Ringraziamo Maria G. Di Rienzo[per contatti: sheela59@libero.it]per averci messo a disposizione questa sua traduzione di questo articolo di Bobby Ghosh corrispondente dall’Iraq per Time, 22.6.2008. Nessuno ricorda che Hasna Maryi abbia mai aperto il Corano di famiglia. Raramente frequentava la moschea, e diceva ad altri
che l’imam locale era lascivo. Perciò non è stato l’estremismo religioso che ha condotto questa abitante di un villaggio
della provincia di Anbar a farsi saltare in aria ad un checkpoint della polizia irachena.
La religione può non essere stata la sua motivazione, pure Hasna è stata una vittima volontaria dell’ultimissima tendenza
della jihad, e cioè l’uso delle donne sui fronti della guerra santa. Sebbene meno di 30 su circa mille attentati suicidi
commessi dalla fine ufficiale della guerra siano attribuibili a donne, ufficiali iracheni e statunitensi sostengono che i
gruppi jihadisti stanno usando donne come bombe umane più di frequente, al fine di oltrepassare pesanti cordoni di
sicurezza (che sono la strategia principale usata contro l’insorgenza). Domenica scorsa, un’attentatrice suicida ha ucciso
16 persone e ne ha ferite almeno altre 35 a Baquba. Solo pochi giorni prima, due uomini e quattro donne hanno fatto
esplodere un’autobomba in un affollato mercato di Baghdad, uccidendo 63 persone. In ogni caso esaminato, le attentatrici
sono riuscite a raggiungere il proprio bersaglio, nonostante i dispositivi multipli di sicurezza. In una cultura che
proibisce ai poliziotti di sesso maschile di perquisire le donne, e che nel contempo resiste all’arruolamento di donne
nelle forze di sicurezza, molte di esse arrivano facilmente ad obiettivi molto “appetibili”, quali appunto i mercati o le
centrali di polizia. Possono arrivare senza controlli dove nessun uomo oserebbe andare. Le bombe umane possono aver messo
fine alla propria vita nello stesso modo, ma sarebbe sciocco tirare conclusioni sulle loro ragioni basandosi su una sola
storia: pure, il modo in cui Hasna si è fatta saltare in aria getta un po’ di luce sul circolo vizioso della disperazione
in cui alcune donne irachene si trovano. Time ha saputo della storia di Hasna da sua sorella Sadiya e dalla loro madre
Shafiqa, che ora vivono nascoste in Siria (i nomi della suicida e dei suoi familiari sono stati cambiati a loro richiesta).
Alcuni aspetti della storia sono impossibili da verificare, ma dettagli importanti combaciano con la versione provvedutami
dalla polizia irachena di Anbar. L’esercito Usa mi ha solo confermato che un’attentatrice suicida ha attaccato il
checkpoint al chilometro 5 il 23 luglio 2007.
Sadiya e Shafiqa hanno anche permesso a Time di visionare, ma non di copiare, due DVD dati loro da un combattente di
Al-Qaida: uno è l’ultima testimonianza di Hasna, l’altro è la registrazione della sua missione suicida. Il quadro che ne
emerge è quello di una donna un tempo forte, condotta alla disperazione dalla sofferenza seguita alla morte del fratello,
Thamer. Costui andò volontario come bomba umana al principio del 2007 ed Hasna, che stravedeva per il fratello, lo aiutò
ossessivamente a prepararsi. Una mattina di febbraio Thamer fu condotto al checkpoint del chilometro 5 da alcuni altri
jihadisti, ma una della cinture esplosive detonò prima del tempo, uccidendo tutti i presenti sull’automobile. Hasna sembrò
impazzire: non perché il fratello era morto, ma perché non aveva completato la sua missione. “Era pronta a sapere della sua
morte.”, dice Sadiya, “Ma l’idea che non sarebbe diventato un martire è stato troppo, per lei.”
Hasna si chiuse in casa per una settimana, sino a che i vicini chiamarono Sadiya, certi che la sorella fosse morta.
Buttarono giù la porta e la trovarono, in stato semicomatoso e circondata da escrementi. Grazie alle cure di Saidiya, Hasna
si rimise un po’ in salute, ma continuava ad essere tormentata dalla vergogna per il fallimento di Thamer, a cui si
riferiva come al “martirio incompleto”. Non ci volle molto prima che arrivasse alla conclusione che l’unico modo per
redimere il fratello era completarne la missione. Poco dopo, Hasna contattò i compagni del fratello con una proposta. Se le
fornivano una cintura esplosiva avrebbe fatto saltare in aria il chilometro 5 lei stessa.
Il gruppo all’inizio era scettico. Non avevano mai lavorato con una donna, e si sentivano sicuri che ad un certo punto
avrebbe perso il controllo. Ma Hasna li convinse con la sua insistenza, e così la mandarono in Siria affinché fosse
addestrata da comandanti jihadisti esperti e fornita di una cintura esplosiva. (La polizia irachena di Ramadi mi ha
confermato che compì diversi viaggi in Siria). La volta successiva in cui Sadiya vide la sorella, Hasna era resa frenetica
dall’attesa. Le raccontò anche storie buffe sulle sue esperienze siriane. Le credenze religiose proibivano ai jihadisti di
toccarla perciò, disse, non avevano idea di come misurare la sua cintura. Hasna si offrì di dar loro un suo reggiseno, ma
prima bisognò consultare un imam per sapere se l’Islam permetteva ad un uomo di toccare l’indumento intimo di una donna.
Il mattino in cui si fece saltare in aria, nel luglio dell’anno scorso, vi erano in servizio quaranta poliziotti (tutti
uomini) al checkpoint. Alle 9.30 una Opel chiara si arrestò a circa cento metri dal posto di blocco, ne lasciò uscire una
passeggera e tornò indietro verso Ramadi. La donna era bassa e ben piantata, indossava una lunga veste nera (l’abaya) ed
era velata. Mentre si avvicinava al checkpoint la donna sembrò inciampare nell’abaya, e cadde. Secondo i testimoni, chiamò
gli agenti: “Soccorretemi, mi sono ferita.” Mentre due poliziotti si avvicinavano, la donna raggiunse il grilletto
all’interno della tunica e la cintura esplose immediatamente, uccidendo i due agenti e ferendone seriamente un terzo. Una
grossa palla di fuoco colpì un’auto parcheggiata al checkpoint, e i cinque civili al suo interno ne risultarono gravemente
ustionati.
Una settimana dopo la morte di Hasna, Sadiya ricevette i due DVD. Dice che a stento riconosce come sua sorella la donna
ripresa nel filmato: “E’ Hasna, ma è Hasna senza Thamer.”, spiega, “Quando lui morì, lei divenne metà di se stessa, e nel
video tu vedi solo metà di lei.” E’ usuale per gli attentatori suicidi registrare un filmato come testamento, o “wasiyeh”:
di solito i filmati vengono postati sui siti web jihadisti. Vi si vedono gli attentatori, mascherati, che recitano il
Corano, esaltano le virtù del martirio e maledicono i loro nemici (tipicamente gli Usa) condannandoli all’inferno.
Il wasiyeh di Hasna la mostra a volto scoperto, con i lunghi capelli scuri sciolti. Guarda diritto in camera da presa e
parla in tono basso, monocorde. Sebbene non sembri consultare alcuna nota, il suo discorso dev’essere stato preparato: non
fa mai una pausa per raccogliere i pensieri. Il monologo, lungo quindici minuti, parla solo del suo fratellino, di come
fosse un bimbo obbediente, e di come crebbe sino a diventare un giovanotto rispettoso, uno che amava la sua famiglia e che
avrebbe fatto qualsiasi cosa per renderla felice.
Hasna racconta aneddoti sulla bravura di Thamer a scuola, narra del suo talento nel disegnare, della sua abilità nel
riparare elettrodomestici. “Quando chiunque nel vicinato aveva un problema con il frigorifero o con la tv, veniva da mio
fratello.”, dice Hasna, “Era così contento quando riusciva ad aggiustare le cose.” Non vi è un solo riferimento religioso o
politico nell’intero monologo, il che spiega come mai non sia stato postato sui siti jihadisti. Vi è solo un fuggevole
accenno alla presenza statunitense in Iraq. “Quando gli americani arrivarono per la prima volta nel nostro villaggio,”
racconta Hasna, “mio fratello fece un disegno dei loro mezzi o lo diede al loro comandante. Costui fu molto impressionato
da quanto velocemente e accuratamente Thamer aveva disegnato l’immagine.” Hasna conclude con una dichiarazione
semplicissima: “Ora vado a raggiungerlo in paradiso.”
L’altro video, girato dagli uomini che la condussero al checkpoint, mostra Hasna che guarda impassibile dal finestrino sino
a che l’auto non giunge in prossimità del chilometro cinque. Allora si vela e sistema la cintura attorno alla vita prima di
uscire. Uno degli uomini in macchina sussurra “Dio è grande!”. Lei non risponde, ne’ si volta indietro. Mentre l’auto si
allontana il video, girato attraverso il lunotto posteriore, la mostra mentre avanza verso il posto di blocco. Presto la
sua figura viene inghiottita dalla polvere sollevata dall’automobile. Circa un minuto dopo si vede un lampo e una colonna
di fumo nero. “Dio è grande!”, dice il cameraman, “La stupida donna ce l’ha fatta.”
Giovedì, 26 giugno 2008
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