È per George Bush un’ironia ben meritata il fatto che la sua prima visita ufficiale in Israele coincida con il fermento
sollevato dall’esito inaspettato delle elezioni primarie nel New Hampshire. Niente avrebbe potuto evidenziare meglio
l’irrilevanza dell’ultimo anno della presidenza Bush. Il momento in cui un presidente in carica diventa un’ “anatra zoppa” (il termine con cui negli Stati Uniti si usa indicare
un presidente al suo ultimo anno di mandato, al fine di evidenziarne il suo ridotto potere decisionale (N.d.T.) ) varia per
ciascun governo statunitense a seconda delle circonstanze. Il giorno in cui vengono espressi i primi voti ne rappresenta
tradizionalmente la data simbolica, anche se la corsa era già stata avviata da mesi sui mass-media. La gara avvincente del
New Hampshire di quest’anno lo ha certamente dimostrato, offuscando qualsiasi interesse possano aver suscitato i piani di
Bush volti ad influenzare il conflitto israelo-palestinese. Persino prima della partenza del Presidente da Washington, le aspettative intorno alla sua visita erano ridotte. Il suo
sbandierato incontro con i leader del Medio Oriente ad Annapolis a novembre aveva infatti dato luogo ad un seguito
prevedibilmente modesto. Le sei settimane successive hanno prodotto scarsi risultati e, soltanto come gesto di cortesia nei
confronti di Bush, Ehud Olmert e Mahmoud Abbas hanno accettato di incontrarsi prima dell’arrivo del Presidente a Tel Aviv
mercoledì, e di avanzare la più sfumata pretesa di progresso nelle trattative. Secondo il portavoce di Olmert, i due leader
“hanno autorizzato le proprie delegazioni di negoziatori a condurre negoziati diretti e continui su tutte le questioni
centrali”. Non è questa per caso un’affermazione tautologica, una mera ripetizione di quanto avevano già concordato
nell’incontro di Annapolis?
L’intervento di Bush nella controversia più intricata del mondo è tardivo, insufficiente e fasullo. E, soprattutto, di
parte. Un ex premier palestinese, Ghassan Khatib, osservava giustamente la scorsa settimana: “I Palestinesi sono concordi
nel ritenere che, di fronte alla controversia israelo-palestinese, Bush è il presidente più parziale della storia degli
Stati Uniti”. In qualsiasi conflitto, la responsabilità di fare le maggiori concessioni spetta sempre alla parte più forte,
soprattutto quando ad essa è attribuibile la maggior parte dei torti. Tuttavia, malgrado la sua retorica di ieri, Bush non
ha utilizzato l’enorme influenza di Washington su Israele per porre fine all’occupazione della Cisgiordania e di
Gerusalemme Est.
Bush non ha nemmeno esercitato pressioni per ottenere la cessazione dell’espansione degli insediamenti israeliani, o lo
smantellamento della ragnatela di blocchi stradali che rende impossibile la vita di tutti i giorni ai Palestinesi. Il piano
statunitense circa gli standard secondo cui valutare il progresso israeliano è stato subito abbandonato al primo accenno di
preoccupazione del governo Olmert. Le dichiarazioni sporadiche di disapprovazione, da parte del Dipartimento di Stato
americano, nei confronti dell’espansione degli insediamenti non sono state seguite da misure che potessero riflettere
l’indignazione statunitense, quando – come è nuovamente successo a Gerusalemme lo scorso mercoledì – Olmert ha
puntualizzato chiaramente che avrebbe continuato la costruzione illegale di abitazioni israeliane.
Qualsiasi riferimento alla discussione attorno alle “questioni centrali” è privo di significato senza misure atte a ridurre
le difficoltà quotidiane dei Palestinesi, ed a porre termine al sequestro di centinaia di leader palestinesi. Circa 40
parlamentari palestinesi arrestati dopo la vittoria di Hamas nelle elezioni di due anni fa si trovano ancora in prigione,
senza essere sottoposti a processo, e apparentemente dimenticati da Bush e dagli altri governi occidentali. Le politiche
degli Stati Uniti e dell’Europa nei confronti di Hamas rimangono ostinatamente ingiuste e contraproducenti.
Nella prima fase della cosiddetta Roadmap che Bush si vanta di aver rianimato, ci si attende dai Palestinesi che edifichino
le istituzioni di uno Stato responsabile. Ciò nonostante Israele e gli Stati Uniti continuano a fare di tutto per mettere a
repentaglio questo obiettivo, prendendo posizione apertamente nella rivalità tra Fatah e Hamas. Il commento di Bush, ieri a
Ramallah, riguardo alla situazione a Gaza, è stato uno degli esempi più straordinari di miopia di tutta la storia. “Hamas
ha portato soltanto miseria ai Palestinesi”, ha dichiarato Bush. Se avesse detto “La mia reazione, e quella dei miei
colleghi israeliani e dell’Unione Europea, di fronte al mandato conferito a Hamas dagli elettori palestinesi ha portato
solo miseria ai Palestinesi” sarebbe stato più vicino alla verità.
La catastrofe umanitaria volontariamente inflitta a Gaza dalle politiche occidentali duranti gli ultimi due anni è fino ad
ora uno dei crimini più grandi di questo secolo. E soprattutto manca di giustificazione, giacché Hamas ha rispettato la
tregua nei confronti di Israele per svariati mesi, prima della vittoria alle “elezioni libere, giuste e trasparenti”
richieste dalla Roadmap. Hamas è stato e continua ad essere punito non per il suo ricorso occasionale alla violenza, ma
semplicemente per la sua popolarità. E, come accade spesso con le sanzioni, non sono i leader a soffrire, ma tutta la
popolazione civile del territorio colpito, privata di medicine, cibo adeguato, servizi pubblici e posti di lavoro.
Piuttosto che perseguire la chimera di un accordo finale che non avrà alcun valore senza il consenso di Hamas, la politica
occidentale dovrebbe concentrarsi su finalità umanitarie e politiche più efficienti: porre fine al boicottaggio di Hamas,
promuovere l’unità palestinese, e costringere Israele a cessare il suo brutale assedio di Gaza. Bush non è il primo presidente statunitense ad interessarsi alla situazione in Medio Oriente proprio nell’ultimo anno di un
doppio mandato alla Casa Bianca. Lo ha fatto anche Bill Clinton negli ultimi mesi del suo secondo incarico presidenziale.
Tuttavia il suo comportamento è stato ben diverso: Clinton aveva sostenuto il processo di Oslo già all’inizio del suo primo
mandato, e aveva appoggiato con molta energia la nascente Autorità Palestinese. Successivamente, anche se era diventato un’ “anatra zoppa”, alla fine del 2000, Clinton si è sforzato di riavvicinare
Arafat e Barak a Camp David, allo scopo di ottenere un accordo non sproporzionatamente favorevole a Israele. Il suo esempio
ha dimostrato come i presidenti americani siano in grado di agire con maggiore fermezza quando sono sollevati dalla
pressione elettorale. Ci vuole soltanto uno sforzo di volontà perché un’ “anatra zoppa” diventi un’ “aquila” di un
illuminato potere americano.
Per contrasto, l’attuale visita di Bush nella regione non è nient’altro che un’esibizione di cinismo partigiano, associato
alla speranza che, se un qualche accordo provvisorio dovesse essere firmato quest’anno tra Olmert e Abbas, ciò potrebbe
cancellare i fallimenti di Washington in Iraq.
Quali conseguenze ha tutto ciò per i Palestinesi, in un momento in cui il periodo pre-elettorale negli Stati Uniti sta per
rivelare gli ultimi due candidati alla successione di Bush? Dovranno aspettare il 2016 perché il presidente Clinton o il
presidente Obama siano abbastanza liberi da affrontare l’intransigenza israeliana ed insistere su delle concessioni?
Nessuno dei candidati ha dato per ora alcun segno di voler rompere con la tradizionale visione filo-israeliana del
problema, quindi i Palestinesi dovranno forse ancora una volta aspettare il miracolo dell’ottavo anno. Le finestre di
opportunità si aprono estremamente di rado, tuttavia il bisogno di un’azione tempestiva non è mai stato così urgente.
http://www.guardian.co.uk/commentisfree/story/0,,2239039,00.html
Venerdì, 18 gennaio 2008
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