Ringraziamo Maria G. Di Rienzo[per contatti: sheela59@libero.it]per averci messo a disposizione questa sua traduzione di Eesha Pandit per Reality Check, luglio 2007
Il primo studio in assoluto che fornisce una graduatoria delle nazioni in rapporto al loro livello di pace, l’Indice
Globale di Pace (IGP), è stato di recente pubblicato dall’Economist Intelligence Unit.
Basato sulla nozione che nel concetto di pace vi è di più che la mera assenza di guerra, lo studio usa 24 indicatori per
misurare la pace quale “assenza di violenza”. Fra essi vi sono le guerre interne ed esterne, l’instabilità politica,
l’accesso alle arme e le spese militari.
Nonostante tale vasto raggio di considerazioni, l’Indice ha una pecca fatale. Com’è stato già notato dal Christian Science
Monitor e da Womens E-News, omette di includere la forma maggiormente prevalente di violenza globale: quella contro donne
e bambini, che spesso si dà sotto la copertura dell’impunità e all’interno delle loro stesse famiglie.
In effetti, il solo componente dello studio che remotamente richiama lo status delle donne è il tasso di mortalità
infantile; poi ci sono, com’è ovvio, altre considerazioni sulla popolazione. Trattandosi di un lavoro che ha lo scopo di
guardare oltre le tradizionali conquiste militari come misure di pace, questa è una dolorosa negligenza, perché è nella
propria casa che la maggior parte della popolazione mondiale fa esperienza della violenza. Tale esclusione significa che
violazioni dei diritti umani quali i delitti “d’onore”, le mutilazioni genitali femminili, gli infanticidi delle bambine,
le violenze del partner, l’abuso sessuale e la cronica mancanza di cure mediche per le bambine non fanno parte del quadro.
Un’omissione così significativa non può non essere notata. E’ l’esempio perfetto del perché le avvocate dei diritti umani
delle donne hanno ancora necessità di urlare dai tetti che i diritti delle donne sono diritti umani. La violenza che le
donne sono costrette ad affrontare nelle loro case e nelle loro comunità non è separabile dallo status delle loro nazioni.
Per questo motivo gli indicatori che lo studio incorpora sono essi stessi incompleti. Per esempio, nel considerare solo la
popolazione, i ricercatori non riescono a comprendere che la collocazione piuttosto bassa della Cina nell’Indice
(sessantesimo posto) è dovuta anche al fatto che l’infanticidio femminile è ancora uno dei più gravi problemi del paese.
Inoltre, paesi il cui posto nella graduatoria è abbastanza alto hanno un livello di pace che certamente non è goduto da
tutti i cittadini: si considerino Romania e Polonia (26° e 27° posto), in cui il traffico di donne e ragazze certamente
influisce sul livello di pace goduto all’interno dei loro confini.
Mentre, al primo sguardo, l’omissione della violenza contro donne e bambini dall’Indice Globale di Pace può apparire come
un fatto di mera negligenza (è una dimenticanza sin troppo comune), essa è qualcosa di più. Questo tipo di razionalità è
sintomatico di un problema più vasto: le questioni che le donne affrontano non vengono registrate sullo scenario
internazionale come questioni che in realtà interessano tutti. Non sono fatti nazionali o internazionali, in questa
percezione, sono semplicemente casi personali. Abbiamo già sperimentato in precedenza tale tipo di ragionamento: il lavoro
domestico delle donne viene a stento preso in considerazione nelle riflessioni su come l’economia capitalista funzioni
attualmente; gli stupri non sono visti come crimini di guerra e i crimini che si danno all’interno delle case vanno al di
là della giurisdizione statale.
Dall’altro lato, ciò che dovrebbe restare personale viene trascinato nell’arena pubblica. Osservate i pubblici dibattiti
attorno al corpo femminile quando una donna decide di avere o non avere un figlio, o il modo in cui le nostre famiglie sono
costruite: non sono faccende che si decida di tralasciare facilmente.
I ricercatori ed i finanziatori del rapporto guardano forse a queste istanze come a qualcosa di incorporato negli
indicatori da loro scelti, e ad un certo livello ciò potrebbe essere corretto: lo status delle donne sicuramente ha
influenza su altri aspetti, come l’entità della popolazione o la sicurezza economica. Tuttavia, non esplicitando le
connessioni, essi cadono in una vecchia trappola politica. Prendono in considerazione i “livelli di crimine violento” senza
dar conto del fatto che in moltissimi luoghi la violenza domestica e quella del partner non sono ritenuti crimini. Omettono
di riconoscere che la violenza individuale è inestricabilmente connessa alla violenza internazionale. Non comprendono che
il più accurato segnale dello status di una donna in una società è il controllo che essa ha sulle proprie scelte
riproduttive. Non riescono a capire che i bambini che crescono in case ove le loro madri, le loro sorelle e loro stessi
vengono brutalizzati, non stanno vivendo un’esistenza pacifica. Riporto dal sito web di IGP, “Vision of Humanity”: “La pace
è un concetto potente. Tuttavia la nozione di pace, ed il suo valore nel mondo dell’economia, sono compresi male.
Storicamente, la pace è stata vista come qualcosa che si vinceva con la guerra, oppure come un ideale altruistico. Ci sono
definizioni contrastanti di pace e la maggior parte della ricerca sulla pace è, in realtà, lo studio del conflitto
violento. “Vision of Humanity” contiene i risultati dell’Indice Globale di Pace ed altro materiale interessante sulla pace.
Contiene anche una sezione sulle istituzioni che hanno bisogno di aiuto per finanziare iniziative relative alla pace.
Questa risorsa verrà aggiornata nel tempo per combinare ad essa materiale più rilevante, che dimostrerà le connessioni tra
pace e sostenibilità.”
Noi possiamo solo sperare che nelle edizioni future i supervisori dello studio tenteranno di rettificare le clamorose
omissioni, e faranno lo sforzo di capire veramente cosa significa vivere in pace.
Mercoledì, 26 settembre 2007
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