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www.ildialogo.org LE VIE MIRABILI DEI SOGNI, IL SAMARITANO E RE ARTU'. Due meditazioni di Saverio Caruso,a cura di Federico LA Sala

L'AMORE NON E' LO ZIMBELLO DEL TEMPO (W. SHAKESPEARE)
LE VIE MIRABILI DEI SOGNI, IL SAMARITANO E RE ARTU'. Due meditazioni di Saverio Caruso

(...) La compassione, l’amore del prossimo, la bontà, la reciprocità hanno un’ampiezza di universalità che non può essere rinchiusa in una professione di fede o in una ideologia: non sopportano appartenenze. Le parole di Gesù sul buon samaritano (Luca, 10,25-37) fondano la natura universale e laica della tensione verso l’Altro e la speranza che, nonostante le immani forze immisericordi presenti nel mondo, non sarà mai vinta la nostra volontà di restare umani dentro e oltre ogni fede (...)


a cura di Federico LA Sala

Nella Chiesa: le vie mirabili dei sogni

 

di Saverio Caruso

Sogno dell’essere fiore

“Il primo giorno, / dopo poche ore di testimonianze, / l’Arcivescovo ha pianto. / Ha appoggiato il suo capo grigio / sul lungo tavolo / di carte e protocolli / e ha pianto /...Non importa quello che pensavate / dell’Arcivescovo prima e dopo, / dell’accordo, della commissione, / o quello che gli antropologi accorsi / da crimini e dolori meno studiati, / hanno detto del suo discorso /...C’era quel lungo tavolo, una veste di porpora inamidata / e dopo poche ore di testimonianze / l’Arcivescovo, presidente della commissione, / ha appoggiato il capo sul tavolo e ha pianto. / È così che è cominciato”.1

È così che ha cominciato a mettere radici e rami l’albero di una chiesa, salice piangente chino sull’immenso dolore degli esseri umani e di tutti gli esseri viventi, il più grande albero del mondo, madre feconda di terrestrità celeste. Sotto lo stormire luminoso delle sue fronde, si parla una lingua malinconica e dolce, spontanea carezza a toccare la fragilità del tutto. Perché, come dice Cioran, mai il reale è il Dolore, anzi è una sfida alla finzione universale.

Qui si vive la dolcezza del sacro, con tutte le creature. Qui non si assediano le anime, non si lanciano anatemi: si conoscono i precetti, ma si è attivi al bene. E non si scruta il mondo con le dottrine e non si pensa di possedere Dio: così non si è posseduti dal potere. Una coscienza appassionata dell’umano limite porge reciprocità, coesistenze e invocazioni.

E nessuno è signore del dolore degli esseri umani. Intorno alla solitudine di ciascuno non nascono pretese, ma si vive di offerta sobria della parola e di ascolto. E la più sobria, la più paziente, la più flessibile, la più fragile, la più grande delle parole, il Vangelo, non risuona nel vuoto: la fede è sorgente di prossimità, non rendiconto dell’anima a se stessa sulla propria rettitudine.

Mai irreale, il dolore ti apre al senso tragico del vivere e ti guida alla conoscenza delle innumerevoli forme di vita offesa sulla terra. E ti fa messaggero di parola solidale e di soccorso presso gli assetati e gli affamati fuori dalla tua porta e presso i milioni di schiavi - bambini, donne e uomini - defraudati della libertà e della vita da planetarie forze immisericordi.

E ti fa messaggero non di guerra, ma di dolcezza e di diritti presso coloro che sono costretti a vivere - senza forma alcuna e con insondabile sofferenza, alimentati da una macchina, presso tutti i cacciati e tutti i discriminati, anche i discriminati da culture aggressive per questioni di sessualità. E ti fa portatore di un rispetto senza fine per la pena degli uomini, di un rispetto senza fine per una nuova interiorità, anche profana, generosa di infinita misericordia.

È una interiorità che colma del senso dell’umano colui che, ferito dalle ferite degli altri, si fa umile e si genuflette per un istante di commozione.

L’istante in cui nasce un fiore.

Sotto il pianto dell’Arcivescovo, la condizione della Chiesa è di essere fiore.

Dice Emily Dickinson: “Essere un fiore, è profonda responsabilità”.

Sogno del miracolo del prossimo

Lo scrittore polacco Czeslaw Milosz ci porta testimonianza di un “uso sconsiderato della croce”, che è in molti credenti, con le parole di Stanislaw, un sacerdote i cui genitori, cattolici, durante l’occupazione nazista erano stati più dalla parte degli oppressori che delle vittime (“nel loro caso il timore per la propria vita era stato più forte della compassione e persino della normale buona creanza”). Stanislaw dice che i fedeli “ostentavano nelle loro chiese questo strumento di tortura - la croce - come simbolo di salvezza, senza scorgervi il corpo contorto nella sofferenza, quasi che essere cristiano fosse possibile soltanto ponendo un veto alla propria immaginazione. La trasformazione del crocifisso in una astrazione aveva contribuito a rendere meno reale il corpo sul patibolo o nella camera a gas, così da non ammettere che la religione di un Dio crocifisso è la religione del dolore cosmico”.2

È una spiritualità della sicurezza liturgica, povera di prossimo e scarsa della coscienza del dolore, la stessa del sacerdote e del levita che non soccorrono sulla via di Gerico: si prega per sé, per gli altri forse e per il mondo, nel santuario, e ci si ritiene esentati dall’obbligo del donarsi altrimenti. L’amore del prossimo si esaurisce dentro il tempio. Astratto e sempre uguale a se stesso, lontano dalla sofferenza, non ferito dalle ferite degli altri, è una sorta di contratto formale depositato nelle chiese. Prevedibile, scontato, arido, è accorciamento di coscienza e di fede; relativo spesso a un’appartenenza, non impedisce che il cuore sia impegnato in più di una guerra per fabbricare distanze, esclusioni, gerarchie, disuguaglianze, agguati e trame per far scomparire dalla città il perdono, “l’altissimo perdono” (Aldo Capitini).

L’amore del prossimo può essere vissuto come appassionante avventura nei territori della differenza, non come debole pensiero del cuore che non ha immaginazione. James Hillman, che ci parla del pensiero del cuore come di un “pensiero nobile e regale, scaltro come un animale, ardito, coraggioso e incoraggiante, capace di godere le forme dell’intelletto e insieme di difenderle fieramente, e generoso nella sua compassione come nella sua potenza visionaria, creatore di bellezza nel linguaggio delle immagini”, ci dice anche di una immaginazione prigioniera: “il pensiero del cuore si è corrotto, trasformandosi in quelle che sono le odierne malattie cardiache: la sentimentalità del personalismo, la brutalità dell’efficienza, il delirio di grandezza del potere, e le facili effusività religiose”.3

L’amore del prossimo è amore di nobile, regale, libera immaginazione. Come il prossimo che irrompe sempre anche nel nostro piccolo mondo, spesso imprevedibile, la regale immaginazione dell’amore non ha limiti geografici, culturali, sociali, politici, umani.

Nella sua potenza visionaria e nella sua compassione che condivide le ferite degli altri, non ha preferenze e non sceglie in base a convenienze: “Il prossimo non si seleziona, si accetta anche nei momenti più inopportuni. Il prossimo viene a volte da dove meno si pensa. Il prossimo è gratuito: non ha nessuna determinata mentalità, nessun colore concreto. Il prossimo irrompe nella nostra vita”.4

Senza l’immaginazione del dolore cosmico, di cui la croce è simbolo, senza il pensiero dell’infinità del prossimo, senza l’ampio respiro di pace tra gli uomini, l’amore del prossimo si restringe a una appartenenza di verità, di chiesa, di santuario, di comunità e non impedisce intolleranze feroci.

Difficile è l’immaginazione del prossimo, sicché Ulrich Beck si chiede: “Ma la speranza in un amore del prossimo senza inimicizia mortale non è la speranza più inverosimile, ingenua, folle, assurda che si possa concepire?”. E già prima lo scrittore di origine ebraica Albert Cohen, rivolgendo un’appassionata preghiera ai fratelli umani, aveva invocato non l’amore del prossimo, ma l’avvento di un’immensa pietà tra gli uomini: “Abbiate pietà gli uni degli altri....per pietà e fraternità fatta di pietà ed umile bontà di pietà, non odiare più importa più dell’illusorio amore del prossimo, amore immaginario, menzogna a se stesso, amore diluito, estetico amore superficiale, teatrale dichiarazione, amore di sé e mendico d’una presuntuosa santità...pericoloso amore che mantiene l’ingiustizia...sterile amore che in duemila anni non ha impedito né guerre né i loro massacri, né i roghi dell’Inquisizione, né i pogrom, né l’enorme genocidio tedesco, spaventosa coesistenza dell’amore del prossimo e dell’odio.5

Il mondo umano è più ampio del nostro amore del prossimo. Se non ce ne rendiamo conto per misteriosi calcoli relativi alla nostra vita terrena e all’utile illusorio che la sostiene, siamo creature di corta fede e corta coscienza.

Miracolo impossibile diventa la scoperta del prossimo.

Davanti alla porta di una chiesa, in un paese dell’Italia centrale, un fedele, in attesa come me della celebrazione della Messa, mi si avvicina per comunicare la sua indignazione per l’ennesimo sbarco di gente affamata e assetata sulle coste meridionali. Non bisogna accoglierli, dice, ci costano più loro d’acqua che una città, e ripete il suo no a ogni parola di buona novella sul dare da bere agli assetati.

Sulla soglia della chiesa comincia il sogno del miracolo della scoperta del prossimo e mi lascio andare alla fantasia che è più vasto di tutti i mari il sorso d’acqua offerto ai pellegrini della terra nel cavo della mano.

Il sogno dell’opporsi allo spirito del tempo

Corta la fede, corta la coscienza: il Cristianesimo è solo dottrina, non vita?

Secondo Pàvel N. Evdokìmov, “la cristianità, nella sua gran massa, pratica la grigia religione degli uccelli notturni, la cui gravosa serietà fa venire voglia di diventare ateo, oppure pratica la religione fatta di alcuni avanzi semplicistici e ottimistici, di facili sorrisi e d’oblio della morte, la cui fatuità di visione disarma”.6

E l’umanità nuova? Inaridito il pensiero del cuore intorno al prossimo, la coscienza si adegua al corso delle cose e tutto è possibile o permesso, perfino la guerra, la discriminazione, l’ingiustizia.

La giustizia è estranea alla coscienza. Raimon Panikkar , a questo proposito scrive: “Aver separato ‘rettitudine da giustizia’ nel tradurre la dikaiosyne cristiana rappresenta una rivoluzione maggiore nell’autocomprensione della cristianità: si potrebbe allora essere giustificati (essere salvi in quanto retti) mentre si trascura la giustizia (riguardo a questioni umane). Per secoli la cristianità non ha condannato la schiavitù...”.7

Oltre le frontiere della propria personale rettitudine, tutto è lecito? Il respiro del cristiano è il respiro del tempo, il suo spirito è lo spirito del tempo? Ma non facevano così anche i pagani?

Non oportet ut veniant scandala. È possibile, è conveniente, è necessario prescindere dallo scandalo?

Non c’è l’umanità nuova, ma lo spirito del tempo?

Enrico Castelli aveva avvertito che “non opporsi allo spirito del tempo significa accettare un costume che può essere ed è molto spesso un malcostume”. Si tratta sempre di una abitudine dannosa a sé e agli altri: “Che la dannosità non costituisca un male morale, può anche darsi, se per male morale si intende appunto la consapevolezza del male stesso e, quindi, la responsabilità. Ma se invece la dannosità viene considerata nei riguardi dei riflessi che un’opera compiuta può produrre, sì da apportare un disorientamento, possiamo dire che quella dannosità incide indirettamente sulla vita morale degli individui”.8

Lo spirito dei tempi ci presenta una caotica cavalcata dell’inclemenza, un alveare scontento percorso da impietose paure, egoismi individuali e di gruppo, risentimenti sociali frammentati, esaltazione delle differenze e delle disuguaglianze, esclusioni, razzismi, umiliazioni, irrisione dell’equità e della solidarietà, corruzione e potenza della corruzione che genera privilegi, ingiustizie e slealtà, ipocrisie e servilismo, ammirazione dell’astuzia e della forza che operano contro il diritto, grande concorso di uomini pubblici che tramano e fabbricano in una notte leggi che trasformano la funzione governante in potere personale di sovrano.

Nell’alveare scontento che è diventata la società, più che i bisogni degli altri, conta la preminenza sul prossimo vicino e lontano, conta una signoria da conquistare, per meschina che sia. Conta per qualcuno la preminenza del comando, a qualsiasi costo, sospetta e arrogante passione di una mediocrità che si fa feroce.

Operano nell’ombra cliniche della morte, in cui si manomettono organi vitali senza necessità e si può giungere a uccidere per far soldi.

Dirigenti che distruggono aziende, il loro valore azionario e il lavoro dei dipendenti vengono premiati con buonuscite da sultani.

Nei luoghi di lavoro si continua a morire.

La criminalità organizzata continua a dominare città e territori, mentre il nemico della sicurezza lo si individua soprattutto nello straniero.

Dappertutto cronaca di vita offesa, che sgomenta.

Molti, per cecità culturale, per interesse, per mancanza di immaginazione circa l’amore del prossimo, si adoperano per incrementare gli egoismi, la sregolatezza, le paure e le inclemenze, contribuendo così al propagarsi di un contagio di cattiva reciprocità tra i cittadini e tra gli esseri umani.

René Girard dice che la reciprocità violenta nasce dal desiderio mimetico, o imitazione desiderante, dal desiderio di fare come gli altri. Si ammira e si imita l’astuzia che ha successo, la “coscienza” senza scrupoli che arricchisce il suo portatore, l’istinto predatorio che diviene diffusa virtù, il travestimento della menzogna in oracolo.

Lo spirito del tempo in cui ci tocca vivere distrugge il senso dell’umanità e della cittadinanza. Di questa società pagana che ci sorride sfrontata, non siamo anche noi credenti responsabili facitori? Quante lusinghe non abbiamo accolto, quanti inviti non accettato, provenienti da falsi devoti, da doppie identità, da ideologi del privilegio? Quante alleanze, visibili e invisibili, non abbiamo intessuto?

Quanti cattolici partecipano alla cavalcata dell’inclemenza!

Ma continuo a invocare l’essere fiore e il miracolo della scoperta del prossimo, e il pensiero del cuore nutre il sogno di una chiesa che si oppone allo spirito del tempo.

Il sogno di essere musica

Non si può torturare pregando. Non si può torturare.

Il credito concesso a forze immisericordi (vedi ad esempio l’appoggio a dittature e regimi militari) nasce dalla separazione della rettitudine dalla giustizia.

Credo che il perdurante risentimento della Chiesa nei confronti dell’Illuminismo non riguardi tanto le verità metafisiche o il ruolo della scienza, quanto il coinvolgimento dell’uomo e del cittadino, credente e non credente, in un’opera di emancipazione dell’umanità dai rapporti antichi di subordinazione e di dominio, da pregiudizi disumani, da gerarchie e da privilegi, da legislazioni crudeli, da coercizioni e persecuzioni religiose.

L’Illuminismo predilige non la salvezza personale basata sulla rettitudine, ma la giustizia, la libertà, l’uguaglianza, la fratellanza, ampliando verso l’universalità del dramma del vivere l’impegno di ognuno. L’Illuminismo chiede ampiezza di coscienza, e vuole anche dolcezza di coscienza: dolce filosofia che opera dolci cambiamenti nello spirito degli uomini (d’Holbach), dolce giustizia, ma certa, senza più torture e pene di morte (Cesare Beccaria, il cui libro, “Dei delitti e delle pene” risulta ancora all’indice dal 1764), dolcezza nei rapporti umani (filantropia e solidarietà).

Perché la Chiesa dovrebbe tener sempre lontana da sé questa utopia insopprimibile nel cuore dell’uomo? Perché la Chiesa si trova spesso accanto alle oscure forze dell’inclemenza nella condanna della cultura dei lumi? Tutti i crimini commessi contro l’umanità sono scaturiti dalla feroce negazione dell’ampiezza della coscienza, che alimenta la cultura universale dei diritti e dei doveri dell’uomo.

La riconciliazione con l’Illuminismo aiuterebbe a rigettare lo spirito dei tempi e a progettare l’umanità nuova.

Raimon Panikkar dice che nessuna religione o cultura è autosufficiente per alleviare la condizione umana. Perché, e fino a quando ancora, le due utopie che contemplano la solidarietà, la compassione come condivisione, il soccorso reciproco, dovrebbero restare separate? Quale lotta per la supremazia le tiene divise?

Anche se dolce cosa è a molti la guerra, io invoco la dolcezza, il canto umano, una musica che contenga l’infinito e il finito dell’uomo.

In un suo recente libro, Daniel Baremboim fa fiorire una somiglianza tra l’interpretazione della musica e la comprensione della natura umana. “Lo spartito, dice, è la sostanza ultima, l’opera perfetta, mentre la sua interpretazione è un’espressione finita e transitoria, che si svolge nel tempo e ha un inizio e una fine. Essere in grado di afferrare la sostanza della musica in sé significa essere pronti a intraprendere una ricerca che non terminerà mai”. Similmente: “L’essenza distillata di un’idea, che è infinita, non va confusa con la sua attuazione, che è finita. L’essenza di un’idea non è soggetta a cambiare nel corso del tempo, mentre la sua attuazione varia, e dipende dal tempo, dalla percezione e dalla comprensione”.9

Prendiamo l’idea di famiglia. La famiglia, nella nostra epoca, viene idealizzata sotto diverse forme culturali. La Chiesa ha ragione di difendere la sua forma, la famiglia fondata su matrimonio, ma potrebbe aprirsi a vedere la famiglia - l’essenza dell’idea di famiglia - realizzata anche nelle unioni di fatto. Una famiglia costruita su affetti profondi, sull’aiuto reciproco, sulla lealtà e fedeltà anche al di fuori della forma sacramentale esiste e lega, in quanto essenza distillata di un’idea, una grandissima schiera di credenti. Perché muovere guerra a questa famiglia fino a scendere in campo per impedire una dolce legislazione a favore dei suoi componenti? Perché chiedere ai cattolici che operano nella politica una coerenza tra coscienza e fede che non viene richiesta davanti ad altre legislazioni lesive della dignità umana, del diritto, del senso dell’umanità?

Nella pace con gli esseri umani e tra gli esseri umani si è liberi di dire le proprie ragioni, di costruire con esse. Se ne ha diritto. Nella guerra con gli esseri umani, anche se non te li cerchi, trovi alleati di convenienza, calcolatori alla ricerca di consensi al loro potere.

Mi piacerebbe che fosse musica, la Chiesa, nel valutare l’infinito e il finito nell’uomo. È l’immensa pietà, che in Dio ha sorgente, per il dolore sulla terra, più che le dottrine a farci fratelli in Cristo e fraterni.

Il sogno dell’essere fiore, della scoperta del prossimo, della giustizia, della dolcezza, il sogno dell’essere musica sono cose fragili come è nella natura stessa dei sogni.

Ma mirabili sono le vie dei sogni e la loro fragilità colma di significato la vita sulla terra e ci fa restare umani.



  1 Ingrid De Coc, Mappe del corpo, Donzelli poesia, 2008 
  2 Czeslaw Milosz, Il cagnolino lungo la strada, Adelphi, 2002. 
  3 James Hillman, L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Adelphi, 2002. 
  4 Josè Maria Gonzàles-Ruiz, Credere è impegnarsi, Cittadella editrice. 
  5 Albert Cohen, A voi fratelli umani, Marietti, 1990. 
  6 Pàvel N. Evdokìmov, L’amore folle di Dio, Edizioni Paoline, 1983. 
  7 Raimon Panikkar. Lo spirito della parola, Bollati Boringhieri, 2007. 
  8 Enrico Castelli, Il tempo esaurito, Fratelli Bocca editori, 1954. 
  9 Daniel Baremboim, La musica sveglia il tempo, Feltrinelli, 2007.

___

Il Samaritano e re Artù

Sull’esistenza di una morale laica

di Saverio Caruso

La gentile fantasia della condivisione delle fragili sorti delle creature e un viso chino sul dolore del mondo sono nel samaritano che soccorre sulla solitaria via di Gerico, resa più deserta dal passaggio di uomini di fede che, frettolosi e indifferenti, non si fermano a porgere aiuto. È proprio Gesù, nel racconto evangelico di Luca, ad attribuire al samaritano, uomo non religioso, il merito della compassione e il gesto di farsi prossimo e di soccorrere. Uno dei comandamenti del Cristianesimo, forse quello che dà più chiara identità alla fede cristiana, l’amore del prossimo, ha fondamento nella volontà buona di un uomo che trova in se stesso, nel suo essere umanità, il motivo di prendersi cura dell’altro.

La compassione, l’amore del prossimo, la bontà, la reciprocità hanno un’ampiezza di universalità che non può essere rinchiusa in una professione di fede o in una ideologia: non sopportano appartenenze. Le parole di Gesù sul buon samaritano (Luca, 10,25-37) fondano la natura universale e laica della tensione verso l’Altro e la speranza che, nonostante le immani forze immisericordi presenti nel mondo, non sarà mai vinta la nostra volontà di restare umani dentro e oltre ogni fede.

La volontà buona rende vivibile questa terra e l’universo, perché il suo contenuto morale (giustizia, uguaglianza, libertà, ricerca della verità, rispetto e attenzione verso gli altri nel riconoscimento dei diritti naturali e sociali) mette in armonia.

Il cuore dell’uomo è piccolo, ma sente grida di aiuto e porge aiuto, perché il compito di fondare il mondo umano appartiene a tutti. Allora un anonimo fiammingo del sec. XV si esprime così: “Cristo non ha più mani / ha soltanto le nostre mani / Cristo non ha più voce / ha soltanto la nostra voce”. Le mani e la voce di tutti gli uomini di volontà buona.

Allora grande è il piccolo cuore dell’uomo, capace di una piccola bontà che soccorre e crea legami, ed è, per lo scrittore Vasilij Grossman, “il punto più alto a cui lo spirito sia pervenuto...Essa è invincibile. Quanto più è stupida, insensata, quanto più è impotente, tanto più è infinita. Davanti ad essa, il male non può nulla...I profeti, i leaders, i riformatori sono impotenti davanti a lei...È la bontà della vecchia che porta un pezzo di pane a un prigioniero, del soldato che dà da bere dalla sua borraccia al nemico ferito...., del contadino che nasconde nel fienile il vecchio ebreo”. Questa bontà è senza testimoni, “una piccola bontà senza ideologia. La si può chiamare bontà insensata. La bontà degli uomini fuori dal bene religioso o sociale (“Vita e destino”).

Anche l’ateismo appare provvidenziale nella ricerca di una morale assolutamente umana. In uno dei racconti chassidici pubblicati da Martin Buber si legge: “Rabbi Moshe Löb diceva: Non esiste qualità o forza dell’uomo che sia stata creata inutilmente. Ma a che scopo sarà stato creato l’ateismo? Perché quando uno viene da te e ti chiede aiuto, tu non devi raccomandargli di avere fiducia e di rivolgere la sua pena a Dio. Ma devi agire come se Dio non ci fosse, come se in tutto il mondo ci fosse uno solo che può aiutare quell’uomo: e quell’uno sei tu”.

Nel suo ultimo recente romanzo “Il dono”, la scrittrice Toni Morrison racconta di una madre nera che offre, a un mercante (ma non di uomini) che è passato a esigere un credito presso un proprietario di terre e di schiavi (cattolico), la sua bambina per salvarla da un futuro di schiavitù.

Questa madre ha colto negli occhi dell’uomo una luce di bontà, uno sguardo umano, come dice lei stessa alla fine del libro: “Ho detto te. Di prendere te, mia figlia. Perché ho visto che l’uomo alto vedeva in te una bambina umana, non dei pezzi da otto. Mi sono inginocchiata davanti a lui. Sperando in un miracolo. Ha detto sì. Non è stato un miracolo donato da Dio. È stata una misericordia. Offerta da un essere umano. Sono rimasta in ginocchio. Nella polvere dove il mio cuore rimarrà ogni notte e ogni giorno finché non capisci quello che so e che tanto vorrei dirti: ricevere il dominio su un altro è difficile, lottare per il dominio su un altro è sbagliato; cedere il dominio di sé a un altro è male”.

È stata una misericordia offerta da un essere umano che non ha ceduto il dominio di sé, cioè la propria coscienza, ed è rimasto umano. Non questa o quella fede, non questa o quella ideologia, ma la coscienza è il fulcro di ogni morale. In essa vivono o deperiscono tutti i principi che fanno il mondo etico e la comunità umana. E uomini e donne sono disposti a dare la vita per la giustizia, la libertà e l’uguaglianza, la solidarietà, per i propri simili senza diritti, e spesso sono guidati da convinzioni non religiose, anzi sono costretti a muovere, per conquiste umane e sociali, contro i poteri religiosi. Il filosofo cattolico Charles Taylor scrive (in “L’età secolare”) che “ci sono molti modi per fondare una teoria dei diritti umani, e quella religiosa non è migliore, più sicura, rispetto ai tentativi dei laici”.

Per una straordinaria commistione di amore del prossimo e di crudeltà, è stata data legittimazione religiosa alla schiavitù nei tempi moderni (i negri non hanno anima?); per una strana commistione di dolcezza (il suono delle campane) e crudeltà, le campane delle chiese inglesi hanno suonato a lutto all’annuncio dell’abolizione della schiavitù nelle colonie britanniche. Spesso le fedi stanno nelle corti del mondo, a sostegno del potere, e mostrano un’altra strana commistione: quella tra amore del prossimo e amore per le dittature. E a lungo la richiesta della libertà dei singoli e dei popoli è stata dichiarata dalla Chiesa un’idea demoniaca.

La cultura laica - anche di uomini profondamente religiosi - fondata sulla coscienza-dominio di sé autonoma di minoranze generose e illuminate, ha redento il mondo, seppure mai in via definitiva, perché permangono su questa terra gli istinti che ci fanno disumani.

Ampi e profondi sono i rapporti tra cultura religiosa e cultura laica e c’è chi sostiene che illuminismo e marxismo sono eresie cristiane. Gabriella Caramore (“La fatica della luce. Confini del religioso”) dice che oggi più che mai “ci è chiesto di comprendere, con intelligenza, che chi non crede in Dio, può credere però, a pieno titolo, a quelli che dentro i testi delle Scritture (da quelle ebraiche a quelle cristiane a quelle dell’islam) sono chiamati, in maniera più o meno indiretta, i ‘nomi’ di Dio: la giustizia e la misericordia, la libertà e la pace, la verità e la fedeltà, la bellezza e l’umiltà, la rettitudine e l’intelligenza. Per tutti - credenti e non - si tratta di far sì che non siano nomi vuoti, parole con cui si copre il proprio deserto, maschere per la propria inettitudine. Ma un vero esercizio di ricerca, un banco di prova per la propria umanità”.

L’ampiezza di questi rapporti è presente anche nelle idee di quegli uomini illuminati che nell’antichità, intorno al V sec. a.C., apparvero quasi contemporaneamente in varie parti del mondo. Richiamandosi a un fondamento religioso mai enunciato compiutamente, essi hanno elaborato contenuti di civiltà centrati su una elevata moralità nei rapporti umani.

Uno di loro è Maestro Kung (Confucio), che percorre la Cina dicendo di ispirarsi a una “Via del Cielo” che non si può definire né insegnare e di cui, come lamenta qualcuno dei discepoli, egli non parla mai. Egli è spirito profondamente religioso e inscrive i principi morali nei “Decreti del Cielo”, ma non formula una teologia e non fonda una istituzione della fede. Le testimonianze dei discepoli ci dicono che le parole di Confucio contengono una delle più grandi esaltazioni laiche della carità, della sincerità, della giustizia, della misura.

La figura del saggio, tramandata fino a noi, è quella di un uomo che indica come regola di vita la reciprocità e così la enuncia: “Ciò che non vuoi sia fatto a te non fare agli altri”; che nell’impegno ininterrotto di autoperfezionamento “vuole progredire verso l’alto”, mentre “l’uomo volgare progredisce verso il basso”. Il saggio “perfeziona le qualità migliori dell’uomo, non le peggiori. L’uomo volgare fa tutto l’opposto”. Solo l’uomo volgare ama “l’amicizia con uomini abili nel servilismo”, mentre “il saggio è accondiscendente ma non servilmente concorde”. Il saggio sa che può sbagliare nel conoscere e nell’agire, ma “l’errare del saggio è come un’eclissi di sole o di luna: quando sbaglia tutti lo vedono, quando si corregge tutti guardano a lui”. Al contrario, “i suoi errori, l’uomo volgare sicuramente li abbellisce”.

Quanti, tra gli uomini che cercano notorietà di guida, quanti tra gli uomini che professano fedi sono permeati dalla fresca universalità di questa saggezza?

Mi sorprende, il sopraggiungere, nel discorso di molti credenti, di una sorta di incurvatura dell’anima, che li porta a non riconoscere, nella società umana, l’esistenza di una morale laica. Si tratta di una rinuncia a rapportarsi con alcuni dei più alti contenuti di civiltà dell’uomo. È vero che essi sono stati raggiunti anche contro il potere religioso, ma spesso un modo coraggioso di vivere la fede ha prodotto laicità all’interno di una religione.

Il samaritano è un laico e, come laico, cioè uomo dotato di coscienza autonoma che ha a cuore ciò che è umano, è innalzato da Gesù, che lo indica come esempio a coloro che vogliono meritarsi il regno dei cieli. Anche un laico, allora, può dare significato alla vita di un credente. La via delle ostinate rinunce non è feconda di patti di grazia tra gli uomini. Molti, che dicono di aver ascoltato la voce di Dio, si agitano per uccidere tutti i nomi di Dio e fanno soffrire, con dovizia di mezzi, gli esseri umani e gli angeli. Sono in balia di una disumanità che vanifica il loro stesso nome. La volontà buona crea legami anche tra diversi. Essa è il fiore di una intelligenza che non cede a nessuno, mai, il dominio di sé, la propria libertà.

La coscienza libera di fare il bene, che non si fa lusingare da richiami di appartenenza né diminuire da ostinate inerzie dottrinarie, respira “chiacchierando con gli angeli alla mattina presto / chiacchierando con gli angeli in quella terra. / Io voglio far parte di quella orchestra / e chiacchierare con gli angeli tutto il giorno”. Così dice il canto composto da una signora inglese, canto adagiato su una musica di allegra dolcezza, che io ho sentito dalla voce di un bambino di nome Arty, il nome di quel grande re, insieme laico e credente, che visse tra cavalieri senza macchia, in continuo perfezionamento di sé verso l’alto e dediti ad alleviare le sofferenze dei più deboli, a soccorrere la fragilità del mondo.

Saverio Caruso

 



Domenica 27 Dicembre,2009 Ore: 10:25
 
 
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