"lettere dal palazzo"
call center e precariato giovanile

di Lidia Menapace

Dal quattro di agosto, il telefono fisso della casa in cui uso passare le ferie è staccato e non posso perciò usare il portatile che avevo proprio per lavorarci un po’: sono infatti indietro nella consegna di alcuni lavori, messi da parte per le vacanze. Tutti i tentativi esperiti si da me che anche dai miei nipoti, i quali, per nostra comune gioia e per far piacere a Ignazio La Russa, passano parte dell’estate con me non sono riusciti ad oggi a riattaccare il telefono. Chiamando il numero ad hoc abbiamo ricevuto messaggi che ci chiedono di pagare le ingenti morosità: non ci sanno dire da quando, né con precisione di quanto: anzi la cifra muta da 800 euro a 381 poi a 470 e infine a 315. Poiché conosco la mia distrazione ho domiciliato in banca tutte le bollette e mi pare impossibile che non siano state pagate.
Ma lasciamo questa fastidiosa vicenda personale che mi obbliga a dettare il presente articolo, e nel corso della quale più di uno mi ha consigliato di "far valere" la mia carica per riavere il servizio (immagino di quelli che protestano per i privilegi dei parlamentari): non lo faccio mai ma alla fine mi sono lasciata andare a dire che il computer mi serve perché ho articoli da inviare, ricevendo risposte del genere: "a me non interessa; che cosa vuole che ci faccia; le rispondo per pura cortesia; chiami l’amministrazione; non so che dire; a me non risulta altro": e alla domanda: "ma non ha sul monitor la mia pratica?", "a questo non posso rispondere" e altre spiacevolezze.
Ne ho approfittato per riflettere sul lavoro: se lavorassi in un call center credo che io pure finirei per atteggiarmi così. Un lavoro interrotto, spezzettato, senza relazioni, che conosce un pezzo insignificante di una vicenda, e deve procedere il più in fretta possibile, pressato da imperativi aziendali e di profitto prima e più che dall’idea di essere un servizio a disposizione del pubblico (ormai "clienti": gli unici che hanno sempre torto stranamente) che cosa può fare se non erogare una prestazione malfatta, annoiata, rigida, senza alcun coinvolgimento personale?
Il massimo di alienazione paleocapitalistica nel lavoro più "moderno". Il massimo di rigidità esecutiva da parte di lavoratori e lavoratrici quasi tutti in possesso di laurea. Il loro lavoro si erge inconoscibile davanti a loro, nella più colossale e diffusa alienazione. " A salario di merda, lavoro di merda", diceva un vecchio adagio operaio, a lavoro di merda e salario modesto e spesso non sicuro, senza futuro né sviluppo di carriera e con pensione assai dubbia, che cosa? Una umiliazione, un avvilimento, una sfiducia anche verso la struttura scolastica, un mero abbandono al caso, il massimo disinteresse per la politica eccetera. Non sono catastrofista, credo che la conoscenza sia un bene prezioso e che le scuole debbano essere molte, per tutti e tutte, le più prolungate possibile, le più critiche possibile; osservo con grandissima ammirazione e curiosità le molte e molte piccole nascoste e non valorizzate iniziative di giovani, per costruire lavori utili significativi creativi espressivi aventi un rilievo sociale o naturalistico o internazionalista o di cultura o di storia o di memoria. Possibile che non si prendano in considerazione e che non ci si preoccupi dell’abbandono della facoltà Scientifiche? Tutto ciò non fa parte della politica del lavoro? Non conta? Deve solo ricevere rifiuti? Se non ci si dedica ai ragazzini e ragazzine di elementari e medie per costruire un’etica pubblica del rispetto ambientale, dell’ambiente in cui si vive, la casa, l’aula di scuola, non si potrà mai fare una politica del trattamento dei rifiuti. Se le relazioni tra le persone non sono rette da rispetto tra appartenenti alla stessa cultura religione genere, e verso chi fa parte di un altro genere religione cultura, si può immaginare solo un paese sicuritario e investito da delitti sempre più diffusi immotivati e crudeli. Se per parlare di lavoro non si parla di ciò, di che si parla dei pettegolezzi da spiaggia?
La forma repubblicana, il metodo democratico e il valore del lavoro sono il fondamento inscindibile del nostro Paese: e si dovrebbe pur vedere. Per questo chiedo sempre che il 2 giugno sia la festa della Repubblica, del sobrio stile repubblicano e di tutte le componenti della popolazione italiana, non solo dei militari; che la democrazia sia reale partecipata e diffusa, non si accettino forme presidenzialiste e di primariato, che il governo sia collegiale è chiaro, che non privilegi relazioni plebiscitarie e stradali ma ordinate con le cittadinanze e con le determinazioni specifiche del potere locale; che agisca dimostrando che il lavoro è il suo riferimento primario.
Questo si chiede a un governo di coalizione di centrosinistra, sia pure alle sue componenti riformiste (nemmeno riformatrici) e moderate. Da sole esse non hanno i numeri sufficienti e debbono dire se intendono restare in ambito democratico e costituzionale e programmatico o andare verso destra senza ulteriori determinazioni.
Uno dei punti discriminanti, oltre la violenza contro le donne e le spese militari è il lavoro: chi pensa che sia solo una merce sottoposta alle "leggi del mercato" è fuori dalla legalità costituzionale. E deve poi spiegare perché tali "leggi" siano tanto bizzarre e arbitrarie che i mutui troppo facilmente concessi a cittadini Usa debbano colpire impunemente europei e asiatici. E i tiggì sembrano esultare, come fanno per qualsiasi primato, per la mole spropositata di risorse finanziarie bruciate di conseguenza. Tutte "leggi ferree dell’economia finanziarizzata e globalizzata"?Non c’entra nulla il possibile vantaggio elettorale dei repubblicani statunitensi, alla faccia del mondo?Mentre lavoratori e lavoratrici possono continuare ad avere un futuro incerto, nessuno sviluppo di carriera, una previsione pensionistica modesta, a fuggire da paesi impoveriti per riversarsi da noi, a morire nelle miniere in Usa e in Cina, ovunque nelle costruzioni, nei cantieri edili e stradali, a fare lavori oscuri e mal pagati, senza volto come la badanti, o addirittura di prostituzione non protetta?:un delitto sociale imperdonabile. E chi ricorda ciò, "tira troppo la corda" secondo il ministro del Lavoro?
Si deve perdere perfino la memoria dello statuto dei diritti dei lavoratori? E dello stato sociale, sostituito malamente da forme molto limitate di sicurezza sociale, cioè di beneficenza pubblica e non di diritto?
La disoccupazione giovanile è un fenomeno cominciato da un paio di decenni e chiedeva una riflessione generale sul lavoro: non per nulla sollevò la questione della riduzione dell’orario di lavoro in modo da poter avere una diversa distribuzione del te3mpo personale a disposizione anche per sé e per la cultura e per la politica. Un mutamento ben più grande di quello del forbismo, introdotto dalle "nuove tecnologie", non poteva essere risolto con pannicelli caldi. E lì siamo ancora. E’ inutile che ci si dica che anche altrove è così: infatti è una fase di dominio capitalistico nel mondo. E chi nella borghesia non è disposto ad appoggiare le sue forme più selvagge, cerca e trova alleanze a sinistra. Deve sapere che è una condizione necessaria, come lo sappiamo noi. Ma non può essere invocata per qualsiasi decisione.
Una politica per il lavoro non solo per liberarlo delle sue forme precarie ma soprattutto alienate e subalterne è indispensabile, per ragioni di civiltà, di moralità pubblica e alla lunga anche di utilità.
I giovani e le giovani disoccupate diventano col tempo inoccupati, poi inoccupabili, perché il lavoro è un modo di organizzazione della vita propria e sociale, che se non è sperimentato non agisce. A generazioni tristi per il proprio futuro non può né deve essere proposto solo un lavoro purché sia, senza futuro, senza sviluppo di carriera, senza motivazione né curiosità: ne conseguono danni sociali gravi, perdita di voglia di sapere, fuga di cervelli, vita stupida e ripetitiva, che non stimola nemmeno chi ne trae vantaggio. Lo dimostra la noia insopportabile dei cosiddetti programmi di intrattenimento di prima serata che servono solo a far dormire scomodamente sulla poltrona davanti alla tivvù o a tenere svegli con grossolane volgarità e che mimano una gara sociale insensata e nemmeno più nozionistica.
Il non rispetto dei valori costituzionali si paga molto, diventando tutti un po’ più stupidi. E chi è diventato stupido non è più nemmeno in grado di giudicare i propri consulenti.



Venerdì, 31 agosto 2007