Editoriale
Vattene satana!
di Giovanni Sarubbi
Un commento sulla riflessione di monsignor Ravasi sulla nuova preghiera per gli ebrei
RIPRENDIAMO di seguito dallagenzia ZENIT la riflessione di monsignor Ravasi sulla nuova preghiera per gli ebrei su cui molta polemica cè stata al momento della sua diffusione, soprattutto da parte ebraica, con la sospensione degli incontri fra ebrei e i cattolici. Già su questo tema ho scritto un editoriale (Vedi) e altri articoli sono stati pubblicati nella sezione nella quale ci occupiamo delle posizioni di Benedetto XVI (Vedi). Il testo della riflessione di Mons. Ravasi dallagenzia ZENIT Riflessione di monsignor Ravasi sulla nuova preghiera per gli ebrei CITTA DEL VATICANO, giovedì, 14 febbraio 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la riflessione dellArcivescovo Gianfranco Ravasi, Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, circa la modifica, voluta da Benedetto XVI, alla preghiera per gli ebrei che si recitava nella liturgia del Venerdì Santo prima del Concilio Vaticano II. Larticolo è apparso su “LOsservatore Romano” del 15 febbraio. * * * di Gianfranco Ravasi Un giorno Kafka allamico Gustav Janouch che lo interrogava su Gesù di Nazaret rispose: "Questo è un abisso di luce. Bisogna chiudere gli occhi per non precipitarvi". Il rapporto tra gli Ebrei e questo loro "fratello maggiore", come laveva curiosamente chiamato il filosofo Martin Buber, è stato sempre intenso e tormentato, riflettendo anche la ben più complessa e travagliata relazione tra ebraismo e cristianesimo. Forse sia pure nella semplificazione della formula è suggestiva la battuta di Shalom Ben Chorin nel suo saggio dal titolo emblematico Fratello Gesù (1967): "La fede di Gesù ci unisce ai cristiani, ma la fede in Gesù ci divide". Abbiamo voluto ricreare questo fondale, in realtà molto più vasto e variegato, per collocarvi in modo più coerente il nuovo Oremus et pro Iudaeis per la Liturgia del Venerdì Santo. Non cè bisogno di ripetere che si tratta di un intervento su un testo già codificato e di uso specifico, riguardante la Liturgia del Venerdì Santo secondo il Missale Romanum nella stesura promulgata dal beato Giovanni XXIII, prima della riforma liturgica del Concilio Vaticano II. Un testo, quindi, già cristallizzato nella sua redazione e circoscritto nel suo uso attuale, secondo le ormai note disposizioni contenute nel motu proprio papale Summorum Pontificum dello scorso luglio. Allinterno, dunque, del nesso che unisce intimamente lIsraele di Dio e la Chiesa cerchiamo di individuare le caratteristiche teologiche di questa preghiera, in dialogo anche con le reazioni severe che essa ha suscitato in ambito ebraico. La prima è una considerazione "testuale" in senso stretto: si ricordi, infatti, che il vocabolo textus rimanda allidea di un "tessuto" che è elaborato con fili diversi. Ebbene, la trentina di parole latine sostanziali dellOremus è totalmente frutto di una "tessitura" di espressioni neotestamentarie. Si tratta, quindi, di un linguaggio che appartiene alla Scrittura Sacra, stella di riferimento della fede e dellorazione cristiana. Si invita innanzitutto a pregare perché Dio "illumini i cuori", così che anche gli Ebrei "riconoscano Gesù Cristo come salvatore di tutti gli uomini". Ora, che Dio Padre e Cristo possano "illuminare gli occhi e la mente" è un auspicio che san Paolo già destina agli stessi cristiani di Efeso di matrice sia giudaica sia pagana (1, 18; 5, 14). La grande professione di fede in "Gesù Cristo salvatore di tutti gli uomini" è incastonata nella Prima lettera a Timoteo (4, 10), ma è anche ribadita in forme analoghe da altri autori neotestamentari, come, ad esempio, il Luca degli Atti degli Apostoli che mette in bocca a Pietro questa testimonianza davanti al Sinedrio: "In nessun altro cè salvezza; non vi è infatti altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale sia stabilito che possiamo essere salvati" (4, 12). A questo punto ecco lorizzonte che la preghiera vera e propria delinea: si chiede a Dio, "che vuole che tutti gli uomini siano salvi e giungano alla conoscenza della verità", di far sì "che, con lingresso della pienezza delle genti nella Chiesa, anche tutto Israele sia salvo". In alto si leva la solenne epifania di Dio onnipotente ed eterno il cui amore è come un manto che si allarga sullintera umanità: egli, infatti si legge ancora nella Prima lettera a Timoteo (2, 4) "vuole che tutti gli uomini siano salvati e arrivino alla conoscenza della verità". Ai piedi di Dio si muove, invece, come una grandiosa processione planetaria, che è fatta di ogni nazione e cultura e che vede Israele quasi in una fila privilegiata, con una presenza necessaria. È ancora lapostolo Paolo che conclude la celebre sezione del suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani, dedicata al popolo ebraico, lolivo genuino sul quale noi siamo stati innestati, con questa visione la cui descrizione è "intessuta" su citazioni profetiche e salmiche: lattesa della pienezza della salvezza "è in atto fino a che saranno entrate tutte le genti; allora tutto Israele sarà salvato come sta scritto: Da Sion uscirà il liberatore, egli toglierà le empietà da Giacobbe. Sarà questa la mia alleanza con loro quando distruggerò i loro peccati" (11, 25-27). Unorazione, quindi, che risponde al metodo compositivo classico nella cristianità: "tessere" le invocazioni sulla base della Bibbia così da intrecciare intimamente credere e pregare (è uninterazione tra le cosiddette lex orandi e lex credendi). A questo punto possiamo proporre una seconda riflessione di indole più strettamente contenutistica. La Chiesa prega per aver accanto a sé nellunica comunità dei credenti in Cristo anche lIsraele fedele. È ciò che attendeva come grande speranza escatologica, cioè come approdo ultimo della storia, san Paolo nei capitoli della Lettera ai Romani (capitoli 9-11) a cui sopra accennavamo. È ciò che lo stesso Concilio Vaticano II proclamava quando, nella costituzione sulla Chiesa, affermava che "quelli che non hanno ancora accolto il Vangelo in vari modi sono ordinati ad essere il popolo di Dio, e per primo quel popolo al quale furono dati i testamenti e le promesse e dal quale è nato Cristo secondo la carne, popolo in virtù dellelezione carissimo a ragione dei suoi padri, perché i doni e la vocazione di Dio sono irrevocabili" (Lumen gentium, n. 16). Questa intensa speranza è ovviamente propria della Chiesa che ha al centro, come sorgente di salvezza, Gesù Cristo. Per il cristiano egli è il Figlio di Dio ed è il segno visibile ed efficace dellamore divino, perché come aveva detto quella notte Gesù a "un capo dei Giudei", Nicodemo "Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, e non lo ha mandato per giudicare il mondo ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui" (cfr Giovanni, 3, 16-17). È, dunque, da Gesù Cristo, figlio di Dio e figlio di Israele, che promana londa purificatrice e fecondatrice della salvezza, per cui si può anche dire in ultima analisi, come fa il Cristo di Giovanni, che "la salvezza viene dai Giudei" (4, 22). Lestuario della storia sperato dalla Chiesa è, quindi, radicato in quella sorgente. Lo ripetiamo: questa è la visione cristiana ed è la speranza della Chiesa che prega. Non è una proposta programmatica di adesione teorica né una strategia missionaria di conversione. È latteggiamento caratteristico dellinvocazione orante secondo il quale si auspica anche alle persone che si considerano vicine, care e significative, una realtà che si ritiene preziosa e salvifica. Scriveva un importante esponente della cultura francese del Novecento, Julien Green, che "è sempre bello e legittimo augurare allaltro ciò che è per te un bene o una gioia: se pensi di offrire un vero dono, non frenare la tua mano". Certo, questo deve avvenire sempre nel rispetto della libertà e dei diversi percorsi che laltro adotta. Ma è espressione di affetto auspicare anche al fratello quello che tu consideri un orizzonte di luce e di vita. È in questa prospettiva che anche lOremus in questione pur nella sua limitatezza duso e nella sua specificità può e deve confermare il nostro legame e il dialogo con "quel popolo con cui Dio si è degnato di stringere lAntica Alleanza", nutrendoci "della sua radice di olivo buono su cui sono innestati i rami dellolivo selvatico che siamo noi Gentili" (Nostra aetate, n. 4). E come pregherà la Chiesa nel prossimo Venerdì Santo secondo la liturgia del Messale di Paolo VI, la comune e ultima speranza è che "il popolo primogenito dellalleanza con Dio possa giungere alla pienezza della redenzione". Venerdì, 15 febbraio 2008 |