Ringraziamo Maria G. Di Rienzo[per contatti: sheela59@libero.it]per questo intervento
(16.10.2007)
“Afflitta da dittatori e lacchè, da sparatorie e pestaggi, la mia testa è insanguinata, ma non china.” E’ il testo di un
volantino che sta circolando in questi giorni in Birmania. Per chi crede che la protesta nel paese sia rientrata con la
repressione, che sta continuando, ecco alcuni fatti. Il 5 ottobre u.s., un messaggio è stato affisso all’entrata della
Pagoda Mae Lamu a Rangoon. Il testo recitava: “Persino io, il signore Buddha, sono agli arresti domiciliari”. Tre giorni
dopo, l’8 ottobre, sessanta palloni aerostatici, ognuno carico di manifestini, sono volati nel cielo birmano dal distretto
di Thingangyun. I palloni erano tutti dipinti con il volto del generale Than Shwe e la parola “macellaio”. Lo stesso
giorno, hanno scioperato contro la repressione più di 800 lavoratori di una fabbrica di indumenti a Rangoon. E sempre lo
stesso giorno, la Federazione birmana degli studenti ha rilasciato un comunicato in cui si attesta tra l’altro:
“Riaffermiamo con chiarezza il nostro impegno a continuare a lavorare verso lo scopo (la fine del regime, ndr.) per cui le
nostre sorelle e i nostri fratelli sono caduti... La nostra associazione rafforzerà e renderà più solidi i legami con tutte
le organizzazioni studentesche, di modo da formare un fronte comune.”
Lotte nonviolente sono in corso anche in Congo, dove le donne si oppongono ad un crescendo allucinante di violenze sessuali
(27.000 stupri, lo scorso anno, solo nella provincia di Kivu). Lo studio del gruppo Safer (acronimo per “Aiuto sociale per
l’eliminazione dello stupro”), reso pubblico la scorsa settimana, testimonia che: “ogni donna viene violata da una media di
2,8 uomini. In altre parole, dietro ad ogni sopravvissuta allo stupro ci sono tre uomini impuniti”. Justine Masika Bihamba,
42enne, è una delle difensore dei diritti umani delle donne che sta tentando disperatamente di portare alla consapevolezza
internazionale quel che sta accadendo in Congo: “Non è solo violenza sessuale, è tortura. Le donne vengono assalite con
oggetti affilati allo scopo di mutilarle: coltelli, baionette, rasoi, schegge di legno. Le ferite sono così gravi che
organi riproduttivi, vesciche e intestini vengono distrutti. Spesso gli aggressori continuano a mutilare le donne dopo
averle uccise.” Chi sopravvive ha scarse speranze di ricevere aiuto, in un paese in cui le strutture sanitarie sono poche,
sparse e rudimentali. E la consulenza alle vittime la fanno solo gruppi di volontarie come quello di Justine, “Synergie des
Femmes pour les Victimes de Violences Sexuelles”. Le due figlie di Justine hanno subito lo stesso destino, assalite
all’interno della propria casa da una gang armata (ora sono nascoste ed in attesa di lasciare il paese). La madre è
arrivata mentre gli stupratori lasciavano il posto, in tempo almeno per riconoscerne uno: si trattava della guardia del
corpo di un colonnello delle forze di sicurezza. Justine si è presentata a quest’ultimo, per chiedere giustizia, ma lui si
è rifiutato di arrestare il suo sottoposto ed i colleghi di quest’ultimo hanno commentato con disprezzo che: “Madame
Justine non deve credersi speciale, diversa dagli altri che uccidiamo qui a Goma.” In Congo in questo momento milizie,
soldati, polizia locale, fuggiaschi Hutu e combattenti nomadi chiamati “Mai Mai” combattono ferocemente tra loro, ma hanno
sempre un nemico comune: infatti, nessuno di questi gruppi omette di violentare quante più donne riesce.
Ma le donne resistono e lottano ovunque. Le nepalesi Badi (un gruppo di Dalit, ovvero “intoccabili”), le principali
sostenitrici economiche delle loro famiglie, sono costrette dalla discriminazione statale, sociale e comunitaria a fare un
unico lavoro, le prostitute. Hanno cominciato ad essere molto visibili il 22 agosto scorso, sebbene ce ne fossero solo tre
dozzine in piazza a Kathmandu a chiedere il diritto di possedere la terra, la candidatura di una donna per ogni uomo
candidato all’assemblea costituente, la presenza di proprie rappresentanze legali ad ogni livello in cui il governo si
occupa di discriminazione razziale, e il diritto alla cittadinanza per i loro figli, di cui essi sono ora privi. La piccola
manifestazione è stata dispersa a forza di botte, e le donne incarcerate, ma cinque giorni dopo le dimostranti nello stesso
luogo erano 450. Stanno continuando a chiedere che i loro diritti umani vengano riconosciuti, anche in questi giorni, ed
hanno ribadito che: “Le violazioni dei diritti umani delle donne Badi sono un’umiliazione per tutte le donne nepalesi.”
Allo stesso modo stanno resistendo le donne dello Zimbabwe, le coraggiose donne di Woza (Women of Zimbabwe Arise). Le loro
manifestazioni e proteste sono rigorosamente nonviolente. L’inflazione nel loro paese è del 6.000% (avete letto bene:
seimila per cento). Da mesi non sono in grado neppure di comprare il pane, e la mancanza di cibo sta peggiorando il tasso
di mortalità relativo all’Hiv/Aids. Le donne di Woza vogliono elezioni libere, diritti umani, fine delle brutalità
poliziesche. Il 40% di esse ha subito violenze e pestaggi sia durante le dimostrazioni sia in carcere, ma non mollano.
Prendete le loro leader: Jenni Williams è ormai stata imprigionata 29 volte, Magodonga Mahlangu 20 volte; Mary
Ndlovu, il cui marito è stato incarcerato senza accuse e senza processo negli anni ’80, ed è morto poco dopo il rilascio,
si spiega così: “Mi sono unita a Woza perché è un movimento di donne che stanno insieme, sono coraggiose insieme,
ridefiniscono insieme il potere. Per troppi anni abbiamo sofferto in silenzio. In tutta la nazione ci sono donne che ci
sostengono, e quando non sono fisicamente presenti è solo a causa di questioni logistiche.”
Fanno paura, queste difensore dei diritti umani? Moltissimo. Bisogna metterle a tacere in ogni modo, e quando sono troppo
famose e rispettate per risolvere la questione a bastonate e galera, le si imbavaglia a livello di media. E’ il caso di
Ghada Jamsheer, attivista per i diritti delle donne nel Bahrain, che ha ottenuto questo onore direttamente dalla corte
reale del paese: è fatto divieto a radio, televisione e giornali nazionali di riportare le sue parole o di nominarla. E’
vero che, in tutta la regione del Golfo, Ghada viene considerata un modello e uno stimolo per le organizzazioni di donne e
per quelle che si occupano di diritti umani; è vero anche che assieme a Benazir Bhutto e Shirin Ebadi ha contribuito a
formare il “Forum delle donne musulmane per i diritti umani”, che si è riunito in plenaria per la prima volta ad Oslo nel
maggio 2007, ma ultimamente ha proprio esagerato: ha scritto a sua maestà lo sceicco Hamad bin Isa Al Khalifa chiedendo che
il Consiglio supremo per le donne, presieduto dalla di lui moglie, venga riformato, includendovi le associazioni
indipendenti di donne, giacché ha sistematicamente fallito tutti gli obiettivi per i quali era stato creato. Davvero, certa
gente non ha proprio pudore: vogliono persino che gli uffici del loro governo funzionino.
Il governo statunitense, per esempio, funziona male non solo a livello di libertà civili, cura dei propri cittadini, e
aggressioni internazionali: la Commissione Inter-Americana per i Diritti Umani lo ha dichiarato colpevole il 5 ottobre
scorso, su una causa intentata da Jessica Lenahan, una donna del Colorado. La Commissione ha stabilito che il governo Usa è
obbligato a provvedere protezione alle vittime di violenza domestica secondo i termini dei trattati internazionali. Jessica
aveva chiesto inutilmente e disperatamente tale protezione: non avendola ricevuta, il suo ex marito è riuscito ad
ammazzarle tutte e tre le figlie.
Per migliorare, si potrebbe prendere ad esempio... l’Afghanistan. La provincia di Bamiyan, intendo. La governatrice è una
donna, e le elettrici sono il 52% dell’elettorato totale. Hanno poco e niente, come il resto del paese, ma quel che hanno è
messo a frutto per i cittadini e le cittadine, così la provincia ha generatori elettrici condivisi, abbastanza cibo per
tutti, nessun talebano in giro e neppure mezzo burqa. Fu l’ultima provincia a cadere durante la guerra che portò al potere
i talebani (nel 2001, pochi mesi prima dell’invasione americana), resistendo cinque anni oltre la resa di Kabul. E se
volete parlare di come vanno le cose con il più prominente dei religiosi locali, per esempio per quanto riguarda il
benessere della provincia, egli vi presenterà alla sua collaboratrice Latifah Naseri, economista dal sorriso timido ma dal
volto scoperto. Tutti e due hanno dichiarato ai visitatori della stampa straniera di essere piuttosto a disagio quando
devono recarsi a Kabul.
Uno studio interessante, a proposito, è stato reso pubblico il 15 ottobre 2007: riguarda le possibilità di “rompere il
soffitto di vetro” da parte delle donne nei paesi in via di sviluppo. Lo ha redatto una ditta privata, la
PricewaterhouseCoopers, per conto del Forum delle Donne che si è tenuto a Deuville, in Francia, lo scorso fine settimana.
L’indagine ha toccato otto paesi fra cui la Cina, l’India e la Germania, ed ha scoperto sorprendentemente che: “... nei
paesi industrializzati, gli stereotipi culturali e le percezioni discriminatorie possono rappresentare barriere maggiori
per la piena partecipazione delle donne rispetto a moltissimi paesi in via di sviluppo.” Il responsabile della ricerca,
Samuel Di Piazza, dice: “Le norme culturali dei paesi “sviluppati” sono più profonde e durature, specialmente quelle che
riguardano l’economia. In alcuni paesi, come la Germania o la Svizzera, le donne possono dover affrontare più ostacoli
rispetto ad aree in via di sviluppo, ove vi è un’enorme richiesta di persone che abbiano talento, e dove tale richiesta
induce a riaggiustare le norme culturali che sarebbero di impedimento alle donne.”
Solo questione di buon senso, quindi. Lo stesso che ha permesso per la prima volta, nella città turca di Anatolia, alle
ragazze musulmane di battere i tamburi all’alba insieme con i ragazzi, durante il Ramadan. Le battitrici di tamburo hanno
segnalato ogni giorno l’ora dell’ultimo pasto prima del digiuno rituale. Che possano continuare a battere i tamburi ogni
volta in cui qualcuno dirà loro che, come femmine, valgono meno degli uomini, o non possono far questo o quello.
Fonti: Al Arabiya; Christian Science Monitor; Gulf News; International Herald Tribune; Reuters; The Guardian; The Toronto
Star; We News; Women Human Rights Defenders; Worec Nepal.
Martedì, 16 ottobre 2007
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