Dal linguaggio della politica, dei programmi, delle promesse, sono scomparsi i poveri, non ce ne sono, come se un tornado
li avesse fatti sparire.
Sono spariti i ciechi, oggi si chiamano ipovedenti.
Sono spariti i sordi, oggi si chiamano ipoudenti.
Sono spariti gli handicappati, diventati diversamente dotati.
Ora spariscono i poveri; sono stati loro appiccicati gli attributi disoccupati incapienti, persone fragili; ma non più
poveri.
La politica ha le sue esigenze; l’uso dei termini appropriati sta ad indicare una realtà che tutti vogliono nascondere
perché incapaci di provvedere.
Avanzano le istanze liberiste e tracciano un futuro fratricida.
L’itinerario è segnato, anche perché è stato programmato.
La povertà è quello stato di indigenza che non consente una qualità della vita soddisfacente, limitata nelle attese,
contenuta anche nei sogni, ma che permette il soddisfacimento dei bisogni primari.
La miseria è il momento successivo, quando la ricerca di superare la povertà ha stimolato metodi operativi di ripiego, che
non hanno risolto il problema bensì lo hanno aggravato, sostituendo la limitazione con l’assenza, la privazione e la
costrizione anche dei sogni, venendo meno la possibilità di soddisfare anche i bisogni primari.
Nei paesi ad economia avanzata, come l’occidente, ritenuto opulento, il passaggio dalla povertà alla miseria è diventato un
itinerario considerato usuale.
Vengono fornite statistiche di ricchezza prodotta, di reddito pro capite, di consumi, che dovrebbero dare la misura di un
livello della qualità della vita superiore alle impressioni dirette che si ricavano dall’osservazione quotidiana.
Le statistiche confondono la realtà con le ipotesi, i numeri con gli algoritmi del possibile.
Ogni 1.000 persone che transita dalla povertà alla miseria, solo una transita dal benessere alla ricchezza, ma si tratta di
una ricchezza che compensa l’altrui povertà, ma non negli effetti, bensì nelle ipotesi; così l’operaio, il pensionato che
non arriva a soddisfare più le esigenze primarie, si vede attribuire, dalle statistiche, un reddito pro capite di 15.000
euro l’anno ma solo perché quel solo arricchito ha un reddito tale da compensare i deficit altrui.
Ci sentiamo uno dei primi dieci paesi ricchi del pianeta, mentre la povertà incombe sulla maggioranza delle famiglie che
vive nell’economia del lavoro, mentre i pochissimi che vivono nell’economia della finanza, che non produce, non da lavoro,
non crea benessere indotto, sfruttano tutte le ipotesi appositamente preparate per evitare la triste incombenza di
contribuire ai costi dello Stato secondo le proprie possibilità, evadendo regolarmente i propri doveri, per sfruttare al
massimo i propri diritti.
Alle categorie meno abbienti vengono offerte larghe possibilità di mantenere un elevato tenore di vita, fornendo il
nuovissimo mezzo di locomozione per la miseria: si tratta del credito al consumo, per mantenere inalterato il ritmo dei
falsi bisogni che sono poi quelli che creano la ricchezza selettiva. Tale credito non è altro che un’ipoteca del futuro, un
condizionamento irreversibile del presente che si proietta nell’immediato futuro.
Una situazione del genere non può essere duratura, ma limitatissima nel tempo, certamente non oltre il momento in cui non
ci sarà più nulla da ipotecare, neanche il futuro; così accadrà il crollo verticale verso il basso, come una corsa senza
freni in un pendio a meta obbligata.
Nello stesso tempo si assisterà ad un’elevazione verticale verso l’alto di quei pochissimi che hanno impostato la propria
economia sulla finanza fatta di scatole vuote che si riempiono reciprocamente di nulla, senza che nessuno si sia peritato
di impedire lo sfruttamento dei falsi bisogni.
Ma resteremo sempre tutti, indistintamente, titolari di un reddito pro capite di 15.000 euro annui, lattanti e clochard
compresi.
Rosario Amico Roxas
Martedì, 26 febbraio 2008
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