allora la domanda: in che cosa differisce la testimonianza dell’evangelista da quella del neocatecumenale?
Giovanni Benzoni

Articolo tratto da:

FORUM (105) Koinonia

http://www.koinonia-online.it
Convento S.Domenico - Piazza S.Domenico, 1 - Pistoia - Tel. 0573/22046



Martedì, 26 agosto 2008