La Stampa, 30 settembre 2007
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Nell’anamnesi del “tempo di un tempo” da me intrapresa nei mesi scorsi non può mancare una rilettura sulla vita cristiana
come era vissuta fino agli anni sessanta nei paesi del Monferrato e delle Langhe. Inoltre, la recente liberalizzazione
della antica messa – detta di san Pio V – da parte di Benedetto XVI mi ha riportato più volte al mio vissuto nell’infanzia,
nell’adolescenza e nella giovinezza, dato che la riforma liturgica del Vaticano II è stata attuata quando ormai avevo quasi
trent’anni. Tutta la mia formazione cristiana, spirituale e teologica era avvenuta prima del concilio e questo evento dello
Spirito ha accompagnato i mutamenti non solo della vita ecclesiale, ma anche della mia vita interiore più profonda. Ripeto
sovente ai più giovani che io a vent’anni ero un cattolico post-tridentino “doc” nella fede, nella morale, nell’impegno che
allora non si diceva “ecclesiale” bensì di “apostolato”. Del resto, abitavo di fronte alla chiesa e quindi il parroco mi
chiamava regolarmente quando c’era bisogno per le messe, i vespri, i funerali, le “cerimonie” per benedire i temporali e
scongiurare la grandine... insomma, per ogni cosa che richiedeva il suo intervento. A sette anni mi fu insegnato il latino
e questo mi permetteva di recitare sovente il breviario con il parroco o con i preti che venivano a predicare alla
domenica: i frati passionisti, che arrivavano in bicicletta dal santuario delle Rocche e dei quali si raccontavano le
eroiche penitenze e le flagellazioni nel giorno del venerdì, e i giuseppini di Asti.
A quei tempi si può dire che nei paesi di campagna tutta la vita era innanzitutto vita di una comunità cattolica, nel senso
che tutti andavano in chiesa e dicevano convinti di credere in Dio, salvo qualcuno che si diceva “comunista” ma che la
gente preferiva chiamare “strano”: non sorprende quindi che la figura centrale fosse quella del parroco. Era lui l’autorità
più ascoltata e rispettata del paese: la gente andava da lui per chiedere consigli sulle questioni decisive, soprattutto di
morale, ma anche per un parere in merito al matrimonio, in particolare se la futura sposa non era del luogo. Il parroco era
dunque il riferimento di tutti, e anche i pochi che gli erano avversi lo rispettavano, pur tenendosene a distanza. Le
tensioni, le polemiche dure e a volte anche le lotte avvenivano per esempio quando qualcuno voleva trasformare il “ballo a
palchetto”, montato per pochi giorni in occasione della festa patronale, in una pista da ballo permanente... Sì, perché
allora il ballo era considerato un luogo di perdizione: chi vi andava doveva poi confessarsi e comunque il parroco dal
pulpito, con voce a volte minacciosa a volte implorante, non mancava di fustigare i nuovi comportamenti che iniziavano a
prendere piede nel dopoguerra, accusandoli di portare alla distruzione della morale, delle famiglie e della fede cristiana. Così, se il prete tuonava contro qualche peccato pubblico, il biasimo del paese contro i peccatori era assolutamente
univoco. Del resto il parroco sapeva minacciare come i profeti biblici: carestie, grandine, siccità erano tutti frutti del
comportamento peccaminoso di chi non andava a messa la domenica o di chi peccava soprattutto nell’esercizio della
sessualità. Sì, perché la fede era forte e convinta, ma la coerenza era rara, allora come oggi. Non dimenticherò mai il
fatto accaduto in un paese vicino al mio: il parroco tuonò furioso contro due fratelli che da Torino tornavano al paese di
domenica e osavano lavorare in quel giorno di festa per costruirsi una casa; questi, seccati per la reprimenda, lo
picchiarono fino a mandarlo in ospedale, e il vescovo allora diede l’interdetto sull’intero paese: per settimane nessun
sacramento poté essere celebrato in loco e i fedeli dovevano recarsi nei paesi limitrofi per la messa. Parroci potenti che
chiudevano e aprivano il cielo come Elia, maledivano gli animali nocivi alla campagna, benedicevano stalle e bachi da seta;
preti apocalittici che minacciavano l’inferno ed erano capaci di far sentire l’odore di zolfo agli ascoltatori; parroci che
erano temuti ma anche rispettati perché dedicavano tutta la loro vita e spendevano tutte le loro forze per le “anime”, si
diceva, loro affidate. Quando un prete passava per strada, lo si salutava non come gli altri con un normale “buongiorno”,
ma con un “sia lodato Gesù Cristo!” e lui rispondeva “sempre sia lodato!”, sollevando appena il suo tricorno nero. A quei tempi la domenica era ancora “la domenica”: il week-end era parola e prassi sconosciuta, nessuno andava via per gite
o viaggi, ma tutti dalla dispersione delle cascine in campagna e dai luoghi di lavoro cercavano di ritrovarsi, di
incontrarsi per “fare due parole” e rinnovare così la conoscenza e l’amicizia. La domenica iniziava quand’era ancora buio,
alle cinque, con la “messa bassa”: una celebrazione al lume di candela, senza canti né predica, che finiva velocemente,
pensata per le madri e le donne di famiglia, perché alle sei potessero essere già tornate a casa per dedicarsi alla cucina;
il pasto domenicale, infatti, doveva essere davvero festivo. Alle otto c’era poi la messa per i bambini, seguita dal
catechismo tenuto dalle suore; ma era davvero domenica attorno alla messa delle undici, la “messa granda”: già dalle dieci
si formavano in piazza capannelli di uomini che parlavano tra loro, a volte ridendo e scherzando, ma più sovente
lamentandosi del tempo, delle malattie nell’orto e nella vigna, delle diverse “disgrazie” che il contadino teme e conosce
bene. In chiesa entravano solo donne, ragazze e qualche raro anziano devoto e così iniziava la messa cantata con molta
convinzione e fervore, anche se quella gente semplice di campagna non capiva né quello che cantava in latino né tanto meno
quello che, sempre in latino, diceva il prete.
Il prete, dopo alcune formule recitate ai piedi dell’altare, saliva gli scalini e cominciava a “dire messa”, voltandosi
solo per qualche “Dominus vobiscum”, cui la gente rispondeva “et cum spiritu tuo”, ma cosa dicesse il prete negli oremus o
cosa leggesse dal messale nessuno lo sapeva o la capiva. Messalini per i fedeli a quell’epoca non ce n’erano, non li
avevano nemmeno le suore: quelli famosi del Caronti o del Lefebvre erano merce rarissima e io, conoscendo bene il latino,
ero uno dei pochi che poteva seguire ogni parola. Quanto al Vangelo, il prete lo leggeva dapprima in latino sull’altare,
con le spalle girate al popolo, poi si voltava e, recatosi alla balaustra, lo leggeva in italiano per la gente: era quello
l’unico testo che tutti capivano, seguito dalla predica in cui trovava spazio ogni genere di ammonizione ed esortazione,
attinente più alla situazione e alle vicende locali che non al brano appena letto. Al momento dell’offertorio – ero
chierichetto sempre presente – il prete mi mandava fuori sulla piazza a chiamare gli uomini perché entrassero a “prendere
messa”, altrimenti quella non sarebbe stata più “valida” per loro. Così, mentre le donne recitavano il rosario sottovoce e
gli uomini continuavano a parlottare, la messa procedeva spedita, con il prete che bisbigliava tutte le formule. Solo al
momento dell’elevazione il campanello avvertiva, svegliava e richiamava tutti: mentre il prete innalzava prima l’ostia poi
il calice e si genufletteva, il silenzio si faceva totale e assoluto: chi chinava la testa, chi si metteva in ginocchio,
tutti vivevano con grande timore il momento culminante di tutta la messa. Il sacrestano, che se ne stava nel campanile in
attesa, sentito il suono del campanello del chierichetto, faceva a sua volta rintoccare la grande campana che diffondeva
quel richiamo solenne per tutto il paese e la campagna: i devoti restati a casa o per strada si facevano il segno della
croce, mentre i più prosaici commentavano: “è quasi finita, si può buttare la pasta...”. Prima della comunione del prete –
normalmente l’unico a comunicarsi durante la messa – gli uomini uscivano dalla chiesa e riprendevano i loro capannelli,
mentre le donne intonavano canti pii e devoti. Era l’ora in cui ciascuno tornava a casa per il pranzo perché ormai “il
dovere era stato fatto”.
Ma la domenica non finiva a tavola con il pasto abbondante in cui quasi sempre regnava il “bollito”: molti, soprattutto
donne, bambini e vecchi tornavano presto in chiesa per i vespri e poi c’era la doverosa visita al cimitero, perché allora
si esprimeva soprattutto così l’amore che si provava per i morti. Verso l’imbrunire si rientrava a casa, ci si toglieva “il
vestito della festa” e si tornava al vivere quotidiano segnato dal lavoro da mattina a sera.
Che dire oggi di quella messa “antica”? Era senz’altro consona a quel tempo che era davvero il tempo della cristianità e
confesso che a me non ha fatto male, anzi, mi ha fornito una robusta spiritualità cristiana. Tuttavia non ne provo
nostalgia, anche se è sempre restata per me un inestimabile monumento della fede, e ne vedo anche con lucidità i limiti:
solo pochi capivano cos’era la messa, i più ne riempivano il tempo con la recita del rosario o le chiacchiere sul sagrato;
le letture bibliche erano scarsissime: un paio di brani dell’Antico Testamento in tutto l’anno, testi quasi unicamente del
Vangelo di Matteo e ammonizioni dell’apostolo Paolo. Le messe feriali poi erano quasi sempre “da morto”, con le medesime
letture ripetute ogni anno per circa trecento giorni in latino: si imparavano a memoria, sì, ma quanto a capirle e ad
approfondirne il senso... L’unica variante, ma quasi solo “scenografica”, erano le messe da morto dei ricchi e dei
notabili, nella cosiddetta “prima classe”: si montava in chiesa un catafalco altissimo e sovente arrivavano anche due preti
in più da fuori; tutto era più solenne, cantato con più cura e con la partecipazione delle confraternite cui il ricco
defunto aveva lasciato offerte.
Altri tempi, sì. Ma si avvertiva già un’aria di cambiamento: la chiamavano secolarizzazione, e il prete metteva in guardia
dalla modernità che avanzava, dai costumi “americani” – in chiesa si parlava addirittura di “americanismo” come eresia
cattolica e pericolo incombente! - dal boom economico. L’arguzia dei contadini sapeva però fare dell’ironia anche se queste
ammonizioni severe. Ricordo mio padre, amicissimo del parroco anche se assolutamente non praticante, che di fronte
all’ennesima predica del parroco contro il consumismo dilagante, gli disse: “Ma come! Quando mangiavate solo voi i capponi
era Provvidenza, adesso che li mangiamo anche noi è consumismo!”. Anche così, in quel tempo, si viveva, si cercava di
essere cristiani, si scherzava, riconoscendo tuttavia il dono prezioso che un prete poteva essere per tutto il paese e per
una convivenza serena, per una vita segnata da convinzioni etiche condivise dai più.
Enzo Bianchi
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dal sito del Monastero di Bose - http://www.monasterodibose.it/index.php/content/view/1636/114/1/6/lang,it/
Lunedì, 08 ottobre 2007
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