Berlusconi e i suoi accoliti hanno vinto le
elezioni. Ma l'Italia gli ha resistito, in una misura che gli ha tolto il sogno in cui
aveva investito tutte le sue ricchezze, e gli ha negato quel plebiscito di consensi che
aveva millantato per mesi e che gli aveva fatto credere che come nuovo sovrano tutto gli
sarebbe stato permesso. L'elettorato non ha fornito la base materiale al fascismo. Quella
cultura resta minoritaria nel Paese, anche se si impossessa degli strumenti di governo. Ma
la partita, salutarmente, resta aperta.
Purtroppo, questa Italia che resiste, non ha trovato nella classe dirigente democratica
una interprete capace di tradurre la sua identità spirituale in risultato istituzionale e
in rappresentanza politica; violentato da una legge elettorale perversa, gestita al peggio
dagli stati maggiori del centro-sinistra, da Rifondazione e dal movimento dipietrista,
l'elettorato ha votato in maggioranza contro Berlusconi, ma gli ha consegnato la
maggioranza parlamentare. Legittimamente, certo, perché questa, si dice, è la politica.
Ma è una politica che ha perso il suo punto d'onore, di essere determinata da tutti i
cittadini, ed è una politica in cui chi fa le regole del gioco immagina un gioco di
burocrazie con sempre meno giocatori, fino al punto da tagliare di un terzo i seggi
elettorali, anticipando con la fantasia, ammaliata dal modello americano, quella drastica
riduzione dell'affluenza alle urne che invece l'Italia ancora rifiuta. L'angosciosa notte
elettorale ("piove, governo ladro!") non è stata solo una Caporetto
organizzativa, è stata la Caporetto di una cultura di governo che pensa ormai ad una
alternanza di eguali per fare le stesse cose (le stesse opere pubbliche, le stesse
flessibilità del lavoro, le stesse privatizzazioni), mentre la gente ancora pensa ad
alternative ideali, e questa volta si è affollata alle urne sapendo di dover fare una
scelta di civiltà.
E l'ultimo motivo glielo ha dato proprio Berlusconi col suo contratto, che è l'emblema
stesso del rapporto privatistico, in cui si scambiano con denaro beni, merci, servizi, e
perfino corpi, ma mai idee, speranze e progetti di società. Ed è stato un boomerang;
perché se il capo della destra avesse chiesto di governare in base al Patto, e al patto
costituzionale, tutti i cittadini, anche dissenzienti, sarebbero stati coinvolti e ne
sarebbero oggi vincolati. Ma lo ha chiesto in base a un contratto, nel quale uno metteva i
denari, e gli altri ci mettevano i voti. La cultura aziendalistica di Berlusconi dovrebbe
bastare a fargli sapere che il contratto obbliga solo chi lo contrae. Nel proporlo non se
ne è curato, perché ha creduto, nella sua infinita presunzione, che a contrarlo
sarebbero stati tutti, o quasi, "gli italiani". Così non è stato. La
maggioranza ha risposto rifiutandosi di barattare il Patto, che accomuna tutti, col
contratto stipulato tra pochi. E il Patto vuol dire origine e gestione democratica del
potere, controllo di legalità, garanzie giuridiche oggettive e non dipendenti dalle
convenienze personali e politiche, universalità dei diritti, per cittadini e per
stranieri, rimozione delle cause di diseguaglianza, diritto di asilo, ripudio della
guerra, e quant'altro. Si ricordi dunque ora il leader della parte vincente che egli
governerà non per un'investitura a furor di popolo, né per un'unzione sacrale, e nemmeno
per un contratto aziendale, ma per una fiducia condizionata e revocabile di una
maggioranza parlamentare e si ricordi (e il popolo lo sa) che la Costituzione non vale
un'autostrada.
(Questo articolo è pubblicato anche sul n. 11/2001 di
"Rocca")
*Raniero
La Valle è giornalista e scrittore