[Ringraziamo Norma Bertullacelli (per contatti: norma.b@libero.it) per questo intervento] Credo che linsegnamento di Gandhi e della nonviolenza possano aiutarci anche a riflettere sullattuale crisi dei movimenti e della rappresentanza politica.
"La delega a pochi e una condizione di funzionamento della democrazia moderna", "Il rischio peggiore e stare in un paese che non conta niente, espulso dai luoghi in cui si decide": sono due frasi di Massimo DAlema (Kosovo, gli italiani e la guerra, p. 38 e 37) citate da Alberto LAbate nella sua lettera aperta al direttore di "Repubblica" dellaprile dello scorso anno. Mi pare che la caratteristica principale di chi milita in un movimento dovrebbe essere quella di rifiutare di delegare totalmente ad altri, sia pure capaci e stimati, di occuparsi di quella parte di "cosa pubblica" che gli a cuore.
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Parto da unesperienza cui ho partecipato direttamente. Quando cominciammo a lottare a Genova negli anni 80 contro la mostra navale bellica, esposizione biennale del "meglio" della nostra industria armiera, seguimmo inizialmente la solita prassi: appelli, incontri con le istituzioni cittadine, volantinaggi, ecc. Ma compimmo un salto di qualita quando convenimmo che, una volta esperiti tutti i tentativi per indurre gli eletti del popolo a modificare la loro posizione di appoggio a quella che consideravamo una vergogna inaccettabile, non ci restava che sdraiarci di fronte agli ingressi della fiera per impedire materialmente che la mostra fosse inaugurata. Il movimento che e stato chiamato "di Genova" si e posto questo genere di problemi, ma solo parzialmente e riuscito ad attuare la democrazia partecipata; espressione questa che proprio un quel periodo ed a partire da Porto Alegre cominciava ad essere conosciuta.
Chi ha partecipato ad azioni dirette nonviolente sa che una loro peculiare caratteristica e lassunzione di decisioni con il metodo del consenso, e la consapevolezza della necessita di fornire ad ogni partecipante il massimo di informazione, in maniera che ciascuno possa decidere in modo consapevole se partecipare o no allazione, e come farlo.
Non tutte le decisioni assunte prima delle manifestazioni contro il g8 ebbero questa caratteristica di democrazia partecipata: il peso dei rappresentanti di grosse organizzazioni e stato talvolta maggiore rispetto ad altri. Qualcuno, nel corso del dibattito che aveva preceduto il g8, aveva proposto di escludere i partiti dalle organizzazioni promotrici delle manifestazioni. Questa posizione divenne in breve tempo minoritaria, soprattutto sulla base di due considerazioni: innanzitutto non si vollero considerare i partiti come "associazioni a delinquere" e si giudico positivo il loro coinvolgimento. In secondo luogo si convenne che alcune organizzazioni, pur non avendo la struttura di partiti, potevano essere sufficientemente "pesanti" da condizionare lo svolgersi del dibattito; quindi escludere i primi e accettare le altre non avrebbe risolto alcun problema.
La consapevolezza dellesistenza del problema, tuttavia, non impedi che il peso delle entita piu grandi e meglio organizzate divenisse via via prevalente. Si realizzava pero contemporaneamente un progressivo impoverimento dei contenuti delle iniziative che si stavano organizzando: vale la pena di ricordare che il documento del Genoa Social Forum, quello sottoscritto da oltre mille organizzazioni, non parlava ne di illegittimita del g8, ne dellinaccettabilita dellordine mondiale da loro imposto, ma semplicemente di "diritto di manifestare a Genova anche nei giorni dellincontro degli otto grandi". E tuttavia, nonostante quello che fu scritto nei vari documenti, non ce dubbio che la battaglia culturale e di controinformazione fu vinta da chi sosteneva i contenuti piu radicali: certamente quanti vennero a Genova a manifestare lo fecero per contestare decisamente gli otto, e non semplicemente per ribadire il pur sacrosanto diritto a stare in piazza.
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E incontestabile il diritto di un partito e di unorganizzazione di far valere il peso dei propri aderenti: metterlo in dubbio significherebbe tornare a prima della rivoluzione francese e contestare il principio "una persona, un voto" (veramente a quei tempi si diceva "un uomo"...). Ma tentare di promuovere la partecipazione diretta di tutti e tutte alla politica deve andare al di la di questo.
I partiti "di sinistra" che sostenevano Prodi e votarono la partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan si giustificarono, tra laltro, con la volonta di evitare le elezioni anticipate e, come poi e avvenuto, di perderle. Ma proprio chi fonda la propria esistenza sul voto dei cittadini non dovrebbe temere il ricorso alle urne. Altrimenti sarebbe facile accusarli di ritenere le elezioni "buone" solo quando le si vince. E neppure dopo averle perse sono stati disposti ad ammettere che il sistema elettorale maggioritario andava bene ai tempi dellantica Roma (ma forse neanche allora), ma oggi e la negazione della democrazia.
Il movimento non e stato in grado di indurre i partiti a modificare le proprie modalita di organizzazione, non ha creato un nuovo linguaggio e nuove priorita che sostituissero la parola dordine di raggiungere e trattenere il potere.
Ladozione consapevole e coerente dei metodi della nonviolenza forse avrebbe potuto caratterizzare in senso innovativo i movimenti. Ma tra i politici della sinistra radicale sono ancora molti/e quelli che pensano che nonviolenza significhi accettazione della prepotenza del piu forte.
Chi si richiama a prassi nonviolente non e ancora riuscito a comunicare che lo stesso Gandhi riteneva preferibile la rivolta armata alla passivita; che le lotte nonviolente sono egualitarie e non discriminano i partecipanti in base alla forza fisica o al sesso; che richiedono solo consapevolezza e determinazione; e che sono state vincenti in piu di unoccasione.
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Devo ammettere di non avere una buona ricetta. Non so come sia possibile uscire dalla situazione attuale; e constato con amarezza che i colpi piu determinati alla partecipazione di tutte e tutti alla scuola pubblica li sta assestando in questi giorni la ministra Gelmini che ci fa tornare ad una scuola delite che non fornisca a tutti la possibilita di "prendere la parola".
Ma ribadisco la mia fiducia nelle prassi nonviolente che insegnano a "mettersi di traverso" una volta esperiti tutti i tentativi istituzionali di far cessare uningiustizia; e non ce dubbio che la partecipazione italiana alla guerra in Afghanistan sia uninaccettabile ingiustizia. E quindi vorrei che fossero recuperate e ripensate le pratiche di quanti, allo scoppio della guerra, avevano tentato di bloccare i treni che trasportavano le armi; e che chi blocchera i lavori della nuova base militare di Vicenza non sia solo/a. Vi sara chi obiettera che vi e protagonismo e azione diretta anche tra quanti si attivano per la propria squadra di calcio o contro la costruzione del campo nomadi. Condivido questa osservazione, ma sottolineo che nella nostra capacita di mobilitazione deve rientrare anche lo sforzo di rendere noti e condivisi i nostri contenuti.
Persuadere, per esempio, che non esiste nessun "prestigio internazionale dellItalia" da promuovere e difendere in campo militare; che i morti afghani sono come i morti italiani; che produrre e commerciare armi non e come produrre e commerciare torte di mele; che il miglior governo del mondo non vale una vita umana. Che la sovranita appartiene al popolo. Tratto da Notizie minime de La nonviolenza è in cammino
proposto dal Centro di ricerca per la pace di Viterbo a tutte le persone amiche della nonviolenza
Direttore responsabile: Peppe Sini. Redazione: strada S. Barbara 9/E, 01100 Viterbo, tel. 0761353532, e-mail: nbawac@tin.it
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Numero 595 del primo ottobre 2008
Mercoledì, 01 ottobre 2008
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